giovedì 28 maggio 2020

"TUTTI A CASA". La confusione nella cura sbagliata del coronavirus




Tutto dovrà avere una spiegazione, specialmente quando, come accade oggi, la mano destra finge di non sapere quello che fa la sinistra

di Alberto Zei


“La prova scientifica”
 A distanza di mesi dall’insorgere dei contagi da coronavirus, la progressione è stata fin dall’inizio molto significativa per le prospettive cui andava incontro l’intera popolazione. È vero che in Italia la Sanità non aveva la “prova scientifica” che potesse trattarsi di una vera emergenza, quantunque la comparsa di epidemie molto simili, come la “sars e la ”mers”, a distanza di poco più di un lustro, non lasciava presagire qualcosa di diverso.
E’ pur vero che se per ogni preannunciato pericolo dovessimo preparare logisticamente le strutture di prevenzione o di contenimento, non avremmo possibilità di dedicare alla realtà quotidiana le nostre modeste risorse nazionali. Altra cosa però è la preparazione mentale all’ emergenza, non mancando né la cultura, l’intelligenza, né l’esperienza, né l’improvvisazione nonché la creatività tipica del nostro Paese, se fossimo stati almeno meglio informati.
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Il disorientamento
“Uomo avvisato mezzo salvato” recita un vecchio adagio di saggezza popolare.
Quando infatti si è verificato nella realtà, ciò che in teoria poteva prevedersi, ecco che qui il fallimento è stato pressoché totale. Il disorientamento che è subentrato non è stato soltanto logistico per la mancanza delle idonee strutture sanitarie che ovviamente in Italia non erano approntate, ma soprattutto per le mancate direttive di coordinamento centrale, sia da parte del Governo, sia da parte del Ministero della Salute e dei suoi distretti nazionali





 Lo smarrimento è stato tale da ritenere emblematico quello immortalato nel celebre film “Tutti a casa”, dove la confusione generale bloccava ogni iniziativa.
In riferimento all’individuazione della patologia e ai metodi di cura, anche con il passare del tempo di settimane nonché di mesi, non si è ancora arrivati ad un coordinamento unitario sul tipo di malattia e conseguentemente sulle cure necessarie da adottare per non morire.  
Il medioevale ricorso all’isolamento è stato l’unico rimedio trovato dalle Autorità sanitarie per sottrarci dal contagio dei contatti ravvicinati. Ma per la terapia da individuare e da applicare con urgenza ai cittadini che si presentano in ospedale con la tipica gravità della malattia?
I vari distretti sanitari stanno ancora adattando i sintomi della patologia alle proprie risorse terapeutiche, anziché la malattia alle oggettive necessità di cura. Infatti, a fronte di diagnosi clamorosamente sbagliate, come quella delle polmoniti interstiziali, malgrado il numero elevato di autopsie eseguite nel nostro Paese, non è stata ancora ufficialmente accertata la vera natura delle morti sopravvenute. Quindi, ciò che più conta, le autorità sanitarie preposte non sono state in condizione di indicare a tutte le strutture ospedaliere il protocollo terapeutico da praticare per la grave forma di tromboflebite diffusa covid-19, da tempo diagnosticata da alcuni encomiabili medici ricercatori.

I ventilatori polmonari
Le iniziative adottate sono state quelle di reperire con l’urgenza di vita o di morte, i ventilatori per insufflare ossigeno nei polmoni al fine di migliorare la scarsa capacità di respirazione dei ricoverati in terapia intensiva, così come tipicamente avviene quando è già in corso una vera polmonite. Ma se i pazienti non reagivano a questo tipico trattamento, già si doveva dedurre che polmonite non era. Ma di cosa altro allora poteva trattarsi, neppure se ne parlava.
Non solo, ma i vari distretti della Sanità nazionale erano mobilitati nell’inutile approvvigionamento di altri ventilatori polmonari con richiesta di onerose forniture persino dalla Cina. La patologia che però si rifletteva sui polmoni compromettendo la respirazione aveva prima invaso altri presidi tra cui il cuore, oltre che le vene delle gambe e altri organi importanti. Se il cuore non cedeva prima, specie nei più anziani, l’aggravamento della malattia provocava  non la polmonite,  ma un’ infiammazione diffusa che a sua volta causava emboli nelle piccole vene e nel tessuto capillare dei polmoni. Dal blocco della circolazione del sangue che ne conseguiva, subentrava la rapida necrosi del tessuto polmonare a valle dell’ostruzione e la morte del malcapitato.

L’ostinazione terapeutica
La risposta sanitaria nazionale di fronte a questa importantissima rivelazione  non vi è stata. La terapia praticata ha continuato al lungo ad essere quella della polmonite interstiziale con i risultati che tutti possiamo constatare. Solo alcuni Enti, per lo più privati, hanno potuto discostarsi da questo protocollo a seguito di una più accurata osservazione di ciò che effettivamente avveniva nell’organismo a causa del devastante effetto del covid-19. Rendendosi conto di questa anomalia polmonare alcuni medici non hanno inteso continuare le cure fino allora adottate. Questi pertanto, sono ricorsi all’uso di farmaci antinfiammatori e antiaggreganti per evitare la formazione di micro trombi diffusi nei capillari che, come detto, bloccando la circolazione del sangue, causano la morte del tessuto polmonare.  Il risultato è stato eccellente così come rivelano i casi – già menzionati in un precedente post – del Dott. Giampaolo Palma cardiologo titolare di un Centro medico di Nocera Inferiore, e del Prof. Maurizio Viecca primario del reparto di cardiologia presso l’ Ospedale Sacco di Milano.

In attesa del perché
Prima ancora del ritorno al  medioevo per sfuggire con l’ isolamento al covid-19, sarebbe stato sufficiente riferirsi ai primi successi terapeutici ottenuti all’inizio del secolo scorso con un metodo di terapia meno gravoso e più efficace. Si tratta di un tipo di cura basato sull’esperienza e sulla conoscenza della scienza medica del recente passato a fronte dei positivi risultati ottenuti fin dalla terribile influenza del 1918, denominata “spagnola”. In quegli anni era stato trovato un rimedio di cura, una sorta di vaccino (per rendere l’idea) mediante iniezione di siero contenente gli anticorpi presenti nel plasma delle persone guarite da quella stessa malattia. La qualcosa, ripetuta da alcuni medici anche in questa circostanza, ha portato a guarigione le persone così trattate, prevenendo gli ulteriori irreversibili aggravamenti che hanno già causato nel nostro Paese decine di migliaia di decessi. Naturalmente non si tratta di plasma “leva e metti” tra un paziente e l’altro perché come è arcinoto, quando hanno luogo le trasfusioni deve essere prima accertata la compatibilità per evitare uno shock anafilattico o altre gravi reazioni di rigetto. Ma questa è prassi medica consolidata.

La matrioska delle obiezioni
Del tutto pretestuose sono invece le obiezioni secondo cui, senza la prova scientifica della terapia da adottare, paradossalmente si arriverebbe a curare ad esempio il cancro, con quelle sostanze di fantasia che periodicamente vengono proposte in deroga ai protocolli terapeutici ufficiali. Ma un conto è il caso di malattie potenzialmente mortali, come appunto quelle degenerative, il cui decorso si protrae per anni; altro invece è quello di una patologia conclamata come il covid-19 il cui aggravamento senza farmaci è sinonimo di morte pressoché certa  nell’arco di qualche giorno.

La prima domanda che molti cittadini pongono per ora a loro stessi, ma nel futuro la porranno anche ad altri, è: "Perché mai si è continuato a curare i pazienti nello stesso modo sbagliato?". Allo stato delle cose non si intravedono valide ragioni, di fronte a casi di progressiva gravità mortale, per astenersi da differenti e più efficaci terapie, solo perché queste non hanno ancora ottenuto la cosiddetta “prova scientifica”.

2 commenti:

  1. È come se costoro usassero le alabarde pur avendo a disposizione i carrarmati. La quarantena andava bene nel medioevo. Condivido parola per parola questa validissima riflessione.
    Bravo!!!

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  2. Riflessione acuta e impeccabile, che sa vedere oltre..... Grazie Dottor Magaldi A Baricelli

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