Somewhere, ma dov’è il film? Una serie di “quadri” di maniera senza ritmo perché la lentezza con cui vengono presentati forse ti aiuti a riflettere sul “grande” tema esistenziale proposto: “Come puoi vivere se sei un attore di successo che gira in Ferrari, dorme in suite dotate di piscina privata, si addormenta grazie allo spettacolo di due professioniste gemelle, con tanto di pertiche smontabili, puoi avere tutte le donne che desideri, non sei neanche bisessuale, ma al tempo stesso sei amato teneramente da una figlia undicenne?”.
All’inizio del film si ha come l’impressione di un difetto nel montaggio, con la Ferrari che passa e ripassa davanti agli occhi dello spettatore, poi si comprende che difetto non è, perché un analogo ritmo si ripete quasi per ogni altra scena. Una scelta giustificata per predisporre il pubblico alla riflessione, come si diceva sopra o magari alla noia, foriera di interrogativi metafisici.
Johnny Marco [Stephen Dorff], l’attore italoamericano di successo, è considerato anche bello, ma la regia è abile nel mostrarci, con ripetuti primi piani del volto e del corpo [stomaco e pancia dilatati], i segni incipienti della decadenza fisica che s’accompagna al turbamento esistenziale. Frequenti lavaggi, oggetti e situazioni che si ripresentano ossessivamente sullo schermo per dare un’idea dell'angoscia che attanaglia il protagonista [vassoi della prima colazione, interni di alberghi lussuosi a cominciare dal celebre Chateau Marmont di Hollywood, bagagli caricati e scaricati su e da auto di grossa cilindrata etc…]. E, a parte Cleo [Elle Fanning] la ragazzina undicenne, dal volto iperanglosassone, che sa preparare appetitose prime colazioni e che naturalmente è gelosa delle donne che circondano il padre, tutti gli altri personaggi nel ruolo di fantasmi [compresa Laura Chiatti “la ragazza italiana” e il “medaglione nostrano” di cattivo gusto con Simona Ventura, Nino Frassica e Valeria Marini], chiamati alla vita unicamente a sostegno della tesi tacitamente annunciata: “Chi siamo veramente? Dove andiamo?”.
Il paradosso è evidente: se a porre la domanda fosse un povero cristo, non lo prenderemmo sul serio, ma qui ci troviamo di fronte ad uomo di successo, ancora giovane e bello, che può avere tutto ciò che desidera e che la provvisoria convivenza con la figlia ha messo in crisi. Quale la soluzione? Telefonare alla ex-moglie, chiederle aiuto tra le lacrime sperando che lei si commuova e corra in soccorso? Niente di tutto questo, perché il pianto del bell’uomo di successo non ha il potere né di commuovere la donna né i sempre più annoiati spettatori. E allora non resta che salire sulla Ferrari, farci un bel giro con opportune accelerazioni, uscire su una strada secondaria che costeggia una campagna reticolata e desertica, scendere dall’auto, lasciando la chiave inserita nel quadro per la gioia dei ladri e proseguire a piedi col sorriso sulle labbra.
Insomma, si può vincere il Leone d’oro del Festival di Venezia, anche con questi ingredienti, soprattutto se ci si chiama come la regista e se un amico intimo, un personaggio come Quentin Tarantino, presidente della giuria, così si esprime: “È un film che ci ha incantato fin dalla prima scena e che poi è cresciuto nei nostri cuori e nelle nostre analisi”.
Tutto bene, purché il film serva alla Ferrari per aumentare le vendite in USA e nel mondo.
Sergio Magaldi