La Frode, regia di Nicholas Jareckì, USA 2012, 107 minuti
Arbitrage, in italiano presentato con il titolo di La Frode,
mostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la grande capacità degli
americani di fare cinema. Da una vicenda comune basata sull’idea altrettanto
comune che il denaro sia l’unico vero dio dei nostri tempi, e forse di
sempre, Nicholas Jareckì, regista e sceneggiatore, costruisce una storia che
vede protagonista Richard Gere – ancora prototipo del maschio preferito dalle
donne – nel ruolo dell’affascinante e maturo magnate Robert Miller. L’attore,
meno “manichino” di sempre man mano che gli anni passano, si esibisce in una
interpretazione convincente che si esalta con la capacità tutta americana di
fare del Cinema quello che l’arte cinematografica è innanzi tutto: una sequenza
di immagini che ha soprattutto nel ritmo la chiave per giustificare la propria narrazione.
Provate a raccontare la stessa storia con i tempi blandi di tanto cinema
europeo, e soprattutto italiano, e ne risulterà una vicenda scialba e
insignificante, sicuramente noiosa e sonnolenta per gli spettatori. Perché,
oltretutto, il film, a differenza di un libro, non deve far pensare mentre lo
si legge, ma solo dopo. Così, quando finalmente si tireranno le somme di La Frode, se ne comprenderà anche la morale: chi gestisce un vasto impero finanziario, o anche
soltanto chi ha a che fare con l’unica veradivinità riconosciuta dal
genere umano, rischia talora di non potersi sottrarre alla frode, come
per l’appunto accade al magnate del film, costretto a farvi ricorso per evitare
il fallimento, causato da speculazioni redditizie ma rischiose, per dover
dipendere dalla politica di un paese straniero.
Robert Miller, e con lui ogni uomo che abbia fatto del denaro il
proprio unico dio, non può accontentarsi di quello che ha: la ricchezza, una
famiglia preziosa e in apparenza innocente, formata dalla moglie Ellen [Susan Sarandon]
rassicurante e premurosa, due figli affettuosi e in particolare la figlia
Brooke [Brit Marling] che cura i bilanci delle sue aziende, più
un’amante giovane e bella con aspirazioni artistiche [Laetitia Casta nel
ruolo di Julie]. Se Robert fosse pago, sarebbe una contraddizione in termini, perché
si vieterebbe un'approfondita conoscenza dell’unico dio e delle gioie, sottoforma di sesso e potere, che egli elargisce ai seguaci del suo culto. Un evento improvviso e, per così
dire, karmico mette Robert di fronte alla realtà e gli fa comprendere quanto
poco valga per lui la religione in cui ha creduto. Ma egli sa bene quanto valga
per gli altri: soprattutto per sua moglie che, per convenienza e opportunismo ha
finto sempre indifferenza per i tradimenti del marito, e per sua figlia che,
scandalizzata dalla frode del padre [che poi è solo una frode per falso in bilancio,
reato che, com’è noto, nell’ordinamento giuridico italiano è stato
depenalizzato negli anni recenti], lo condanna duramente. Così, mentre Robert,
ormai consapevole e pieno di rimorsi, cerca di salvare il salvabile – non per sé ormai, ma per gli altri che
dipendono da lui – con uno stratagemma che ne ribadisce il fiuto negli affari e
le capacità manageriali, lo spettatore riceve un messaggio di cui
è più o meno incosciamente consapevole: se si accetta il denaro come
unico dio, tutto gli sarà sottomesso, in particolare l’amore e ogni altro
sentimento. Ma la morale del film è anche più cinica, nel fare di Robert un
personaggio più autentico e simpatico di coloro che lo circondano: chi è più
responsabile della frode? Colui che la fa? O coloro che senza sporcarsi
le mani, e magari condannandola, ne traggono profitto?
Il vero scandalo non è che 100
grandi elettori del PD, su 495, non abbiano votato Prodi. Un partito, figlio di
padre comunista e madre democristiana, in cui si agitano ben 17, tra
correnti sottocorrenti, sconta
necessariamente la propria origine ibrida e le idee confuse che inevitabilmente
lo agitano. È già gran cosa che, in una
votazione che in partenza non ha i numeri necessari per eleggere il
capo dello stato [ne occorrono 504, se ne hanno 495 e non si trovano alleati], si riesca a convogliare in uno scrutinio, protetto dalla segretezza, 395 voti su
uno stesso nome. Perché oltretutto si sa che i figli, specialmente quando sono ancora
bambini, seguono più volentieri la madre che il padre. E “I franchi tiratori”sono
stati una speciale prerogativa della Democrazia Cristiana, persino la valvola
di compensazione di un regime “chiuso”,durato circa mezzo secolo. C’è inoltre
da considerare la figura del candidato prescelto, capace forse di rappresentare
il massimo dell’unità possibile oggi nel partito, ma personaggio di per sé
divisivo all’esterno e che, sebbene si cerchi di far passare per un grande
statista, ha gettato l’Italia nell’avventura dell’euro, senza consultare i cittadini e senza neppure usare un preservativo. Con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi: la nostra
incapacità di reggere i mercati con una moneta tanto forte.
Il vero scandalo è che il PD non sia stato capace di una scelta fondamentale,
puntando decisamente o sul Movimento Cinque Stelle o sul Centro-Destra,
ripetendo sino alla noia, Costituzione alla mano, che una cosa è l’elezione del
capo dello stato, un’altra la formazione del governo, fingendo di ignorare che
i due momenti sono, almeno in questo momento della storia repubblicana,
inevitabilmente congiunti, tant’è che è stata messa in Standby la
formazione del governo, proprio nell’attesa di eleggere il nuovo presidente.
Il vero scandalo è aver scelto un candidato – “una bella notizia”
ha commentato il segretario del PD nell’anticipare la designazione di Marini –
ritenendo di aver preso due piccioni con una fava: “Il fattore C” [dove “C” sta
per cattolici ai quali, dopo due settennati di laici al Quirinale, spetterebbe,
secondo la vecchia logica partitocratica dell’alternanza laici-cattolici, la
poltrona del Colle] e la condivisione del Centro-Destra.
Il vero scandalo è aver proposto un candidato scialbo di suo,
quando occorreva la maggioranza dei due terzi, e averlo ritirato prima ancora
della quarta votazione quando sarebbe bastata la maggioranza semplice.
Il vero scandalo è aver cambiato cavallo in corsa, con una
conversione di 360° gradi, passando con disinvoltura da un candidato condiviso
con il PDL, ad un altro [Prodi] che il Centro-Destra ha sempre considerato il
più divisivo di tutti: il nemico numero 1 di Berlusconi e soci.
Il vero scandalo è aver proposto Prodi senza una maggioranza
precostituita e senza ottenere dal
nuovo candidato l’assicurazione che sarebbe rimasto in campo anche se non fosse
stato eletto alla quarta votazione, come non solo era probabile, ma adddirittura
certo in base alle dichiarazioni di voto di Scelta Civica e Movimento Cinque Stelle e
dalla non partecipazione al voto di PDL e Lega Nord. La nota supponenza del
candidato ha fatto il resto.
Il vero scandalo sono le dimissioni di Bersani, oggi, a due mesi
dal risultato delle urne e in un momento cruciale. Non colpevole oggi di
guidare un partito ondivago, né carne, né pesce, responsabile invece nei mesi
scorsi di una pessima campagna elettorale.
Il vero scandalo
è ora l’annuncio che al quinto scrutinio, già in corso questa mattina, il PD
voterà scheda bianca annunciando tuttavia la decisione [!] di chiedere al
presidente Napolitano di accettare di ricandidarsi. Così, il gioco dell’oca
riprenderà da capo, con la nomina di nuovi “facilitatori” ecc…
Il vero scandalo sono le decisioni prese dalla partitocrazia in queste
ore. Con le schede bianche annunciate dal
PD [mentre si cerca di arruolare nuovamente Napolitano], Lega Nord e
Scelta Civica [mentre Monti cerca di far passare l’idea di comissionare il Quirinale, eleggendo la
Cancellieri, l’attuale ministro degli interni del suo governo dimissionario,
già commissario prefettizio, sconosciuta agli italiani, ipocritamente additata
come una scelta rivoluzionaria perché
sarebbe la prima donna a salire al Quirinale e che, se fosse eletta,
rappresenterebbe, al di là della sua persona, un vero e proprio schiaffo in
faccia per i cittadini].Con la non partecipazione al voto del PDL il
cerchio si chiude. A rappresentare questa mattina in Parlamento il senso dello
Stato e il rispetto delle istituzioni, di contro alla latitanza di una
partitocrazia morente, saranno soltanto Il Movimento Cinque Stelle e SEL.
Soltanto grazie a loro si eviterà di chiudere l’aula di Montecitorio apponendo
sulla porta serrata un cartello con la scritta “Chiuso per lutto della
democrazia”.
Il vero scontro per il Quirinale è sempre stato quello tra
Amato e Prodi, i genitori dell’euro e della sottomissione a Eurogermania, nella
quale siamo entrati senza referendum tra gli italiani, ottenendo un pessimo
cambio lira-euro, facendo pagare una tassa ai cittadini-sudditi e prima
ancora con un prelievo forzoso dai loro
conto-correnti. Un sacrificio per fare un favore a Francia e Germania, perché
senza l’ingresso dell’Italia nell’euro, la moneta unica forse non sarebbe mai
nata: una lira debole sarebbe stata troppo competitiva sul mercato globale,
specialmente per la Germania. E lo stesso Prodi ha di recente riconosciuto gli
enormi vantaggi che i tedeschi hanno ottenuto dall’introduzione dell’euro. Non
ha invece ammesso quello che è sotto gli occhi di tutti: il declino italiano,
oltra ad essere causato dalla corruzione, dall’evasione fiscale generalizzata,
dagli sprechi e dalle ruberie della classe politica e dirigenziale, è prima di
tutto una crisi determinata dalla mancanza di competitività sul mercato globale
e dal circolo vizioso che si è venuto a creare: Misure all’insegna del rigore
per restare nell’euro – aumento delle tasse, come in nessun paese di
Eurogermania – restrittività del
credito per le imprese – fallimento della piccola e media industria –
decrescita del PIL – recessione causata dal crollo dei consumi e
dell’occupazione.
Amato era il candidato “condiviso” tra PD e PDL, forse il
preferito di Berlusconi nella prospettiva di un governo di “larghe intese” o
almeno della “non sfiducia”. E quando già sembrava tutto deciso, ecco
intervenire “Il fattore C” [dove C sta per cattolici], forse l’elemento che
alla fine si dimostra come il più importante di tutti nelle strategie per il
Quirinale, come già accennavo nei post di questo blog “Il Presidente più…amato” e “Il Toto-Quirinale e le manovre della partitocrazia”: i
cosiddetti cattolici del PD -al quale più che PD senza elle converrebbe
il nome di Nuova DC- non avrebbero accettato di restare per 21 anni di
seguito senza uno di loro al Quirinale, secondo un’alternanza laici-cattolici
che è uno dei capisaldi del vecchio modo di fare politica della partitocrazia
italiana. Ed ecco lanciato in pista Marini, “condiviso” come Amato dal
centro-destra, ma cattolico. Dopo il suo fallimento di ieri e le contestazioni della base del PD, ecco infine delinearsi il vero candidato dei democratici: Romano Prodi, un altro
cattolico, ma di rottura con Berlusconi, forse persino più di Stefano
Rodotà, il candidato del Movimento Cinque Stelle. Prodi, l’unico in grado di
ricostruire l’unità del PD, così duramente provata nelle due votazioni di ieri.
E il nome di Prodi, ormai candidato ufficiale del PD, mette tutti d’accordo: i
cattolici e la sinistra del partito, Repubblica,Il Fatto Quotidiano, Il Messaggero ecc... I conduttori dei talk-show più
seguiti dagli italiani: da Santoro a
Floris e, passando per Travaglio, addirittura sino a Vespa, quest’ultimo
forse con qualche trascurabile nostalgia per il candidato “condiviso”.
Sale in tutto il Paese una voglia matta di Prodi: è il padre
dell’euro, è l’unico che per due volte è riuscito a battere il Cavaliere, è il
solo in grado di cancellarlo dalla “geografia politica”o almeno così si crede.
Persino il Movimento Cinque Stelle potrebbe decidere di sostenerlo: fa parte,
anche se all’ottavo posto, della rosa votata dagli iscritti per il Quirinale.
Anzi, i voti dei grillini potrebbero essere determinanti per eleggerlo e
getterebbero le basi di un’alleanza di governo con il PD. Tutto bene, e
francamente, la candidatura alternativa della Cancellieri, proposta
ufficialmente da Monti, e forse condivisa dal centro-destra, è persino più
imbarazzante di quella del cattolico Romano Prodi, ministro già dal 1978,
nel quarto governo Andreotti, e che oggi piace tanto a sinistra. Ebbene, se non
ci sono vere alternative a Prodi, che Prodi sia! Resta da vedere se nel
futuro, dopo la probabile breve parentesi di un governo Bersani e nuove
elezioni, il vero vincitore sarà Renzi o magari proprio Berlusconi che il
popolo di centro-sinistra con questa scelta vuole esorcizzare.
Alla vigilia del
voto, tutto sembra deciso. Il presidente degli italiani sarà domani, già alla
seconda o più probabilmente alla terza votazione, Giuliano Amato, che avevo
indicato nel post dei giorni scorsi “Il Toto-Quirinale e le manovre della partitocrazia”, come il candidato numero uno per la carica di
“presidente condiviso”. In realtà egli è l’uomo che Berlusconi ha sempre voluto
per il Quirinale, più ancora di un esponente del suo stesso partito, secondo
solo a se stesso nella graduatoria delle preferenze. Chi ricorda i tempi in cui
Amato veniva additato, nel centro-destra e nella Lega, come colui che s’era
introdotto nottetempo nel conto-corrente degli italiani? Proprio come
Berlusconi, il personaggio, che di volta in volta è stato soprannominato
“Tigellino”, “Cesarino Rossi” e “Dottor sottile”, appare come il più amato
[dopo Berlusconi, naturalmente] dai cosiddetti moderati di cui si riempie la
bocca il Cavaliere. Egli incarna le virtù peculiari dell’italiano medio: astuzia
e capacità di adattarsi rapidamente alle circostanze e alle convenienze. Di
più, egli sembra rappresentare l’anima stessa della partitocrazia, giunta ormai
al suo ultimo viaggio, che purtroppo non sappiamo ancora quanto tempo durerà.
Socialista, poi psiuppino con Basso, tornato nel PSI con incarichi
ministeriali, fiero avversario di Craxi all’interno del partito, poi divenuto
craxiano di ferro con nomine prestigiose: sottosegretario alla presidenza del
consiglio nel governo del leader socialista, ministro del Tesoro con Goria e De
Mita, presidente del consiglio e soprattutto, nell’era di tangentopoli,
vicesegretario del partito socialista. Tra i meriti politici, oltre al già
ricordato prelievo forzoso nelle tasche degli italiani che con esemplare
lungimiranza anticipò di dieci anni le misure adottate di recente a Cipro, Giuliano Amato può rivendicare:
l’abolizione della scala mobile e le misure “Lacrime e sangue”, anche in questo
antesignano di una politica divenuta quanto mai attuale nel Belpaese. Inoltre, sotto
il profilo delle riforme istituzionali, va ricordato che egli è da sempre
sostenitore della repubblica presidenziale e si può essere certi che, una volta
al Colle, non tarderà a manifestare questa sua inclinazione.
Perché questo
accordo improviso tra Bersani e Berlusconi e proprio quando Beppe Grillo lascia
addirittura intravedere la possibilità di un accordo di legislatura con il PD,
se Stefano Rodotà salirà al Quirinale? Non era ciò che Bersani voleva? Forse
non lo voleva veramente o magari deve aver fatto proprie negli ultimi giorni le riflessioni di
Berlusconi. Giuliano Amato, presidente, gli assicura l’incarico per un governo
che sicuramente otterrà la “non sfiducia” del PDL, ma soprattutto gli
garantisce di non andare nel breve tempo al voto e a nuove primarie nel suo
partito, che quasi sicuramente perderebbe a vantaggio di Renzi. Dal canto suo
Berlusconi, che i sondaggi dicono in testa, guarda ora con minore entusiasmo al
ritorno alle urne: sa che vincerebbe contro Bersani ma che perderebbe contro
Renzi. Uniti nel timore dello stesso avversario, conviene ad entrambi il
“presidente condiviso”. Insomma, per Amato al Quirinale sembra proprio fatta. A
meno che non siano i cattolici del PD ad opporsi, costretti per la prima volta
ad accettare per 21 anni di seguito un presidente non cattolico. Perché non
Marini o Mattarella o un altro personaggio di area cattolica che garantirebbero
una politica equivalente? Perché non avrebbero la forza di Giuliano Amato per
un governo di legislatura con Berlusconi. Perché oltrettutto Amato è gradito
all’Eurogermania e non è sgradito Oltretevere. C’è infine una flebile
possibilità che quanto sembra già deciso non si verifichi. Che la sinistra del
PD e SEL inducano Bersani a continuare per la strada che aveva imboccato:
tentare il cambiamento in una alleanza col Movimento Cinque stelle, ora che
Grillo sembra disposto a trattare. Possibile, ma poco probabile. Avremo
Giuliano Amato al Quirinale perché questa è la conclusione degna della politica
italiana degli ultimi venti anni. Consola sapere che in Parlamento ci sarà
finalmente un’opposizione vera.
Com’è noto, il Presidente Napolitano, con il ricorso alle
commissioni dei cosiddetti saggi o facilitatori [è interessante notare che
nessuno, a quel che mi risulta, si sia posto l'interrogativo del loro costo per gli
italiani, ma forse lavorano gratis…], ha messo in standby la
questione della governabilità del Paese, non ha consentito a Bersani di
presentarsi alle Camere senza una maggioranza precostituita, non si è dimesso,
come pure molti avevano chiesto [si veda in proposito il post del 4
Aprile: Le “ragioni” di Napolitano e quelle di Beppe Grillo]. Atti
ineccepibili, a mio giudizio, per non aumentare la confusione e intasare di
figure istituzionali il panorama politico italiano, intaccando anche la residua
[ammettendo che ne sia rimasta] credibilità internazionale di una classe
politica vergognosa: Bersani sfiduciato che sostituisce Monti dimissionario non
sfiduciato, il presidente del Senato che sostituisce provvisoriamente
Napolitano dimissionario e in attesa dell’elezione del nuovo capo dello stato,
un vice-presidente che a sua volta sostituisce provvisoriamente Grasso alla
presidenza del Senato ecc…
Oltre a questi motivi, tuttavia, ce ne sono altri non dichiarati
che meglio chiariscono l’operato del Presidente. Con la governabilità del
Paese, Napolitano ha congelato anche Bersani, lasciando intatta per lui la
possibilità di presentarsi alle Camere, ma con una maggioranza di “larghe
intese” e non con “i moralizzatori fanatici” [leggi i grillini] che il
Presidente proprio non riesce a digerire, soprattutto perché rappresentano una
mina vagante per l’Italia e per l’Eurogermania, e che in cuor suo ancora ringrazia di essersi rifiutati di votare
la fiducia a Bersani. Tanto più che probabilmente non sarà Napolitano a
“scongelare” il segretario del PD, in veste di presidente incaricato. Insomma,
una sorta di compromesso: non si manda Bersani alle Camere ma neppure gli viene
tolto il preincarico per assegnarlo ad una figura designata dal Presidente in
una rosa di nomi, magari condivisa da PD e Cinque Stelle.
Una scelta precisa quella di Napolitano, persino responsabile dal
suo punto di vista, perché sostituire Bersani con chi potesse ottenere la
fiducia o la non-sfiducia del M5S o, per altro verso, con chi tra i suoi
ex-compagni di partito o tra le cosiddette figure istituzionali, fosse in grado
di realizzare un governo “di larghe intese”, avrebbe comportato la spaccatura
del PD, sempre più simile alla vecchia DC, nell’essere diviso in correnti e
sottocorrenti, con spargimento di relativi veleni. D’altra parte, nel convegno
celebrativo di Chiaromonte, come lui un “migliorista” del PCI, il Presidente ha
precisato la vasta gamma in cui può articolarsi un governo di larghe intese:
può andar bene anche quel che accadde nel Luglio del 1976, quando il monocolore
di Andreotti ottenne la non sfiducia di Berlinguer.
In tale prospettiva, Bersani e i suoi hanno iniziato le manovre di
“scongelamento”, usando a mo’ di di acqua bollente, Franceschini e Letta, per
antico lignaggio maestri eccellenti di operazioni del genere, e la trattativa
con il PDL di Berlusconi è ufficialmente aperta. Su quali basi? In una recente
puntata di “Porta a porta”, Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, non ha
fatto misteri, né giri di parole: un “governissimo” con ministri dei tre
partiti della coalizione [PD-PDL-Scelta civica] e allora il centro-destra
lascerà al centro-sinistra la scelta del prossimo inquilino del Colle in una
rosa di nomi non sgraditi al PDL, oppure un capo dello stato scelto dal
centro-destra in cambio della non sfiducia ad un “governo di scopo” a guida
Bersani. Sul cavallo, lanciato al galoppo da Lupi nello studio di Vespa, è
subito saltata l’intraprendente e affascinante Alessandra Moretti del PD, fino
a ieri vicina a Bersani, sostenendo che tra gli Otto Punti di Bersani e
i Neo-Otto Punti di Berlusconi non vi sarebbe sostanziale differenza.
Perfetto. Se non fosse che il giorno dopo, a “Ballarò”, Robero Speranza,
capogruppo del PD alla Camera e pupillo di Bersani, ha negato risolutamente
l’affinità sugli Otto punti. Direi non a torto, perché nel PD si parla –
tanto per fare qualche esempio – di riforma dell’IMU, mantenimento del
finanziamento pubblico dei partiti, soppressione del denaro contante a
vantaggio della carta di credito, laddove nel PDL si sostiene la necessità di
abolire IMU e il finanziamento della politica e di mantenere la circolazione
del denaro contante… Insomma, le affinità programmatiche sembrano esistere solo
su frasi generiche relative a misure che possono essere realizzate in un modo o
nel suo esatto contrario. Così, per il rilancio dell’economia e del lavoro, ai
tradizionali investimenti pubblici sbandierati dal centro-sinistra, mai
redditizi in Italia [se non per i partiti, i carrozzoni di stato, la corruzione
e le mafie], si contrappone da parte del centro-destra la richiesta di una
politica governativa che, snellendo le procedure burocratiche e facilitando con
adeguate misure le imprese, favorisca gli investimenti privati e soprattutto
sia in grado di rigenerare il profitto, leva considerata essenziale per
sempre nuovi investimenti e per il rilancio della crescita e dell’occupazione.
Politica economica sostenuta a parole dal centro-destra, mai realizzata negli
anni di governo dai suoi tanti ministri pseudo-liberisti.
Bersani, dal canto suo, dopo aver incontrato Berlusconi, ha
ribadito che la trattativa, per una scelta condivisa del capo dello stato,
nulla ha a che vedere con la formazione del governo. Come non sapesse che la convergenza
di PD e PDL su un nome, porterebbe inevitabilmente il nuovo Presidente a
propendere per un governissimo o almeno per una maggioranza della non sfiducia.
Alla quale ultima, Berlusconi potrebbe volentieri far finta di piegarsi,
rinunciando ad un capo di stato espressione del centro-destra, pur di
scongiurare quello che teme di più e pago di essere comunque l’arbitro di un
governo Bersani della non-sfiducia che, in pochi minuti, potrebbe far cadere a
suo piacimento.
Cosa Berlusconi teme di più? Non l’elezione di Prodi, come si
sente dire in giro, sia perché mi rifiuto di credere che il Movimento Cinque
Stelle lo voterebbe, sia perché, prima di tutto, il suo innalzamento al
Quirinale farebbe perdere consensi proprio al PD: chi non ricorda il già
ineffabile capo dell’Ulivo, ancora il 20 Maggio del 2010 in una lettera al Messaggero,
sostenere che “L’ingresso dell’Italia nell’euro rimane come uno dei punti
più alti della nostra recente storia
nazionale”? Un euro nel quale siamo entrati non attraverso un referendum
tra i cittadini, vietato dalla “costituzione più bella del mondo”, e per di più
pagando una tassa! Chi ha dimenticato il pessimo cambio euro-lira imposto
all’Italia e servilmente accettato? Chi non ricorda il dimezzamento automatico
del reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati in virtù della
conversione della lira in euro? Chi dimentica le dichiarazioni successive di
Vincenzo Visco – a quei tempi ministro delle Finanze del governo Prodi – al Fatto
Quotidiano, allorché rivelò che l’ingresso dell’Italia nell’euro fu voluto
fortemente dall’Eurogermania, per evitare che la debolezza della lira favorisse
il commercio dell’Italia a scapito della Francia e soprattutto della Germania,
costrette a comerciare in un mondo globalizzato con una moneta più forte e dunque
meno competitiva? Chi infine ha dimenticato le recenti dichiarazioni dello
stesso Prodi [come Tremonti, un altro folgorato sulla strada di Damasco, dopo
l’ubriacatura eurogermanica] circa gli enormi vantaggi che la Germania ha
tratto dall’introduzione della moneta unica?
No, Berlusconi
non sarebbe cancellato dalla “geografia politica” [come qualcuno riferisce aver
detto Beppe Grillo], se Prodi fosse eletto capo dello stato. Perché un attimo
dopo si andrebbe alle urne [a meno che il M5S non appoggiasse il governo
Bersani] e il centro-destra vincerebbe alla grande. La vera paura di
Berlusconi è che il presidente della
repubblica venga fuori da una rosa di personaggi estranei alla politica
militante, ma appartenenti all’area culturale della sinistra. Un capo dello
stato che potrebbe fare quello che Napolitano non ha voluto o non ha potuto:
affidare la formazione del governo ad una personalità che sappia mettere
insieme PD e Cinque Stelle, escludendo il PDL da ogni gioco e costringendo
Berlusconi a difendersi nei tribunali con la sola forza dei suoi avvocati.
Ipotesi comunque poco probabile, perché imporrebbe l’autosacrificio di Bersani
anche se in cambio della vittoria della sua politica. Un segretario del PD così
lungimirante avrebbe di sicuro vinto le elezioni!
In questo quadro, non è da escludere, e anzi è l’ipotesi al
momento più probabile, che Bersani cada nel tranello del “presidente
condiviso”, anche se non scelto dal centro-destra, in cambio della non sfiducia
al proprio governo. Non a caso la delegazione del PD si è rallegrata che
Berlusconi abbia accettato i criteri di massima per la designazione del “Nome”.
Chi potrebbe essere? Il Toto-Quirinale infuria e i nomi sono più o meno sempre
gli stessi, con una leggera prevalenza per chi in passato abbia già occupato
trasversalmente la scena politica e
quindi risulti gradito o almeno non sgradito alle due maggiori coalizioni del
Paese. Purtroppo qualcuno mi dice che l’identikit maschile più
verosimile sembra corrispondere a quello del roditore che nottetempo
s’introdusse nelle banche, per erodere i conti-correnti degli italiani,
anticipando di oltre dieci anni quanto di recente avvenuto a Cipro, con la
differenza che nell’isola sono stati risparmiati i conti dai centomila euro in
giù, se non altro con un intento di equità che pare aver colpito principalmente
gli evasori fiscali. Non c’è che dire: proprio un bel biglietto da visita per
fare il presidente degli italiani per i prossimi sette anni! Seguono da presso,
in questa sorta di limbo melmoso, personaggi come Giorgio Pisanu e Lamberto
Dini. Pisanu sa troppo di Prima Repubblica e di lui si ricordano le dimissioni
da sottosegretario di stato nel 1983, in relazione alle vicende P2. Quanto
a Dini, transitato ripetutamente tra
centro-destra, centro-sinistra e di nuovo centro-destra, da sinistra non si può dimenticare
il contributo dato alla caduta del governo Prodi.
Alla figura di un presidente trasversale, si avvicina poi
l’ex-sindacalista Marini, sostenuto dagli ex-democristiani del PD che daranno
battaglia pur di mandare al Colle, dopo due settennati consecutivi di
presidenza laica, finalmente un cattolico, non sgradito al PDL e che in una
prospettiva non lontana possa anche favorire la formazione di un
“governissimo”. La questione dell’alternanza laici-cattolici non è da
sottovalutare in un Paese come l’Italia. Se si guarda al passato, infatti, e
agli 11 presidenti eletti, si vede come non si sia mai verificato per tre volte
di seguito l’elezione di un capo dello stato proveniente dalla stessa area: ai
due laici liberali, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, seguirono due cattolici
[Gronchi e Segni], poi l’alternanza per quattro volte di seguito di un
laico e di un cattolico [Saragat –
Leone – Pertini e Cossiga], quindi un secondo cattolico di seguito [Oscar Luigi
Scalfaro] e infine i due settennati “laici” di Ciampi e di Napolitano. Posso
anche sbagliarmi, ma credo che questa volta sarà proprio il turno di un
cattolico o almeno di chi ne rappresenti idealmente l’area culturale.
L’identikit femminile sembra apparentemente corrispondere
al nome di Emma Bonino che raccoglie consensi in tutti i partiti e anche nel
Movimento Cinque Stelle, che può vantare stima e simpatie in Europa e che è
certamente tra le donne che più si sono spese per impegno civile. C’è da scommettere,
tuttavia, che anche in questa occasione la candidatura della Bonino a “qualcosa
d’importante” cadrà nel nulla, vuoi per il veto vaticano vuoi perché la maggior
parte dei cattolici di tutti gli schieramenti ha qualche difficoltà a votarla.
Non a caso, pare che Bersani agiti tra
le papabili, non la Bonino ma le ultime arrivate della politica, come la
Cancellieri o la Severino, per lo più sconosciute alla maggior parte degli
italiani, ma facenti parte di un governo che ha meritato per il suo leader
Monti la nomina di senatore a vita, prima ancora di presentarsi alle Camere. Misteri
italiani. Sempre che il segretario del PD la donna per il Quirinale non la
trovi in casa, nella persona della Finocchiaro, che persino la Lega di Maroni e
di Bossi guarda con simpatia e che le donne italiane invidiano perché dispone
di una scorta che, a quanto hanno riferito i media, le trascina il
carrello della spesa all’interno del supermercato e presumibilmente l’aiuta a
caricare gli acquisti all’interno del bagagliaio della suaauto blù.
Ma, nella prospettiva dell’alternanza laici-cattolici e delle innovazioni,
l’ipotesi di una donna al Quirinale [per la prima volta] potrebbe coniugarsi
con l’elezione di una cattolica. Rosy Bindi? Considerata la sua ostilità a
Berlusconi, appare più credibile la scelta di Anna Maria Cancellieri di area
cattolica e non sgradita né al centro-sinistra, né al centro-destra.
Nel Toto-Quirinale si può infine scommettere, anche se con minori
probabilità di successo, sui nomi di Violante, di Grasso e persino di Letta,
quello del PDL e zio dell’altro Letta, vicesegretario del PD meno elle, come lo chiama Grillo.
Violante, uno dei “facilitatori” di Napolitano, sembra godere delle simpatie di
Cicchitto per la sua “conversione” all’antigiustizialismo. Grasso, appena eletto
presidente del Senato e uomo dalla carriera “molto spedita”, potrebbe andarsi a
sedere volentieri sulla poltrona del Colle lasciando libera per il PDL quella
della presidenza del Senato. Il terzo, infine, Gianni Letta, da sempre
consigliere del Cavaliere, antico direttore di un giornale romano a quel tempo
di sicura ispirazione filo-fascita, sarebbe l’espressione più genuina
dell’inciucio, e per questo è il meno probabile di tutti i candidati, anche se,
oltre ad un nipote, ha diversi estimatori tra gli avversari e soprattutto
Oltretevere. Come si vede, il gioco potrebbe continuare a lungo e forse non è
neanche divertente farlo, considerando le figure dei candidati emergenti. Il
problema è Bersani. Sarà coerente sino in fondo, anche a rischio di masochismo?
Saprà resistere alle sirene che lo sollecitano da ogni parte? Cadrà
volontariamente, stando a quanto lui stesso dichiara, nel tranello del
“presidente condiviso” o sarà capace di determinare l’elezione di un presidente
del cosiddetto cambiamento?
Mario Silvestri, NOVECENTO, lo sguardo e la memoria, Ronciglione, Dicembre 2012,pp.223
Dopo la mostra fotografica dell’estate del 2011, allestita con
grande affluenza di pubblico, nelle sale di Palazzo Doria in San Martino al
Cimino, Mario Silvestri fa rivivere attraverso le immagini la storia privata e
pubblica di quello che nel XVII secolo fu il Principato di Donna Olimpia
Maidalchini Pamphilij, cognata del papa Innocenzo X, più nota, forse, come “La
Papessa”. Quasi un secolo di storia, tra la fine dell’Ottocento e la metà del
Novecento, narrato attraverso la fotografia di luoghi e abitanti di un piccolo
paese non lontano da Roma e incastonato nei Monti Cimini a qualche chilometro
dal Lago di Vico.
Un lavoro pregevole e paziente, tante foto private, immagini che
per molti rappresentano un contatto con familiari scomparsi o con antenati mai
conosciuti e per qualcuno una rivisitazione della propria giovinezza. Volti,
tanti volti, “Per raccontare – come osserva Mario Silvestri nella
prefazione dell’elegante volume – con l’occhio del fotografo dettagli che
altri non vedono. Una luce, uno sguardo, un abito, un sorriso”.
L’autore non segue l’intento cronologico, preferendo una raccolta
che, come un albero della vita, si diparte per molti rami che finiscono con
l’incontrarsi.
Abbiamo così innanzi tutto
immagini del borgo, non senza
l’eloquente descrizione della sua storia che di seguito si riporta per intero:
Seguono immagini
della vita religiosa, della scuola e del lavoro, come per esempio la foto
stupenda di falegnami che lavorano all’interno dell’abbazia:
Si aggiungono foto del popolo in armi e degli atleti che
hanno dato lustro al paese, non mancano le immagini di possidenti e notabili o
di figure entrate nella memoria collettiva come lo speziale, il brigante ecc…
Né quelle che riconnettono la
storia del luogo alle drammatiche vicende nazionali del fascismo e dell’occupazione
tedesca
Il volume NOVECENTO di Mario
Silvestri è reperibile tra l'altro presso: VIDEO PRODUCTION- VIA VICENZA 27-VITERBO. Telef.3480432519
Auspicavo un “quarto” gesto
significativo di Napolitano [vedi post
del 21 Marzo 2013: Napolitano e la regia nella commedia dell’arte], un
governo del Presidente formato di personalità eccellenti [ma eccellenti
davvero] della cultura e dell’economia
e affidato ad un leader scelto tra una rosa di nomi offerta dal
M5S e che potesse essere condiviso dal PD e da SEL. Vista l’impraticabilità di
un governo Bersani, vista l’impossibilità oggettiva di un monocolore M5S, visto
il rifiuto del PD - nel timore di vedere il proprio elettorato assottigliarsi
ulteriormente - di un un governo di “larghe intese” con il PDL.
Forse ha
ragione Travaglio nel criticare i grillini per non aver presentato a Napolitano
“la rosa” in questione, che pure sembra fosse stata elaborata dal movimento
nella nottata antecedente il secondo incontro della delegazione M5S con il capo
dello stato. A quel che se ne sa, Napolitano non ha fatto richieste in tal
senso, resta tuttavia l’osservazione di Travaglio che il M5S “la rosa” avrebbe dovuto presentarla
ugualmente, per l’eventuale vantaggio politico che ne sarebbe derivato per il
movimento di fronte ad un probabile rifiuto da parte del PD e ad un altrettanto
probabile atteggiamento problematico di SEL.
In tale situazione, Napolitano avrebbe dovuto ugualmente
sperimentare “un governo del Presidente”, mandandolo al Senato in cerca di
fortuna? Come avrebbe potuto, dopo aver rifiutato a Bersani analoga
sperimentazione? Un fatto è certo e un altro è molto probabile, anche se poco
significativo. Il fatto certo è che Napolitano preferisca, e direi non a torto
e nonostante tutto, per la tranquillità dei mercati e per non aggiungere
ulteriori complicazioni ad una situazione di per sé caotica, lasciare in carica
per l’ordinaria amministrazione Monti e il suo governo, in luogo di sostituirlo
con altri presidenti del consiglio incaricati e dimissionari. E su questo punto
credo abbia ragione Grillo rispetto al capogruppo del suo movimento al Senato
che ha espresso qualche tardiva perplessità in merito. Il fatto probabile, ma
poco significativo, è che Napolitano, prediliga personalmente, per far fronte
alla contingenza politica, più un governo di “larghe intese” che le “incaute”
aperture di Bersani e del PD in altre
direzioni. Lo dice la sua storia di militante politico, lo ribadisce la scelta
dei cosiddetti facilitatori che la
stampa ha subito ribattezzato con il nome di “saggi”.
Ciò premesso, a parte l’ “incidente” di non aver indicato tra i
“facilitatori” un paio di donne, una per ciascuna delle due commissioni, non in
base alle “quote rosa”, ma semplicemente in virtù del riconoscimento di una
competenza femminile anche in materia di riforme costituzionali e di politica
economica, che senso ha il malumore trasversale di stampa e professionisti
della politica nei confronti della scelta di Napolitano? Cos’altro avrebbe potuto fare in
simili circostanze? Dimettersi? E con quale risultato, se non quello di
aggiungere alla mancanza di un presidente del consiglio legittimato dalle
Camere, alla mancanza di un capo della polizia, anche quella del capo dello
stato? Per anticipare l’elezione del proprio successore al Quirinale – è stato
detto – cioè per arrivare prima possibile allo scioglimento delle Camere e a
nuove elezioni, volute soprattutto e paradossalmente dal centro-destra [direi
giustamente dal suo punto di vista] e dalla sinistra del PD [direi
incautamente sotto ogni punto di vista]. Con quale coraggio una stampa - in gran parte asservita
ai partiti dai quali continua ad essere finanziata grazie al denaro dei
cittadini - e una classe politica così impresentabile e rissosa può permettersi
la critica di una scelta del Presidente, che non è certo risolutiva della
crisi, ma che almeno induce a riflettere?
Altrettanto evidenti, d’altra parte, sono “le ragioni” di Grillo e
di Casaleggio, nell’essersi rifiutati di presentare al capo dello stato una
rosa di nomi per la presidenza del consiglio. A loro giudizio, anche un governo
di personalità cosiddette eccellenti della cultura e dell’economia, poco o
nulla potrebbe fare nella totale confusione in cui naviga oggi la partitocrazia italiana, dopo vent’anni
[soltanto?!]di ruberie e di inettitudine a danno dei cittadini, con le scarse
risorse rimaste nelle casse dello stato e in presenza dell’impero
eurogermanico che controlla rigorosamente le province europee. Il post
di questa mattina sul blog di Beppe Grillo è abbastanza eloquente in proposito.
Rivolgendosi all’ipotetico elettore di M5S, scontento che il movimento
impedisca la governabilità del Paese, si elencano 19 motivi in base ai
quali [ma ne basta uno solo, si sottolinea nelle conclusioni] autoescludersi
per l’avvenire come potenziali elettori del M5S. Intendiamoci, i motivi in
elenco contengono tutti, di converso e implicitamente, ragioni forti e, a mio
giudizio per lo più giuste, di un’esigenza di cambiamento nel Paese di cui il
M5S si fa promotore. Resta il dubbio, pur apprezzando la fermezza intellettuale
degli ideologi del movimento, con quali mezzi si voglia realizzare l’obiettivo.
Non certo con il voto. È impensabile credere - e infatti è lecito pensare, anche in
virtù di questo post, cheper primi non lo credano proprio Grillo
e Casaleggio - che gli 8 milioni di
voti del M5S siano tutti “duri e puri” e che invece non vi sia stata, come
sempre avviene in una competizione elettorale, una pluralità di motivazioni,
anche o soprattutto di natura psicologica e sociale ad orientare il consenso elettorale
verso “Cinque Stelle”.
Gli ideologi del movimento sanno benissimo, che il M5S non
raggiungerà mai quel 51% di voti che gli servirebbe per governare in solitudine
e per questo rischiano di buon grado anche quel 25% di cui dispongono ora. Già,
perché prima o poi si tornerà a votare, e i sondaggi [per quanto ne abbiamo già
apprezzato l’inaffidabilità, ma il motivo è anche dipeso dal fatto che molti
elettori di M5S e di PDL, nella precedente tornata elettorale hanno occultato
la loro reale intenzione di voto] parlano già di un PDL in testa con un paio di
punti su un PD stazionario, mentre il M5S sarebbe addirittura in calo del 6%.
Insomma, mentre si ha sempre più la sensazione che a vincere le prossime
elezioni sarà ancora una volta Berlusconi, agitando il fantasma
dell’inconcludenza del centro-sinistra e della sua sostanziale incapacità di
dare un governo al Paese, mentre la sinistra del PD s’illude di vincere
recuperando voti da un M5S
elettoralmente ridimensionato [recupero che ci sarà ma che sarà minore
di quello a vantaggio del centro-destra], il movimento di Grillo e Casaleggio
non ha preoccupazioni elettorali, non fa calcoli di sorta, perché ha piena
coscienza della massima gattopardesca del far finta di cambiare perché tutto
resti come prima. D’ora in avanti, ma in fondo è stato sempre così sin
dall’inizio - spiacenti per quelli che non lo abbiano ancora capito - il discorso
del movimento sarà teso, più che a “raccattare” voti, a illuminare la
coscienza degli italiani. Se un “incidente di percorso” ha fatto
provvisoriamente del M5S il primo partito politico in Italia, c’è sempre tempo
per fare un passo indietro, purché l’illuminazione prosegua
incessantemente, e quando gli italiani saranno tutti illuminati, allora il
sistema crollerà da solo. Visione forse escatologica della politica,
ma sicuramente di più ampio respiro di altre, basate esclusivamente
sull’accaparramento di voti e di denaro. Pazienza se a godere del nuovo
scenario saranno i nostri nipoti o i pronipoti o i pronipoti dei pronipoti. A
differenza dei partiti politici e dei tanti “padri puttanieri” che hanno
divorato i propri figli, il movimento avrà lavorato per la posterità. Il mio è
un discorso senza ironia, al massimo mi può dar fastidio l’apparente impotenza
del presente [che non è tale, se ogni giorno almeno una nuova coscienzas’illumina],
ma credo anch’io che, se non si lavora per la rivoluzione delle coscienze, non
si costruisca nulla di solido per il futuro.