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Villa Lubin (atrio).Sede del CNEL |
Sul
superamento del bicameralismo perfetto o
paritario, mi sembra utile ricordare quanto scrive Roberto
D’Alimonte, in un articolo pubblicato un
paio di anni fa su Il Sole 24 Ore: “[…] la
maggioranza dei paesi della Unione Europea (15 su 28) non hanno una seconda
camera. In altre parole sono sistemi parlamentari monocamerali […]. Tra i 13 paesi che hanno una seconda camera
solo in 5 paesi i suoi membri sono eletti direttamente dai
cittadini. In Spagna , tra l’altro, una parte dei membri sono designati
dalle Comunità Autonome. Tra questi 5 paesi solo in Italia, Polonia e Romania
si può dire che la seconda camera abbia dei poteri legislativi rilevanti. E
solo l’Italia ha un sistema parlamentare in cui il Senato ha esattamente gli
stessi poteri della Camera”.
Con
il No, l’Italia si conferma
pertanto come l’unico paese dell’Unione Europea dove Camera e Senato hanno
poteri identici o, come dice Gustavo Zagrebelsky, dove il Senato
esercita una funzione di controllo sulle leggi approvate dalla Camera.
Con il Sì, le leggi costituzionali ed elettorali restano di approvazione
bicamerale, mentre termina l’estenuante “navetta” tra Camera e Senato che può
ritardare o affossare l’approvazione delle leggi ordinarie e influire sul
sistema economico del Paese, in virtù della possibile diffidenza degli
investitori internazionali.
È vero che, in un recente articolo, l’Economist ci fa sapere che, nonostante il bicameralismo paritario, la produzione
italiana di leggi non è inferiore alla media europea, il problema però non è di
quantità, bensì di qualità. È vero altresì che, a sostegno
del No, si sente ripetere da mesi
che quando si vuole, le leggi sono approvate in gran fretta, come nel caso del
pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione senza neppure bisogno di
referendum confermativo, perché approvato da Camera e Senato a maggioranza dei
2/3. Quel che si dimentica di dire è che si trattò di una legge costituzionale
e non di una legge ordinaria e che, nella difficile congiuntura dell’Italia di
allora, quello fu il prezzo pagato all’Europa per timore della bancarotta. I
maggiori partiti politici non se la sentirono di assumersi la responsabilità
del No di fronte agli italiani [Da
notare che il M5S non era ancora presente in Parlamento]. D’altra parte,
l’assunto dei sostenitori del No [se si vuole, una legge si approva in breve
tempo anche con il bicameralismo paritario…] testimonia esattamente il
contrario di quanto afferma: è sufficiente cambiare una virgola, perché una
legge – magari sgradita a certe lobby – grazie
all’azione compiacente di alcuni senatori della stessa maggioranza, rimbalzi di
continuo tra Camera e Senato sino al definitivo affossamento.
Con il No, dunque,
si conferma il bicameralismo perfetto e di conseguenza viene bocciata anche la riforma del Senato. I senatori restano nel numero attuale di 315, sono eletti direttamente dai
cittadini e da loro sono retribuiti indirettamente, con stipendi, vitalizi e
pensioni a carico del bilancio dello Stato, per replicare in tutto e per tutto
le funzioni attribuite ai deputati. Con il Sì,
il Senato è ridotto da 315 a 100 unità e, divenendo Camera di
rappresentanza delle istituzioni territoriali, i senatori non ricevono più uno specifico
compenso per una funzione che si aggiunge a quella di sindaco e/o consigliere
regionale, cariche per le quali sono già retribuiti. I nuovi senatori restano comunque eletti dai
cittadini, anche se con metodo indiretto,
giacché sono i cittadini ad eleggere i consiglieri regionali che a sua volta
eleggono i senatori. L’elezione indiretta dei senatori è esattamente quello che
avviene in
8 dei 13 paesi dell’Unione Europea che hanno una seconda Camera. Per gli altri
14 paesi, il problema non si pone perché hanno una sola Camera. Il nuovo
Senato, del resto, non ha una funzione meramente decorativa perché, se è vero
che non è chiamato a dare la fiducia al governo, ad approvare le leggi
ordinarie e la legge di bilancio, partecipa comunque all’approvazione
bicamerale delle leggi costituzionali, UE, referendum ed elettorali, come pure all’elezione
del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali etc., esattamente
come avviene oggi. Inoltre, sulle leggi ordinarie approvate dal Parlamento, il
nuovo Senato avrà tempo dai 10 ai 15 giorni [a seconda della materia] per
avocarle a sé ed eventualmente emendarle entro i successivi 30 giorni, senza
che tale procedura alimenti il conflitto tra i due rami del Parlamento, perché
con la clausola di supremazia, valida
solo per le leggi ordinarie, la Camera dei Deputati avrà l’ultima e decisiva
parola.
Anche
se in apparenza la Riforma del Senato sembra presentare più vantaggi che svantaggi,
resta tutta da verificare la prassi del suo reale funzionamento: 1) per la
confusione che ancora regna circa le precise modalità di elezione dei nuovi
senatori, 2) in considerazione del fatto che la carica di senatore diviene aggiuntiva (e non retribuita) rispetto a quella di consigliere regionale o
sindaco, e dunque potenzialmente
trascurabile, 3) nel timore che il nuovo Senato diventi luogo di scontro di
“campanili”. Una complicazione potrebbe venire anche dall’eccesso di “prudenza
legislativa” che ha voluto mantenere una “navetta” inutile per 45 giorni tra
Camera e Senato sulle leggi ordinarie, mentre non si è avuto il coraggio di
introdurre il vincolo di mandato per
tutti i parlamentari così da interrompere il tradizionale trasformismo della
politica italiana [ben più antico della vigente Costituzione!]. Infine, qualche
perplessità genera anche l’istituto dell’immunità parlamentare, non tanto
perché si dovesse negarla ai nuovi senatori – che, come i deputati, hanno
comunque una funzione costituzionale – quanto perché sarebbe stato bene
emendarla per tutti i parlamentari. In proposito, vale la pena di ricordare
quanto The Economist scriveva tra
l’altro in un articolo dello Giugno scorso:
“Ci
sono due sistemi generali di immunità.
Il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri paesi garantiscono una forma
“ristretta” di immunità: i parlamentari possono votare e parlare liberamente in
parlamento o al congresso senza temere possibili cause legali o denunce penali.
Il sistema “ampio” di immunità è invece più controverso: alcuni legislatori
fortunati godono di immunità da ogni tipo di accusa e possono perderla soltanto
in seguito a un voto parlamentare. Secondo i critici, questo sistema consente
ai politici di godere di impunità per le loro azioni e incoraggia la candidatura
di criminali. Hanno ragione”.
Le nuove modalità di elezione del Presidente della Repubblica non sembrano apportare
modifiche tali da produrre vantaggi o svantaggi. Tutto resta sostanzialmente
come prima, se si esclude il fatto che con la riforma aumenta la percentuale di
grandi elettori della Camera dei deputati rispetto a quelli del Senato, in
conseguenza del diminuito numero di senatori. Neppure c’è il rischio, paventato
dai sostenitori del No, che dal
settimo scrutinio in poi – essendo sufficienti per eleggere il Presidente i 3/5
dei presenti in aula e non degli aventi diritto – con la legge elettorale
attualmente in vigore per l’elezione dei deputati [italicum], la lista che abbia ottenuto il premio di
maggioranza di 340 deputati elegga praticamente
da sola il Presidente. Si tratta di ipotesi puramente di scuola, perché
presuppone che siano assenti dalla votazione più di 100 grandi elettori
dell’opposizione.
Non
ci sono dubbi invece circa i vantaggi che il prevalere del Sì porterebbe al Paese con la soppressione
del CNEL [Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro], un ente che in
sessant’anni ha prodotto tanti documenti ma soltanto 14 proposte di legge,
nessuna delle quali approvata dal Parlamento e che, con i suoi 64 consiglieri
[120 dal 1957 al 2012], costa ai contribuenti italiani circa 20 milioni l’anno. Con
la sua soppressione, il risparmio effettivo per la spesa pubblica si
aggirerebbe sui 15 milioni annui, considerando che rimarrebbero “vive” le spese
per il personale amministrativo, dirottato alla Corte dei Conti, nonché per la
conservazione della splendida villa Lubin, attuale sede del CNEL.
Con
il Sì, un certo vantaggio, non senza
qualche interrogativo, si avrebbe nel complesso rapporto tra Stato e Regioni,
con la modifica del Titolo V della
Costituzione. Occorre tener presente che questo punto della Riforma serve a
correggere le precedenti modifiche dello stesso Titolo, introdotte dal secondo
Governo di Giuliano Amato [25 Aprile 2000 – 11 Giugno 2001] e approvate con
Referendum confermativo (64,20% di Sì], indetto in Agosto e svoltosi il 7
Ottobre 2001 durante il secondo Governo Berlusconi.
Sotto la spinta
della Lega, l’obiettivo di allora della politica italiana era riformare lo
Stato in senso federalista, accrescendo le competenze delle Regioni rispetto
allo Stato. Fu inoltre riconosciuta alle Regioni completa autonomia di spesa,
con il risultato - come purtroppo già avviene per le Regioni a Statuto Speciale
- di far lievitare gli stipendi dei consiglieri in carica nonché di raddoppiare
la spesa corrente, nel primo decennio del 2000, del 74,6% rispetto al decennio
precedente. D’altra parte, poiché non
fu contestualmente varato l’aumento dell’autonomia fiscale delle
Regioni, le maggiori spese risultarono e risultano ancora oggi a
carico dello Stato.
Con il testo di
riforma costituzionale si cerca pertanto di correre ai ripari, delineando le rispettive
competenze, per ridurre l’attuale conflittualità tra Stato e Regioni, e
introducendo la clausola di supremazia,
qualora vi sia uno specifico interesse nazionale, rispetto alle stesse
competenze regionali. È proprio di queste ore la notizia che la Corte
Costituzionale ha bocciato, su ricorso di un governatore della Lega, la riforma
della Pubblica Amministrazione, approvata dopo più di due anni di iter
parlamentare, in conseguenza del fatto che il governo ha solo sentito il parere delle Regioni, ma non ha trovato
con loro l’intesa richiesta dall’attuale
dettato costituzionale. Ciò che in definitiva significa che, in questo campo così
come in altri di interesse nazionale, se vince il No, la sovranità continua di fatto a spettare alle Regioni e non
allo Stato. D’altra parte, con la vittoria del Sì, si corre il rischio di un eccessivo centralismo cui si
accompagna, per uno strano ma purtroppo non incomprensibile paradosso, un accrescimento
di potere da parte delle 5 Regioni a Statuto Speciale [Sicilia-Sardegna-Friuli
Venezia Giulia-Trentino Alto Adige-Valle d’Aosta]. Desta infine qualche
preoccupazione la modifica introdotta all’art. 117, che negli ultimi giorni ha
letteralmente scatenato l’ira dei sostenitori del No. Per quanto esagerata e demagogica possa apparire tale reazione,
resta da chiedersi perché i riformatori non abbiano chiarito preventivamente le
vere ragioni della modifica del citato articolo.
Da:
“La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali.”
A:
“La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento dell’Unione
europea e dagli obblighi internazionali.”
La giustificazione di questa modifica da parte
dei sostenitori del Sì è che si
tratti di questione puramente lessicale, in quanto ordinamento comunitario significa sostanzialmente la stessa cosa di
ordinamento dell’Unione Europea. Il
che è vero, ma non si è avuto il coraggio di dire – come tutti possono leggere
su Wikipedia – che:
Bene,
perché i riformatori non hanno chiarito tempestivamente che il nuovo lessico
introdotto in Costituzione, per esprimere il medesimo concetto, è la naturale
conseguenza del passaggio dalle precedenti Comunità
Europee all’attuale Unione Europea,
formatasi ufficialmente con il trattato di Maastricht? Che si tratti di una
questione formale, non c’è dubbio, perché con la vecchia o con la nuova
dizione, qualsiasi legge dovrà comunque essere approvata dal Parlamento
nazionale, ma di questo non tutti si rendono conto, soprattutto in
considerazione del fatto che questa Europa, a conduzione tedesca e così poco
democratica, è sempre meno amata dai cittadini italiani ed europei. E allora? La
mancata precisazione sembra più che altro un infortunio dei riformatori, nel
timore che la dizione meno generica voluta da Bruxelles portasse acqua al
mulino dei No. In conclusione,
tuttavia, occorre riconoscere che la nuova formulazione, ove prevalesse il Sì, non porterebbe svantaggi
all’Italia, perché nulla toglie o aggiunge a quanto già presente nel nostro
ordinamento costituzionale.
Analogamente,
votando Sì non vedo sostanziali
vantaggi o svantaggi circa la riforma
sui referendum costituzionali e le leggi di iniziativa popolare: se da un
lato, infatti, si porta da 50.000
a 150.000 il numero delle firme necessarie per una
proposta di legge di iniziativa popolare [con evidente peggioramento, rispetto
ad oggi, ma con la “garanzia costituzionale” che la proposta sarà discussa e votata in
Parlamento], il quorum per l’approvazione dei referendum abrogativi passa dal
50% + 1 degli aventi diritto al voto, al 50% +1 dei votanti effettivi alle
precedenti elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati [con notevole
vantaggio rispetto ad oggi], ma solo quando il numero dei richiedenti, dagli
attuali 500.000 passi a oltre 800.000 [con reale diminuzione del vantaggio
introdotto per i cittadini sulla stessa materia: una sorta di gioco delle tre
carte, insomma]. Nell’insieme, si tratta di una modifica bizantina, inutile, e
furbesca. Altra cosa sarebbe stata, a vantaggio dei cittadini, la soppressione
del quorum, come avviene per i
referendum confermativi delle leggi costituzionali, e come infatti avverrà con
il referendum del prossimo 4 Dicembre, dove si vince a maggioranza, prescindendo
dal numero dei votanti.
Facendo
un bilancio conclusivo, emerge la consapevolezza che si è persa l’occasione per
fare di più, ma bisogna ricordare da quale maggioranza parlamentare nasce
questa riforma costituzionale, e perché. Quel che meraviglia è che si debba
assistere, ormai da mesi, ad una lotta cruenta tra i sostenitori del poco [Sì] e sostenitori del nulla
[No], pronti a giurare, quest’ultimi,
che se vincerà il No, faranno loro
un’autentica riforma costituzionale. E con quale maggioranza, con quella che in
settant’anni non si è riusciti a mettere insieme? Verrebbe quasi voglia di
restare fuori di questa mischia tutta italiana che si traveste di articoli e commi
per anticipare una lotta politica che, proprio perché prematura, sarà sterile
in ogni caso. Una guerra tragicomica dove, tra i sostenitori del Sì,
c’è chi spaccia questa miniriforma per una rivoluzione e chi, tra i sostenitori
del No, chiama eversivi e truffatori
gli avversari, nemmeno si dovesse decidere l’uscita dall’euro e/o dall’Europa,
nemmeno dovessimo eleggere il Trump italiano, invece di fare un piccolo passo nella
direzione del buonsenso. Davvero verrebbe voglia il 4 Dicembre di non andare a
votare, se non fosse la considerazione che qualcosa
è meglio di niente, portando almeno a
casa dopo settant’anni, se vincerà il Sì,
il superamento del bicameralismo
perfetto o paritario, la soppressione del CNEL e una minore conflittualità tra
Stato e Regioni.
sergio
magaldi