SEGUE DA:
NOTE SULLA QABBALAH: parte IV, l’uno e le porte della conoscenza (clicca sul titolo perleggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte V, l’uno e l’unificato (clicca sul titolo per leggere)
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ONNIPOTENZA DIVINA E LIBERTA’ UMANA
Solo con un altro filosofo, Hans Jonas [1903-1993], la questione
posta dalla teodicea per rapporto alla Shoah, sembra avere un chiarimento che
in un certo senso è anche la soluzione e la morte della teodicea classica.
Jonas ritiene che dopo Auschwitz non sia più possibile conciliare tra loro
onnipotenza, bontà e misericordia di Dio, e ad essere sacrificato è l’attributo
dell’onnipotenza non quello della bontà, della misericordia e della
partecipazione di Dio alla sofferenza umana.
L’argomento trae il suo fondamento
dalla narrazione della creazione dell’uomo e del mondo del noto cabbalista di Safed,
Yitzhak Luria [1534 – 1572], detto il leone:
la creazione non consiste – come già si è accennato – in un prolungamento o in
una concentrazione di Dio nel mondo, ma in uno Tzimtzum, cioè in una contrazione,
in un ritrarsi di Dio da uno spazio
che da quel momento diviene altro da sé, e rispetto al quale Dio è tutt’altro che indifferente ma sul
quale non può intervenire, pena la fine stessa del mondo.
Perché tutto questo?
Jonas rende esplicito in senso filosofico l’argomento di Luria: se Dio, come
totalità, si fosse semplicemente steso, prolungato o concentrato nel mondo,
rendendolo simile a se stesso, per l’uomo e per la vita, così come la
conosciamo non ci sarebbe stato posto, ma è altrettanto vero che con lo Tzimtzum, lasciando
nascere l’uomo e il mondo, Dio lasci entrare nello spazio lasciato libero,
anche il male metafisico, il male fisico e morale. L’argomento di Luria e di Jonas, naturalmente, è stato
giudicato eretico dalla teologia ebraica e anche dalle altre due teologie
monoteistiche, ma sembra l’unica spiegazione possibile, nel linguaggio della
Qabbalah e della filosofia, per conciliare tutti gli attributi divini con
l’esistenza del male, con Auschwitz e con la Shoah.
Diversamente, Emil Ludwig Fackenheim [Halle 1916-Gerusalemme 2003], che fu
filosofo, ma anche rabbino e teologo, vede la questione della Shoah e
dell’onnipotenza divina nel solco della tradizione teologica ebraica. Il
disegno di Dio, anche nel male che colpisce i giusti, come nel caso del
sacrificio di Isacco e come soprattutto nelle sventure di Giobbe, se non è
immediatamente comprensibile, lo diviene più tardi col divenire della storia
umana. Fackenheim ritiene che la fine
della diaspora, la voglia di
sopravvivere del popolo ebraico alla follia sterminatrice di Hitler e dei suoi
aguzzini, sia stata la migliore risposta
alla Shoah e che sempre, al silenzio di Dio, debba corrispondere il silenzio
dell’uomo e il tiqqun ha’olam, la
riparazione del mondo.
Un concetto teologico, dunque, anche questo mutuato
dalla tradizione cabalistica e che diventa persino comprensibile in una
accezione puramente laica. Scrive Fackenheim [The Holocaust and the State of Israel: Their
Relation, in E. Fleischner (cur.), Auschwitz: Beginning of a New Era?,
KTAV (1977), pp. 209-210]: “Gli storici
vedono una connessione causale tra l'Olocausto e la fondazione dello Stato
d'Israele. Il ragionamento è come segue: se non fosse stato per la catastrofe
ebraica europea, tutti quei secoli di anelito religioso per Sion, tutti quei
decenni di attività sionista secolare, insieme a tutto l'incoraggiamento dato dalla
Dichiarazione Balfour, avrebbe prodotto al massimo un ghetto palestinese.
Avrebbe certo potuto essere una comunità con stupendi risultati interni, ma
piuttosto che una "patria" per ebrei dispersi senza tetto, sarebbe
invece stata alla mercé di un qualche governo straniero di dubbia benevolenza.
Solo l'Olocausto ha prodotto quella disperata determinazione dei sopravvissuti
e di coloro che ci si identificavano; fece finire le incertezze dei leader
sionisti... e produsse un momento di respiro dal cinismo politico della
comunità internazionale, abbastanza a lungo da sancire legalmente lo Stato
Ebraico”.
La tesi, ancorché
intrigante, non sembra in grado di mettere in discussione l’estraneità di Dio
al mondo, dopo il gesto primordiale dello Tzimtzum che di fatto separa
l’universo dal suo creatore, e il venir meno – come sostiene Jonas sulla scia
della qabbalah luriana – dell’attributo dell’onnipotenza divina relativamente a
ciò che è divenuto altro da sé, ma è almeno rassicurante rispetto al dio
aristotelico, spettatore impassibile e indifferente. Su ogni vicenda mondana,
determinata insieme dalla libertà del’uomo e dalla necessità della natura, si
proietta d’ora in poi, attraverso la Shekinah degli ebrei, la Provvidenza dei
cristiani o la
Misericordia [Rahma] degli islamici - solo per restare tra le
cosiddette religioni del libro - la luce divina capace, prima o poi nel
corso della Storia, di illuminare la coscienza degli esseri umani.
sergio magaldi