GIULIO TREMONTI, USCITA DI SICUREZZA, Rizzoli, Milano,
2012, pp.260
Prima di entrare nel merito
dell’ottimo lavoro di Giulio Tremonti, torno brevemente sul commento di “Grande
oriente democratico” ai miei ultimi post. Non per rinfocolare una
polemica, semmai per spegnerla definitivamente.
“G.o.d” mi attribuisce la qualifica di “perfetto adepto marxiano”,
in quanto sarei rimasto abbarbicato alla concezione di una realtà storica, dominata
dalla struttura economica, come generatrice di ogni forma del
sapere e del sentire umano [sovrastrutture] e, ancor più, sarei
prigioniero della dialettica hegeliana, nell’attesa avveniristica del paradiso
in terra, dopo l’inevitabile abbattimento della classe borghese da parte del
proletariato industriale.
Per il primo aspetto, già Antonio Labriola [1843-1904] fece
giustizia di questa “volgare” e riduttiva interpretazione del marxismo,
purtroppo in voga tanto nello stalinismo, che nel neo-idealismo italiano,
referente ideologico del fascismo e dei suoi derivati: il rapporto
struttura-sovrastruttura, lungi dall’essere meccanicistico, è da intendersi
come circolare e dialettico e talora è addirittura la sovrastruttura ad
anticipare o accelerare i processi di mutamento della struttura.
Per il secondo aspetto, ribadisco la mia totale distanza da una
concezione, per così dire, di automatismo rivoluzionario, secondo cui la
classe oppressa dei lavoratori salariati, in omaggio alla dialettica hegeliana,
abbatterebbe fatalmente la borghesia, così come questa ha abbattuto la società
feudale. Si veda in proposito quanto ho già scritto nel post del 24
Giugno, La finanza al governo:
“[…] Non a caso, più di uno studioso ha visto nel Manifesto
e nel Capitale un monumento elevato da Marx alla borghesia, più che un
atto di accusa contro di essa; di là dagli schematismi semplicistici con i
quali, soprattutto da parte politica, si è voluto guardare al filosofo
ebreo-tedesco: la classe oppressa dei lavoratori salariati, in omaggio alla
dialettica hegeliana, abbatterà fatalmente la borghesia!”
Circa
le restanti osservazioni di “G.o.d”, nulla da eccepire, perché concordo anch’io
sul ruolo avuto dalla Massoneria in tutte le rivoluzioni liberali. Anche se la
Massoneria non è una classe sociale e
la sua presunta vocazione “interclassista” mi pare si eserciti soprattutto
nell’unificare le tre anime di una stessa classe: la piccola, la media e l’alta
borghesia degli affari. D’accordo
anche sui cosiddetti “ceti artigiani e popolari più acculturati” che sarebbero
parte integrante nei processi rivoluzionari. Se c’è, infatti, una verità
storica che la realtà ha sin qui mostrato, non contemplata da Marx, è
l’aspirazione di gran parte del proletariato e dei ceti popolari in genere a
“saltare il fosso” e a farsi borghesia.
Marx ha invece “indovinato”, secondo le
parole stesse di Giulio Tremonti, un’altra previsione:
“E possiamo solo prenderne
atto, notando filosoficamente che è comunque proprio con la globalizzazione che
si è avverata la profezia di Marx:'All’antica indipendenza nazionale si
sovrapporrà una interdipendenza globale'”. [Op.cit.p.211]
E l’eco di Marx, sub specie economica
e filosofica, ad un osservatore attento, echeggia un po’ in tutto questo Uscita
di sicurezza dell’ex-ministro italiano dell’economia, tornato suo malgrado
ad occuparsi di libri. Già nelle prime righe dell’introduzione, prendendo in
prestito il linguaggio di Hobbes:
“Oggi l’ideale campo
d’azione dell’homo homini lupus è il mercato finanziario” e subito dopo osservando come “a
ridosso della globalizzazione, e per effetto primo della globalizzazione […]
abbia preso forma e forza un nuovo tipo di capitalismo”.
Ciò
significa – osserva Tremonti – la nascita di un nuovo tipo di capitale: “il
capitale dominante, la base del superpotere transnazionale del mercato
finanziario, ciò che esprime e configura, nella sua forma ultima, l’odierna dittatura
del denaro”.
Ne discendono, conclude
su questo punto l’ex-ministro dell’economia, non senza amarezza e qualche
rimpianto, le manovre sullo spread del
potere finanziario, l’arrivo del Fondo Monetario Internazionale a ridurre la
sovranità degli stati che incautamente vi facciano ricorso e, soprattutto, il
governo dei tecnici non eletti dal popolo, la questione che sembra “bruciargli”
di più…
Le analisi di Tremonti continuano con una
valutazione a dir poco contraddittoria della globalizzazione, perché basata su
categorie ben note, quelle dell’essere e del dover essere. Da una parte,
si dice, che la globalizzazione nasce “per compressione e
accelerazione della storia, da un’élite di potere determinata e ‘illuminata’”, e che ha spezzato la catena storica
Stato-territorio-ricchezza, indebolendo il potere statale e favorendo la
ricchezza finanziaria “divenuta sempre più forte, alata, apolide e
irresponsabile, finalmente capace di volare sopra i territori, capace di volare
fuori dell’antica gabbia dello Stato-nazione, nei nuovi cieli della repubblica
internazionale del denaro”[pp.20-21].
Ma da un’altra parte, e per diverse pagine,
Tremonti ci spiega quello che la globalizzazione, causa prima dell’odierna
crisi che attraversa l’Occidente [forse con l’unica eccezione della Germania,
aggiungerei io], avrebbe dovuto essere e non è stata, per gli errori dei molti
e per l’inganno di pochi.
La stessa cosa, naturalmente egli dice circa
l’introduzione della moneta unica in una Europa, senza Europa, e questo si
potrebbe affermare anche per tutte le istituzioni dove si evidenzi uno scarto
tra la realtà com’è e come avrebbe dovuto essere e non è stata…
Personalmente, non amo questo tipo di
analisi, quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto, quello che si
potrebbe fare e siate pur certi che non si farà, perché in certe questioni la
volontà conta poco e occorre invece, per cambiare realmente qualcosa, che esplodano
tutte le contraddizioni, un processo per il quale occorrono anni, quando
addirittura non bastano i secoli.
Inoltre mi chiedo, nel caso specifico
dell’Italia e dell’Europa, dov’era il ministro dell’economia quando “si
chiudevano i giochi”? Preoccupato, forse, di tali possibili obiezioni, Giulio
Tremonti non esita a pubblicare in appendice, sottoforma di allegati, le
lettere e i documenti inviati e/o sottoposti a coloro che di volta in volta
esercitavano il potere negli organismi comunitari. È sufficiente questo? In
luogo di proporre in un volumetto, peraltro interessante, il vademecum
per “l’uscita di sicurezza” dalla crisi che minaccia soprattutto l’Italia e
l’Europa che si affaccia sul Mediterraneo, non sarebbe stato meglio fare la
voce grossa per farsi ascoltare al momento opportuno?
sergio magaldi