SEGUE DA:
NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia (clicca sul titolo per leggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte II, antecedenti storici dello Zohar (clicca sul titolo per leggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte III, astrologia cabbalistica (clicca sul titolo per leggere)
Avvertenza: per leggere le lettere ebraiche occorre il font hebrew
LE 231 PORTE DELLA CONOSCENZA
Tornando all’Asse del Mondo, Telì
( y l t = 440) ha due ghematrie significative: Tam
\ t completo e Met t m morte. La ruota celeste è Galgal, che nel Talmud designa la ruota dello zodiaco. Nel Bahir (106) è l’utero o ventre ed ‘è nell’anno come un re nella provincia’
(Sepher Yetzirah,6:3). Non definisce il tempo (in quanto Telì è lo spazio), ma vi si trova
dentro. Detta altrimenti: il tempo non è che una determinazione dello spazio.
Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico in connessione con Galgal formano le 231 Porte della conoscenza, come è scritto nel Sepher Yetzirah (2:4): ‘22 lettere… Le
collocò in circolo come un muro con 231 Porte’. Una delle tante possibili speculazioni cabbalistiche che offre il Sèpher
Yetzirah si riferisce a b y t n Netiv, sentiero, che ha valore numerico 462,
sommando le 4 lettere dell’alfabeto ebraico che formano la parola (Nun 50+ Taw 400+
Yud 10+ Beth 2 =462). La metà del valore numerico di Netiv è 231, il numero
delle porte della Conoscenza, che formano tutta la realtà e che si possono
individuare attraverso più complesse indagini cabbalistiche. Le Porte si ricavano anche applicando una formula
basata sul principio seguente: dato un certo numero di punti (n) in una
circonferenza, il numero delle linee (L) che si ricavano connettendo tra loro
tutti i punti è L=n (n-1) / 2. Applicando tale formula alle 22 lettere si ha:
L= 22x21/2=231. La conoscenza delle 231 Porte pare servisse alla costruzione di
un Golem, perché ciò avvenisse erano necessarie 97.240 pronunce di lettere
associate alla cinque vocali primarie e alle quattro lettere del Tetragramma. Il restante 231 è rappresentato
da Israele che si scrive in ebraico con le lettere Yud-Shin-Resh-Aleph-Lamed, lettere
l a r c y che si possono
suddividere in Iesh-Rela che significa “Sono 231” . In tal senso,
Israele perde
qui i suoi connotati di realtà storico-geografica ed etnica per acquisire la
dimensione dell’universalità. Il
centro dell’albero dove convergono i trentadue sentieri è il fuoco originario
della manifestazione ed è rappresentato da Lev,
cuore, com’è scritto: ‘Il cuore è
nell’anima come un re in guerra’ (Sepher Yetzirah,6:3): il suo ruolo è di
conciliare le opposizioni e di creare
equilibrio e armonia (Thiphereth). Il Talmud identifica il cuore come lo
scenario della battaglia incessante tra impulso buono e impulso cattivo. Kaplan
osserva che le iniziali di Telì-Galgal-Lev
formano la parola Taghel presente nel
versetto di Isaia, 61-10: ‘La mia anima si
delizierà in Dio’. Per alcuni cabbalisti, la meditazione su questi tre elementi può condurre
all’estasi mistica.
CABBALISTI PROVENZALI E SEFARDITI: da Isacco il Cieco ad Azriel di Girona
Uno tra i
maggiori discepoli di Isacco il Cieco fu, come si diceva sopra, Azriel di
Girona che oltre ad occuparsi di astrologia cabbalistica, scrisse diversi
commenti e brevi trattati. Nel Commento al Libro della Formazione, si interroga
sulle sephiroth e sull’impossibilità per l’uomo di comprendere la prima sephirah
o corona suprema a causa della sua stretta connessione con Ein Soph. C’è a suo
giudizio – ed è un tema che ricorre spesso in Zohar – una potente
attrazione tra le nove sephiroth superiori e la decima sephirah, quasi due
amanti che si desiderano e si cercano per potersi finalmente possedere. Nel Commento
sull’unificazione del Nome, Azriel
riprende i temi cari al suo maestro: la distruzione del Tempio, l’esilio, la
presenza del male e la perdita
dell’unità del nome divino sono stati causati dal disordine generatosi
all’interno del mondo delle sephiroth: in nuce, una sorta di anticipazione
della rottura dei vasi della qabbalah luriana, come vedremo più avanti. Nel Commento
sulle leggende talmudiche, Azriel sostiene che il desiderio di Mosè di
conoscere il segreto dell’esistenza del bene e del male, dipese unicamente dal
fatto di ignorare quale modalità di pensiero circolasse realmente nelle
Sephiroth, ancorché fosse consapevole del loro comportamento nella realtà. Nei Principi
sul segreto della Preghiera delle 18 Benedizioni, egli afferma che la
meditazione sulle sephiroth, sulle lettere e sul Nome costituisce la vera
preghiera del cabbalista. Altre concentrazioni utili sono quelle sull’acqua e
sui colori. Nella undicesima benedizione indica i momenti del giorno propizi
alla recita dello Shemà Israel[1]:
“Sappi, figlio mio,
che l’Unità [contenuta nella preghiera ‘Ascolta Israele’ deve essere proclamata
in due momenti precisi del giorno:] quando la luce se ne sta per andare e
l’oscurità comincia ad apparire, e quando l’oscurità sta andando via e la luce
comincia a brillare. Questo testimonierà che il Signore è Uno [e che sta in
cima] in tutte le opposizioni” [2]
Nella quattordicesima benedizione, accenna a
temi che saranno ampiamente trattati nello Zohar: la conoscenza dell’uno
come unificato e la presenza in ogni forma della scintilla divina, che egli
chiama radice e che persiste anche dopo la scomparsa della forma:
“Sappi,
figlio mio, che su questa questione i filosofi dicono che chi scende dalla
radice delle radici sino alla forma delle forme deve giungere sino alla
molteplicità, e chi sale dalla forma delle forme sino alla radice delle radici
deve provocare l’unione del molteplice, perché ciò che sta più in alto di tutto
permane unito. La radice è presente in tutte le forme che da lei procedono in
maniera permanente e, anche quando le forme scompaiono, la radice resta”.[3]
Nel Portico dell’interrogante, Azriel
dà risposta a diversi interrogativi da lui stesso posti con la formula: “Se
qualcuno ti domanda: […]”. Le più interessanti
domande-risposte sono quelle che riguardano le Sephiroth di cui egli sostiene l’emanazione e non la
creazione: in quanto immediatamente prodotte dall’Infinito Ein Soph, che è
perfetto, non possono che parteciparne la perfezione, diversamente, se fossero
state semplicemente create, non godrebbero della sua stessa sostanza infinita.
Quanto ad Ein Soph, Azriel si limita – così come facevano tutti cabbalisti
delle scuole medievali – a sottolinearne l’impossibilità della conoscenza che,
come si è visto sopra, si estendeva sino alla prima sephirah o corona suprema.
Del resto, il maestro di tutti, Isacco il Cieco, raccomandava ai suoi scolari
di tener fuori Ein
Soph da ogni speculazione e testimoniava di rivolgersi solo alla Corona o
Kether, prima sephirah, che chiamava ugualmente Ein Soph e alla quale
dichiarava di volersi abbeverare.
Dal valore
numerico di Ein Soph [1+10+50+60+6+80=207] [ w s } y a i cabbalisti potevano comunque trarre significative ghematrie come z r Raz, segreto,
e r w a Or, luce, aventi lo stesso
valore di 207.
EIN SOPH
L’impossibilità di conoscere Ein Soph è già
adombrata nel Sepher Yetzirah, allorché si chiede: “E prima dell’uno che
numero puoi tu contare?” [1:7] e il testo ha già detto al rigo precedente che
non è lecito iniziare a contare dallo zero: “Dieci sephiroth beli mah, è insita la loro fine nel loro
principio ed il loro principio nella loro fine”. Dunque, lo zero-nulla non è né
fine né principio. In successivi testi cabbalistici lo zero-nulla diviene l’
“Ayn” di Ein Soph, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeìron”
di Anassimandro. In realtà, l’a-peìron del pensatore ionico è il
“senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime
il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tutte le cose.
L’ “Ayn” ebraico, composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo
di qualità ma di luogo: Ein Soph indica perciò l'impossibilità di cogliere
l'origine e la fine, oltre ciò che è manifesto. La fine è impossibile da cogliere:
i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infiniti. Il principio è
ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo
zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio’ è il due.
Nello Zohar, il significato dato dallo Yetzirah
a un concetto ancora embrionale di Ein Soph, non ne risulta affatto stravolto,
ma addirittura rafforzato: “Ein-Soph,
infinito: in lui non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni
idea per le possibilità dal pensiero”[4]. Più
avanti Ein Soph è detto “Chiusura
inaccessibile e sconosciuta [...] resiste ad ogni possibile conoscenza e non se
ne può fare né una fine né un principio”[5]. C'è di
più: non solo 'Ein-Soph' non è il principio, non lo è neanche l’uno. Il
principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli
antichi pitagorici, com’è scritto in Zohar:
“E’
scritto: ‘In principio’ (Bereshith), ma è la lettera beth che si trova
all’inizio, ella che è il due, la seconda lettera dell'alfabeto. Perché il due
e chiamato 'principio’, allorché la Corona suprema (l'uno), benché sia la
prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in Questione, è il due che è il
principio”. [6]
La spiegazione rimanda
alle prime parole del Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar:
“In principio. Rabbi Amnouna l'anziano disse:
incontriamo nelle prime parole del Genesi una inversione nell'ordine
alfabetico delle lettere: prima una beth seguita da un'altra beth in
'Bereshith barah' ('In principio creò'), poi soltanto una aleph seguita da
un'altra aleph in 'Elohìm-eth’('II Signore')”.
[7]
Dall'esame dei passi citati emergono due
considerazioni essenziali e la prima è che ‘in principio’ è il due. Non a caso,
le lettere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla seconda, alla
terza, alla sesta e alla decima sephirah: Yud-Hochmah, il padre; He-Binah,
la madre; Vaw-Tiphereth, il figlio; seconda He-Malchuth, la
figlia o la sposa.[8]
La seconda considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è
'Ayin'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma l'unificato, il
coronamento. L'estasi plotiniana[9] che
di fatto implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Proprio
perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la
diade. Tale unificazione è possibile grazie a un elemento in grado di
equilibrare ciascun polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo
dello Zohar:
“Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende
consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la
molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu mattina, un solo
giorno’(Genesi I-1). Giorno, dove sera e mattina si abbracciano
nell'unità: questo è il segreto dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in
lui tutto è uno.”(9). [10]
E ancora: in Binah, la terza sephirah
(il tre), che è composta dalle lettere Beth, Yud, Nun, He , c'è il principio
(Beth), il padre (Yud), la madre (He). La lettera Nun, tra lo Yud e la He,
rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la madre, il maschio
e la femmina.
In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si
rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e
si rivolge verso Ein Soph. In tale contesto, Ein Soph, lungi dall'essere l’Uno
dell'estasi plotiniana, altro non è che la pensabilità della negazione della
fine e del principio. Così, se l'uno, come tale, si ritrae, e se non è
possibile alcuna speculazione su Ein Soph, non resta che aspirare all'unificazione;
cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui si rivela, nell'unificato. Si
comprende allora come l'unificazione più alta sia quella tra l’uomo e la donna,
la diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella tradizione
ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah-Shirim o “Cantico dei
Cantici”.
[S E G U E]
Sergio Magaldi
‘Shemà Israel Adonai Elohenu Adonai Echad…’ “Ascolta…
Israele… il Signore è il nostro Dio… il Signore è uno… Amerai il Signore tuo
Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e
saranno queste parole che io ti comando oggi nel tuo cuore… le ripeterai ai
tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via,
quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio
e saranno come frontali in mezzo agli occhi e […]”.
[2] Azriel de Girona, Cuatro Textos Cabalísticos,
Riopiedras Ediciones, Barcelona, 1994, p.158. La traduzione dal castigliano è
mia, come quella del passo che segue
[3] Ibid., p.159
[4]Sepher ha Zohar, ed. Verdier,
I, 2Ia. La traduzione del
brano dall’edizione francese, come dei successivi brani citati dallo Zohar, è
mia.
[9] L' ineffabile Uno di Plotino si svela
mediante l'estasi o, meglio, si rivela a chi, librandosi sul fango
della materia e ripercorrendo a ritroso il cammino emanativo, giunge infine a
medesimarsi con Lui: “Tutti
gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi prima che dell'intelletto e
incontrando, dapprima, di necessità le cose sensibili, gli uni, fermi in esse,
trascorrono la loro vita nelle credenze che esse siano le prime e le ultime
cose, e sostengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole sia
rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne abbastanza passano
la vita perseguendo l'uno o l'altro, lontani dal loro tetto. E chi tra loro si
atteggia a filosofo pretende persino che sia qui la sapienza. Somiglian,
costoro, ad uccelli pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appesantiti
così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura.
Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la parte più nobile dell'anima
loro li sospinge dal piacere alla bellezza; ma poiché non riescono a vedere le
altezze, privi di altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme
con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla scelta, tra le cose
vili e basse donde prima avevano tentato di sollevarsi.
V’è, infine, una terza schiera:
uomini divini di più forte vigore e di sguardo più acuto che san vedere, come
per suprema intensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù,
quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene verace e
avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua
retta da buone leggi.”[Plotino, Enneadi, V.9.I. , trad.it. di
V.Cilento].
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