mercoledì 31 gennaio 2018

NOTE SULLA QABBALAH: parte VI, qabbalah e gnosticismo




SEGUE DA:


NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia  (clicca sul titolo per leggere)



Avvertenza: per leggere le lettere ebraiche occorre il font hebrew



QABBALAH E GNOSTICISMO

 I concetti sin qui esaminati del Sepher Bahir mi inducono a riprendere il tema ricorrente dei rapporti tra Qabbalah e Gnosticismo, cui si accennava sopra. In passato, si era soliti ricercare le radici dello gnosticismo nella mitologia iranica: Zarathushtra o Zoroastro profeta leggendario vissuto forse tra il 1000 e il 600 av. Cristo e iniziato di Ahura Mazda, dio del bene e della luce cui si contrappone Arimane, dio del male e delle tenebre. Il libro sacro del Mazdeismo è l’Avesta, composto di Inni in cui si parla soprattutto di sacrifici, di rituali, del destino dell’anima e della vita del profeta. Simbolo rituale per eccellenza del Mazdeismo è il fuoco (custodito in edifici quadrati e visibile all’esterno) e i sacrifici ne sono il più importante corollario. In epoca più tarda s’inserisce nel Mazdeismo la figura del dio vedico Mitra, in funzione di divinità maschile, solare e guerriera. Alcuni studiosi sono convinti che il Mazdeismo, lungi dall’essere un dualismo, come per lo più si ritiene, sia in realtà un monismo puro: che cosa possono – si dice – le forze oscure del male di fronte alla Luce e al Bene? Le potenze del male devono accontentarsi d’ingannare gli uomini e di tentarli, ma è sufficiente osservare i precetti della Legge e gli esorcismi (Avesta) per allontanarli e compiere la ‘buona scelta’ secondo la volontà di Ahura Mazda che concede la salvezza ai giusti e lungo tormento ai malvagi (Zarathushtra). Se il rapporto tra lo gnosticismo e la mitologia iranica è vero da un punto di vista generale (considerando, però, che la lotta tra Luce e Tenebre si è radicalizzata rispetto al Mazdeismo), dopo il ritrovamento e la pubblicazione di molti testi gnostici, tra il 1947 e il 1955, si può osservare che elementi tratti dalle antiche credenze mesopotamiche e dall’Antico Testamento siano più diretti e abbondanti di quelli che sembrano confluiti dall’Iran preislamico. Prima di tutto le molte esegesi del mito sumerico di una divinità salvatrice e portatrice di ‘acque superiori’ nel mondo umano dominato dalle ‘acque inferiori’. Gli gnostici, inoltre, avrebbero conosciuto l’Antico Testamento non solo nella forma dei libri della Legge e dei profeti canonici, ma anche nella veste degli apocrifi e dei loro commentari. Questo bagaglio biblico poté essere sfruttato da alcune sette giudaiche che sarebbero, appunto, alle origini dello gnosticismo. Una conferma in tal senso viene sia dalle dottrine dei Minim [citati anche in Zohar], eretici ebrei la cui interpretazione della Legge fu animata da radicale dualismo ma che, a modo loro, si collegavano alla gnosi ebraica della Merkavà. La fonte ebraica delle sette gnostiche è ugualmente attestata dalla comunità religiosa dei mandei (mandayé=gnostici) ancora presente lungo le rive dell’Eufrate e del Tigri e che utilizza come lingua religiosa l’aramaico orientale. La concezione mandea è dualistica: mondo della Luce e mondo delle Tenebre si contrappongono come nemici da sempre. Talora, però, si parla di uno spirito decaduto dalla luce e che sarebbe all’origine delle tenebre. Il demiurgo forma l’universo da una condensazione di acqua tenebrosa. Il punto culminante della formazione del mondo consiste nell’attività di Adam Qadmon, il cui corpo appartiene al demiurgo, ma il cui spirito viene dal mondo della luce. Mani (Babilonia 216 - 277? ) si propone come l’ultimo di una serie di messaggeri celesti (dopo Adamo, Zoroastro, Buddha e Gesù), tutti inviati dalla Luce suprema. Esistono tre fasi del Tempo: una prima fase che inizia con la  separazione originaria di Luce-Tenebre, Bene-Male, Spirito-Materia, una seconda fase in cui tutto si trova mescolato insieme e che corrisponde all’epoca attuale e infine una terza fase in cui saranno ripristinate le divisioni primordiali senza possibilità di nuove mescolanze. Tuttavia, il momento che sembra caratterizzare il sorgere dello Gnosticismo è quello in cui alcuni esegeti biblici delle sette ebraiche sopra citate pensarono di stabilire una distinzione tra il Dio supremo e il demiurgo di questo mondo. Si citò a sostegno il cosiddetto doppio preambolo del Genesi (I,1-II,3 e II, 4 e sgg.), nonché la distinzione tra Elohim e il Tetragramma.

 Alla concezione gnostica sugli Elohim, si richiamano tutti coloro che in forza del nome plurale non lo fanno corrispondere al Dio unico. Per quanto si possa osservare che nella lingua ebraica non esiste il plurale maiestatico e forse neppure quello cosiddetto di astrazione, resta il fatto che diversi nomi ebraici che terminano in  im [plurale maschile], in oth [plurale femminile] o in ayim [duale] reggono tuttavia verbi, aggettivi e pronomi al singolare, come per esempio Ba'alim, proprietario. D’altra parte, non sembra neppure convincente la tesi che in Elohim si manifesterebbe insieme l’esistenza umana e divina, il creatore e la creatura; non solo perché la prima volta che Elohim viene nominato, gli esseri umani ancora non esistono – tant’è che dopo la creazione dell’uomo ad Elohim si aggiunge anche il nome del Tetragramma – quanto e soprattutto perché l’assunto implica una concezione antropomorfica della divinità, tutta intrisa di modernità, e che di certo non appartiene ai primi cabbalisti storici, propensi piuttosto a sottolineare l’estrema distanza tra Dio e l’uomo. C’è poi chi utilizzando Elohim al plurale – come si diceva sopra – si collega alla visione gnostica e vi aggiunge di suo. Tra costoro, la voce più nota in Italia è quella di Mauro Biglino che ha collaborato come esperto di ebraico biblico al progetto editoriale delle Edizioni San Paolo, con la traduzione di 17 libri del testo masoretico della Bibbia, sino a quando è stato sollevato dall’incarico per evidenti ragioni di incompatibilità. Biglino, nei suoi libri e nelle sue molte interviste, sostiene di lasciar parlare l’Antico Testamento per quello che è, attenendosi alla vera traduzione del testo e senza modificarlo per secondi fini di natura teologica. In tale ottica, egli propone questa versione dei primi versetti di Genesi: “In principio [il gruppo degli] Elohim modificò [formò] un luogo dove c’erano delle acque e della terra [con una diga e una bonifica]. La terra era deserto e desolazione […]”. Secondo il fantasioso Biglino, la Bibbia non parla di Dio e non è un libro sacro, è bensì la cronologia di eventi reali accaduti tra la Mesopotamia e la Cananea dopo che gli Elohim, colonizzatori venuti dallo spazio e dotati di poteri straordinari, presero possesso del pianeta terra. Elyòn, il capo riconosciuto degli Elohim, definì i confini delle nazioni e le divise tra i suoi. A Yahweh che era tra i più giovani e  tra i meno importanti degli Elohim, Elyòn assegnò il potere su un popolo che vagava disperatamente nel deserto. A suffragio della sua tesi, Biglino cita numerosi passi biblici che sarebbe troppo lungo e persino fuorviante riportare in questo contesto. Per concludere, dirò soltanto che, secondo Biglino, l’anello mancante della catena del darwinismo è rappresentato dall’esperimento di ingegneria genetica degli Elohim che mescolarono il proprio DNA con quello degli ominidi o scimmie antropomorfe dando vita agli uomini. Questo – a suo giudizio – significa il noto versetto del Genesi[1:26]: “Elohim disse poi: ‘Facciamo un uomo a nostra immagine e somiglianza’ […]”. Tzelem, secondo Biglino, non vuol dire immagine ma “un quid di materiale che contiene l’immagine” e che viene estratto [dalla radice verbale tzalàm che significa tagliare via, estrarre”]; in altre parole ciò che oggi chiamiamo DNA. Per pura curiosità, si osservi che Tzelem [90+30+40 = 160] s l x  ha diverse ghematrie, tra cui: Etz, albero; Qesef, argento; Nafal, cadere, Qain, Caino, Qilel, maledire. L’esperimento degli Elohim riuscì solo parzialmente. Chiusi nel Gan Eden [che Biglino dice di tradurre alla lettera in “luogo recintato e protetto”] questi primi prototipi umani di entrambi i sessi [gli adamiti], che avevano bisogno di essere ulteriormente perfezionati, dovettero in qualche modo sfuggire al controllo degli Elohim e cominciarono a popolare la terra; da allora gli Elohim rafforzarono la guardia dell’accesso al Gan Eden [luogo di esperimenti di ingegneria genetica] nel timore che gli adamiti s’impadronissero dei loro segreti. In questa prospettiva, gli Elohim, opportunamente celati, potrebbero ancora essere tra di noi.

 La condanna della creazione materiale comporterà da parte delle sette gnostiche la maledizione del dio dell’Antico Testamento e del suo profeta Mosè. Dal Giordano, da Antiochia, dall’Asia Minore queste sette raggiunsero Alessandria. Ai tempi di Traiano (53-117 d.C.) si conosce già una setta operante formata da Samaritani e da  Elkesaiti, in quelli di Adriano (76-138 d.C.), gli gnostici Basilide, Carpocrate e Valentino insegnano in Alessandria. Successivamente l’egizio Valentino diffonderà a Roma una gnosi impregnata di cristianesimo. Altri gnostici importanti furono Teodoto, del quale Clemente Alessandrino ci ha conservato numerose citazioni, e Marco il mago che praticò la teurgia a Roma e nella valle del Rodano. Molto più tardi Plotino (205-270 d.C.), riprendendo il concetto del Demiurgo buono, contenuto nel Timeo di Platone (427-347 a.C), polemizza contro gli gnostici, scrivendo la  nona sezione della II Enneade che ha per titolo: Contro coloro che sostengono che il Demiurgo di questo mondo è cattivo e che il Cosmo è cattivo.

  L’atteggiamento che accomuna le varie sette gnostiche è l’interrogativo circa il significato della presenza umana in questo mondo infimo. Alcuni frammenti di testi gnostici, come il LXXVIII degli Estratti di Teodoto e il XV capitolo degli Atti di Tommaso pongono la domanda in modo esplicito: “Di dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” La Gnosi si propone di dare una risposta a questi interrogativi, ma la conoscenza perfetta è riservata agli eletti e agli iniziati. La risposta è affidata al mito: il mondo materiale è il prodotto di una rottura avvenuta all’interno del mondo superiore, quando una componente degli Eoni (universi completi e temporali emanati in armoniche coppie o sizigie dal Plèroma o Totalità o Pienezza) pretende di generare da sola: è questo il caso di Sophia-Saggezza-Conoscenza (testi di riferimento: Pistis Sophia e Libro segreto di Giovanni) che per vanità decide di operare da sola imitando il Pleroma. Ne nasce una potenza deforme dal viso di leone e dal corpo di serpente. Per la vergogna Sophia la nasconde al Pleroma mediante un velo (cielo stellato). Ialdabaoth, questo il nome della creatura leonina e serpentiforme, pur conservando una scintilla divina trasmessagli dalla madre Sophia, è separato dal mondo della Luce, dal Pleroma. Egli ha, come unico dominio, le acque dell’abisso tenebroso che trasforma in materia. Come il dio del Genesi, con il quale viene identificato, egli fluttua al di sopra di questo abisso e genera due serie di dodici potenze o Arconti (gli Elohim) e cioè: i 12 segni zodiacali, i 7 pianeti e i 5 sovrani degli elementi (Acqua-Aria-Fuoco-Terra-Vento). Al servizio di questi Arconti si forma una gerarchia di Arcangeli e di Angeli: in tutto 365 membri. La conoscenza del nome segreto di queste potenze rendeva possibile compiere opere di magia. A questo punto Ialdabaoth, ormai soddisfatto, grida: ‘Io sono un dio geloso e non esiste altro dio fuori di me (Isaia XLV, 7). Di qui prende corpo l’interpretazione della doppia creazione, presente - a giudizio degli gnostici - in Genesi: l’una secondo  il cap.I, 26 (‘Facciamo l’uomo a immagine nostra…’), l’altra secondo Genesi II,7 (‘Il Signore Dio formò l’uomo di polvere della terra…’). All’Adamo Qadmom, all’Adamo primordiale è qui contrapposto l’Adamo-golem fabbricato dagli Elohim che resta a terra privo di vita, sinché il Pleroma, per recuperare quella parte del Tutto che gli è sfuggita per la vanità di Sophia, riesce con l’inganno a convincere Ialdabaoth a insufflare il proprio spirito nella bocca di Adamo. Così la scintilla di luce si allontana da lui per rifugiarsi nell’uomo. Per punirlo e trattenerlo, gli Elohim escogitano allora per l’uomo una doppia prigione: la veste o prigione di carne e il cosiddetto Gan Eden. Gli Elohim, tuttavia, non possono impedire al Pleroma di nascondere nei frutti di due alberi la gnosi e l’immortalità e di inviare, sottoforma di serpente, un Salvatore (per questa ragione Mashiach Messia j y c m  ha valore numerico:8+10+300+40=358, come Nachash Serpente  c j n  (300+8+50= 358) perché convinca l’uomo a cibarsi del frutto dell’Albero della conoscenza. La successiva cacciata dal Paradiso, in un cosmo ancora più in basso, è frutto della punizione degli Elohim e del loro timore che l’uomo, dopo la conoscenza, ottenga anche l’immortalità. Il rovesciamento del mito di Adamo ed Eva porta come conseguenza la volontà di contraddire la Legge biblica perché opera di un creatore perverso e, al contrario, di esaltare il serpente (setta gnostica degli Ofiti). La caratteristica degli gnostici fu di proliferare in tanti gruppuscoli e di privilegiare determinati ambiti esoterici. I testi delle rivelazioni gnostiche e i loro rituali si presentavano come segreti: il divieto di rivelarli ai profani si accompagnava, alla fine di alcuni manoscritti, con anatemi che si ritenevano terribili per chiunque eventualmente intendesse divulgarli. Tra i segreti più velati, la celebrazione di ‘strane eucarestie’ che si diffusero anche a Roma per l’azione dello gnostico e teurgo Marco il mago e dei suoi discepoli. L’escatologia gnostica, pur con varie accentuazioni, prevede la possibilità di recuperare le particelle di luce precipitate nel cosmo, perché il Pleroma o Totalità o Pienezza della Luce ha immesso nell’umanità prigioniera la ‘goccia’ luminosa e la gnosi. Si tratta perciò di destare gli eletti, ricordando ad essi la loro radice celeste e rivelando loro i segreti. A tale scopo sono preposti dei salvatori, dei profeti, degli spiriti eccezionali, tutti inviati dall’alto e capaci di accrescere la conoscenza, spargendo in basso le acque superiori delle sorgenti celesti.

[S E G U E]


Sergio Magaldi

sabato 27 gennaio 2018

27 gennaio 2018: per non storicizzare, relativizzare e banalizzare l’olocausto




 Il filosofo Jürgen Habermas parlò a suo tempo di un tentativo di storicizzare la barbarie nazista, messo in atto dallo storiografia tedesca, con l’intento di rappresentare un “livellamento relativizzante” e “una banalizzazione minimizzatrice” dell’olocausto. 

 Scrive in proposito Hans Küng nel suo lavoro dedicato all’ebraismo: «Non posso perciò che consentire con lo storico Eberhard Jäckel che, contro ogni minimizzazione da parte dei suoi colleghi, richiama l’attenzione sulla proporzione storicamente inaudita: il massacro nazista degli ebrei è stato unico, “perché mai prima uno stato aveva deciso e annunciato, con l’autorità del suo capo responsabile, di eliminare, se possibile interamente, un determinato gruppo di persone, compresi gli anziani, le donne, i bambini e i lattanti, e aveva tradotto  in azione questa decisione con tutti i possibili strumenti del potere statale”. No, è storicamente ingiustificato e, quindi, anche teologicamente irresponsabile minimizzare ‘Auschwitz’, ridurlo al livello di altri calvari della storia universale e così spiegare l’intero atroce avvenimento in modo fondamentalmente antropologico-morale con la sempre presente fragilità e peccaminosità dell’uomo»

 Di seguito ripropongo il post DAL DIARIO DI ANNE FRANK PER NON DIMENTICARE [clicca sul titolo pere leggere]

lunedì 22 gennaio 2018

NOTE SULLA QABBALAH: parte V, l'Uno e l'unificato





Song of Songs no 5   EGON TSCHIRCH 1923

 SEGUE DA:


NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia  (clicca sul titolo per leggere)


 IL CANTICO DEI CANTICI

Al di là delle molteplici chiavi interpretative del Cantico[1], se utilizziamo il Pardès [formato dalle iniziali di Peshat-Remmèz-Derash e Sod], otteniamo quattro possibili mo­dalità di lettura di questo testo, con riferimento alla Qabbalah e all'albero sephirotico: Peshat, o interpretazione letterale, per una rappresentazione dell'unione dell'uomo e della donna, del re e della re­gina (Tiphereth - Malchuth) mediante i tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod); Remmèz, o interpretazione alle­gorica, per simboleggiare l'unione completa di Tiphereth e di Malchuth attraverso tutte le membra, cioè per mezzo delle cinque sephiroth del piano inferiore; Derash, o interpretazione anagogica, a significare un’ascesa, mediante l'unificazione delle sephiroth del piano inferiore con Binah e Hochmah, sino alla conoscenza superiore di Daat [la sephirah non sephirah nascosta sull’Albero tra Tipheret e Kether]; Sod, o interpretazione segreta, per elevarsi nella direzione di Ein Soph tramite la triade superiore Binah-Hochmah-Kether. Sod e 'segreto indicibile' proprio perché attiene ai rapporti di Binah e di Hochmah con la Corona (Kether), con quell'uno che si ritrae in Ein Soph e si rivela in Hochmah, cioè nella diade come principio. Si legge, in un altro passo dello Zohar, a proposito dell'unione tra l'uomo e la donna:

“Qui la donna si unisce al suo sposo. E quando si siano stretti l'un l'altro in un abbraccio, allora bi­sogna che le loro membra siano aderenti e i loro tabernacoli con­giunti, come se fossero uno, e che la loro comunione si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per poter­si elevare nella direzione di 'Ein-Soph', affinchè tutto si uni­sca laggiù per fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo”.[2]

 Cosa s’intende con “essere come uno” e con l’elevarsi nella direzione di Ein Soph? Essere come uno non significa divenire uno, bensì cogliersi nella diade originaria o principio. Elevar­si nella direzione di Ein Soph non significa partecipazio­ne mistica della medesimezza con l'uno, bensì intenzione verso quella “trascendenza indicibile, pensabile solo come negazione del principio e della fine, allorché si realizzi l'uno nella sola forma possibile, quella dellunificato. Si spiega, così, perché nel Sanhedrin talmudico è scritto che “colui che legge un versetto del Cantico dei Cantici e lo con­sidera come un canto erotico, attira la sciagura sul mondo”[3]. Altrettanto errato è fare dell'unione dell'uomo e della donna una sorta di ierogamia finalizzata alla dis­soluzione della diade nell'androgino originario, archetipo an­tropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo e la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del principio e della fine. Del principio che è due (il 'Bereshith Bara Elohìm Eth' del Genesi ) e della fine che, ogni volta, torna ad essere principio. Altrimenti detto, quando l'uomo e la donna si uniscono il principio e la fine sono sempre altrove, non lì dove ci aspetteremmo di trovarli, sono Ein Soph. La trascen­denza è sempre al di là, come ‘indicibile lontananza’ si offre alla ‘Qavvanah’ (intenzione) e alla ‘Devequth (comunione) attra­verso l'unificazione delle sephiroth. Scrive in proposito lo Scholem:

Devequth non è dunque ‘unio’, ma ‘communio’. Nel senso che il temine ha nel vocabolario dei kabbalisti, esso richiede sempre, malgrado il suo carattere d'intimità, un elemento di distanza..... La "Kavvanà" è lo strumento di questo processo. Isacco e i suoi allievi non parlano di un'estasi, di un atto unico che fa uscire da se stessi, nel quale si annulla la coscienza umana. La ‘Devequth’ non con­siste nel penetrare impetuosamente in Dio e nell' assorbirsi in lui; è uno stato costante, che s'alimenta con la medita­zione e che per mezzo suo si rinnova.”[4].

IL SEPHER BAHIR

 Tra i testi che circolarono maggiormente nelle scuole dei cabbalisti storici, ci fu il Sepher Bahir (Libro Fulgido) erroneamente attribuito, come già si è detto, a Isacco il Cieco. In realtà l’opera apparve in Provenza tra il 1150 e il 1200 proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Le sue fonti principali  si ritrovano, oltre che  nel Sepher Yetzirah, tra le opere dei Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo [5], nel misticismo della Merkavà  e in particolare nel Razà Rabbà o Il Grande Mistero, libro andato perduto, ma ripetutamente citato, soprattutto da autori caraiti. Pare fosse stato composto tra il Quinto e l’Ottavo secolo, dunque in una fase successiva a quella dei testi più importanti della Merkavà. Il contenuto magico e angelologico di questo libro è attestato da tutti e sarebbe parte di quella gnosi ebraica che - a giudizio dello Scholem - deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Si vedrà poi, analizzando il Sepher Bahir, come il giudizio dello Scholem possa essere rovesciato e portare alla conclusione, sostenuta da più di uno studioso, di una derivazione dello Gnosticismo addirittura dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette ebree’ (Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.

 Esaminero ora alcuni punti del Sepher Bahir, ricorrendo per la citazione di passi significativi alla traduzione di Giulio Busi (Sefer ha-Bahir, in Mistica Ebraica, Einaudi, Torino, 1995, pp.151-212). In parentesi tonda sono riportati in neretto i numeri dei paragrafi del testo dai quali è attinta la citazione. I passi sono nell’ordine quelli che riguardano: Luce-Tenebra, Tohu-Bohu, Bene-Male, Acqua-Fuoco, Albero-Giardino e sono tutti determinanti per la comprensione di ulteriori speculazioni cabbalistiche, quali soprattutto quelle contenute in Zohar.


Luce: Gli uomini non sopportano la vista della luce troppo fulgida (bahir), il buio è per te come la luce (1).Solo della luce c’è sostanza, non così della tenebra che, pure, è creata da Dio (13). La luce precedette il mondo (16).Nessuna creatura può guardare la prima luce (147). Qual è il nascondiglio della potenza di Dio? E’ la luce che ha celato e nascosto e che tiene in serbo per i giusti del ‘olam ha-ba o mondo a venire, quella che rimane è per coloro che confidano in Dio, osservano la Torah, compiono i suoi precetti, santificano il suo Nome e ne proclamano l’unità in segreto e in pubblico (148).La Torah è una luce (149).Fu così creata una grande luce, che nessuna creatura avrebbe potuto sopportare. Il Santo, sia Egli benedetto,vide che nessuno poteva tollerarla: ne prese allora la settima parte, e la sostituì, per essi all’intero. Il resto lo ripose per i giusti a venire (160). E’ scritto: E Dio disse: Sia la luce, e la luce fu. In verità, questo ci insegna che la luce era assai grande, né alcuna creatura poteva fissarla (190)

I concetti contenuti nei paragrafi sopra citati richiamano una continuità sia con il Sepher Yetzirah che con il Sepher Zohar. In particolare, per il paragrafo (1) si veda il Sepher Yetzirah 1,7 dove si parla delle fiamme che divampano alimentate dal carbone ardente. In riferimento ai paragrafi (1) e (13) si veda Zohar, II, 30 b: 

 “Elohim separò la luce dalle tenebre… Ora non bisogna credere che si tratti di una vera separazione”. L’idea di una ‘doppia’ oscurità è inoltre contenuta in Zohar allorché si intende distinguere tra la tenebra separata da Elohim e l’Oscurità o Luce troppo oscura per essere vista: “Questa luce scaturì dal cuore dell’Oscurità (…) dalla luce nascosta prese forma una segreta via d’accesso grazie all’oscurità del mondo di quaggiù e la luce poté manifestarsi.” Poco più avanti, Rabbi Yossi chiarisce che l’oscurità che consente alla luce di manifestarsi nelle cose del mondo non ha nulla a che vedere con l’Oscurità originaria: “Rabbi Yossi lo spiega così: (non si tratta dell’oscurità originaria) perché se tu affermi che è di questa Oscurità chiusa che sono state scoperte le profondità, sappi che tutte le supreme corone sono lì ancora nascoste e che per questo sono dette ‘profondità’.”

Tohu-Bohu (Caos e informità): La terra era caos e informità. Significa che era già caos. Era Tohu e tornò ad essere Bohu (2). I concetti di materia e forma si collegano a quelli di luce e tenebra. La riconoscibilità del bene attraverso il male, come la luce attraverso la tenebra. La terra era caos perché prodotta dalla condensazione della luce originaria  che si era ridotta per poter essere vista, nella parte mancante della luce originaria subentra la tenebra, la luce condensata o materia caotica. Dio ha fatto una cosa contrapposta all’altra (Eccl.7.14) Creò l’informità (bohu) e la collocò nella pace. Creò il caos (tohu) e lo collocò nel male, creò l’informità e la collocò nella pace, nel bene (11). Da dove si deduce che il caos è nel male? Dal versetto: Colui che opera il bene e crea il male-(Is.45.7). La forma o informità viene dunque creata per limitare o circoscrivere il male. E’ la luce rimasta dopo la riduzione della luce originaria e che serve a rimettere ordine nel caos (Ordo ab Chao) della materia (12). E’ il tohu dal quale proviene il male che stupisce gli uomini (135). ‘…Compi il tuo lavoro nella tua dimora…In tal modo, non potranno vederti né nuocerti, giacché essi… si tengono lontani da ogni condotta buona e scelgono il cattivo comportamento. Quando vedono che un uomo s’avvia lungo una strada onesta, e la percorre, lo prendono in odio. Che cos’è? È Satana. Questo ci insegna che il Santo, sia Egli benedetto, ha un attributo il cui nome è male (162). E tohu significa male che frastorna il mondo affinché pecchi. Ogni cattiva inclinazione dell’uomo proviene di là… Perché l’istinto del cuore umano è inclinato al male fin dalla sua adolescenza (Gen.8.21) e il compito dell’uomo è nel vincere le cattive inclinazioni, nel mettere ordine nel caos dei desideri, nel dare forma alla sua vita nella materia (167).

Male-Bene. Appare qui evidente il collegamento di questa coppia con la precedente:
 […] Che significa il versetto: E avvenne che, quando Mosè teneva la sua mano alzata, Israele era più forte, ma quando egli faceva riposare la sua mano, Amalec era più forte (Es.17.11)? Ci insegna che il mondo esiste grazie all’elevazione delle mani. Per quella forza che è stata data a Giacobbe nostro padre, il cui nome è Israele. Ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe furono date forze, una a ciascuno di essi, in base all’attributo secondo il quale ognuno regolava la propria condotta. Abramo era caritatevole verso il mondo… (135). [6] Quando Mosè chiese di conoscere il Nome glorioso e terribile, sia benedetto… domandò perché a un giusto tocchi in sorte il bene e a un altro il male, e parimenti, a un malvagio tocchi in sorte il bene e a un altro il male. Ma non gli fu dato di saperlo (194). Perché a un giusto tocca in sorte il bene e a un altro il male? Giacché quel giusto, a cui tocca il male, era stato in precedenza un malvagio, e ora incorre nella punizione. E’ possibile che lo si punisca per quanto compiuto durante la giovinezza?… Gli rispose: Non parlo di questa vita, ma di quanto è già accaduto nel passato… A che cosa si può paragonare? A un uomo che piantò una vigna nel proprio giardino, con la speranza di produrre buona uva, ma non ne ottenne che di scadente. Quando vide che non aveva avuto successo, la piantò, la recintò, la rafforzò, ripulì i grappoli buoni dai cattivi, e poi la ripiantò una seconda volta, ma vide che non era riuscito; la piantò ancora e la recintò, dopo averla ripulita; ancora non riuscì: sradicò e piantò nuovamente. Per quante volte? Per mille generazioni(195). Se non vi fossero le vostre colpe non vi sarebbe differenza tra voi e lui... L'uomo avrebbe un’anima superiore se non fosse per le colpe. L’hai fatto poco meno di un Dio (Sal.8.6) Cosa significa poco meno? Che egli ha colpe, ma il Santo, sia Egli benedetto, non ne ha, che Egli sia benedetto e benedetto il suo Nome in eterno. Egli non ha colpe e tuttavia la cattiva inclinazione proviene da lui! (196)

Sergio Magaldi

[ S E G U E ]



[1] Per l'interpretazione di senso alchemico dello Shirah-Shirin, oltre alla vasta letteratura sull'argomento, cfr., soprattutto: Cantico dei Cantici, I-5, I-6, II-4, II-7, II-I2, III-1, III-6, IV-16, V-9, V-14, VI-7, VIII-4, VIII-8. Per l'interpretazione cabbalistica occorre riferirsi all'intero corpo della letteratura zoharica. Per una prima introduzione, cfr. Zohar, ed.cit.,vol.I,t.II,p.I28, note 456-7; p.I7I,n.22; p.I72, nn.29-30; p.246,n.40;  p.274,n.204; p.328,n.257;p. 394,n. 876; p.395,nn.877 e 880; p.396,n.895; p.429,nn.98-9; p.49I,n.35
[2] Zohar, II-216 a-b
[3] Cfr., Rabbi Issa’char Baer, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, 1979, p.10
[4] Cr.G.Scholem,Le Origini della Kabbah, cit.,p.374
[5] Sul Chassidismo tedesco nel Medioevo cfr. G.Scholem, Le Grandi Correnti della Mistica Ebraica, il melangolo, Genova, 1990, pp. 95-126.
[6] L’episodio biblico di Amalec, che secondo l’interpretazione di Isacco il Cieco - come si è visto sopra - determina la frattura del Nome di Dio, sembra corrispondere qui alla frattura della Luce originaria da cui derivano le tenebre, il caos e il male. Il collegamento tra Nome-Luce-Tenebre-Forma-Materia-Bene-Male s’intuisce anche dal prg. 196 (in parte citato di seguito) del Sepher Bahir

martedì 16 gennaio 2018

NOTE SULLA QABBALAH: parte IV, l’uno e le porte della conoscenza





SEGUE DA:


NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia  (clicca sul titolo per leggere)

 

Avvertenza: per leggere le lettere ebraiche occorre il font hebrew

 

LE 231 PORTE DELLA CONOSCENZA


 Tornando all’Asse del Mondo, Telì ( y l t = 440) ha due ghematrie significative: Tam  \ t  completo e Met t m  morte. La ruota celeste è Galgal, che nel Talmud designa la ruota dello zodiaco. Nel Bahir (106) è l’utero o ventre ed ‘è nell’anno come un re nella provincia’ (Sepher Yetzirah,6:3). Non definisce il tempo (in quanto Telì è lo spazio), ma vi si trova dentro. Detta altrimenti: il tempo non è che una determinazione dello spazio. Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico in connessione con Galgal formano le 231 Porte della conoscenza, come è scritto nel Sepher Yetzirah (2:4): ‘22 lettere… Le collocò in circolo come un muro con 231 Porte’. Una delle tante possibili speculazioni cabbalistiche che offre il Sèpher Yetzirah si riferisce a  b y t n  Netiv, sentiero, che ha valore numerico 462, sommando le 4 lettere dell’alfabeto ebraico che formano la parola (Nun 50+ Taw 400+ Yud 10+ Beth 2 =462). La metà del valore numerico di Netiv è 231, il numero delle porte della Conoscenza, che formano tutta la realtà e che si possono individuare attraverso più complesse indagini cabbalistiche. Le Porte si ricavano anche applicando una formula basata sul principio seguente: dato un certo numero di punti (n) in una circonferenza, il numero delle linee (L) che si ricavano connettendo tra loro tutti i punti è L=n (n-1) / 2. Applicando tale formula alle 22 lettere si ha: L= 22x21/2=231. La conoscenza delle 231 Porte pare servisse alla costruzione di un Golem, perché ciò avvenisse erano necessarie 97.240 pronunce di lettere associate alla cinque vocali primarie e alle quattro lettere del Tetragramma. Il restante 231 è rappresentato da Israele che si scrive in ebraico con le lettere Yud-Shin-Resh-Aleph-Lamed, lettere l a r c y che si possono suddividere in Iesh-Rela che significa “Sono 231”. In tal senso, Israele perde qui i suoi connotati di realtà storico-geografica ed etnica per acquisire la dimensione dell’universalità. Il centro dell’albero dove convergono i trentadue sentieri è il fuoco originario della manifestazione ed è rappresentato da Lev, cuore, com’è scritto: ‘Il cuore è nell’anima come un re in guerra’ (Sepher Yetzirah,6:3): il suo ruolo è di conciliare le opposizioni e di creare equilibrio e armonia (Thiphereth). Il Talmud identifica il cuore come lo scenario della battaglia incessante tra impulso buono e impulso cattivo. Kaplan osserva che le iniziali di Telì-Galgal-Lev formano la parola Taghel presente nel versetto di Isaia, 61-10: ‘La mia anima si delizierà in Dio’. Per alcuni cabbalisti, la meditazione su questi tre elementi può condurre all’estasi mistica.


CABBALISTI PROVENZALI E SEFARDITI: da Isacco il Cieco ad Azriel di Girona


 Uno tra i maggiori discepoli di Isacco il Cieco fu, come si diceva sopra, Azriel di Girona che oltre ad occuparsi di astrologia cabbalistica, scrisse diversi commenti e brevi trattati. Nel Commento al Libro della Formazione, si interroga sulle sephiroth e sull’impossibilità per l’uomo di comprendere la prima sephirah o corona suprema a causa della sua stretta connessione con Ein Soph. C’è a suo giudizio – ed è un tema che ricorre spesso in Zohar – una potente attrazione tra le nove sephiroth superiori e la decima sephirah, quasi due amanti che si desiderano e si cercano per potersi finalmente possedere. Nel Commento sull’unificazione  del Nome, Azriel riprende i temi cari al suo maestro: la distruzione del Tempio, l’esilio, la presenza del male  e la perdita dell’unità del nome divino sono stati causati dal disordine generatosi all’interno del mondo delle sephiroth: in nuce, una sorta di anticipazione della rottura dei vasi della qabbalah luriana, come vedremo più avanti. Nel Commento sulle leggende talmudiche, Azriel sostiene che il desiderio di Mosè di conoscere il segreto dell’esistenza del bene e del male, dipese unicamente dal fatto di ignorare quale modalità di pensiero circolasse realmente nelle Sephiroth, ancorché fosse consapevole del loro comportamento nella realtà. Nei Principi sul segreto della Preghiera delle 18 Benedizioni, egli afferma che la meditazione sulle sephiroth, sulle lettere e sul Nome costituisce la vera preghiera del cabbalista. Altre concentrazioni utili sono quelle sull’acqua e sui colori. Nella undicesima benedizione indica i momenti del giorno propizi alla recita dello Shemà Israel[1]:

 “Sappi, figlio mio, che l’Unità [contenuta nella preghiera ‘Ascolta Israele’ deve essere proclamata in due momenti precisi del giorno:] quando la luce se ne sta per andare e l’oscurità comincia ad apparire, e quando l’oscurità sta andando via e la luce comincia a brillare. Questo testimonierà che il Signore è Uno [e che sta in cima] in tutte le opposizioni” [2]

 Nella quattordicesima benedizione, accenna a temi che saranno ampiamente trattati nello Zohar: la conoscenza dell’uno come unificato e la presenza in ogni forma della scintilla divina, che egli chiama radice e che persiste anche dopo la scomparsa della forma:

 “Sappi, figlio mio, che su questa questione i filosofi dicono che chi scende dalla radice delle radici sino alla forma delle forme deve giungere sino alla molteplicità, e chi sale dalla forma delle forme sino alla radice delle radici deve provocare l’unione del molteplice, perché ciò che sta più in alto di tutto permane unito. La radice è presente in tutte le forme che da lei procedono in maniera permanente e, anche quando le forme scompaiono, la radice resta”.[3]

 Nel Portico dell’interrogante, Azriel dà risposta a diversi interrogativi da lui stesso posti con la formula: “Se qualcuno ti domanda: […]”. Le più interessanti  domande-risposte sono quelle che riguardano le Sephiroth   di cui egli sostiene l’emanazione e non la creazione: in quanto immediatamente prodotte dall’Infinito Ein Soph, che è perfetto, non possono che parteciparne la perfezione, diversamente, se fossero state semplicemente create, non godrebbero della sua stessa sostanza infinita. Quanto ad Ein Soph, Azriel si limita – così come facevano tutti cabbalisti delle scuole medievali – a sottolinearne l’impossibilità della conoscenza che, come si è visto sopra, si estendeva sino alla prima sephirah o corona suprema. Del resto, il maestro di tutti, Isacco il Cieco, raccomandava ai suoi scolari di tener fuori Ein Soph da ogni speculazione e testimoniava di rivolgersi solo alla Corona o Kether, prima sephirah, che chiamava ugualmente Ein Soph e alla quale dichiarava di volersi abbeverare.
 Dal valore numerico di Ein Soph [1+10+50+60+6+80=207] [ w s  } y a  i cabbalisti potevano comunque trarre  significative ghematrie come  z r  Raz, segreto, e  r w a  Or, luce, aventi lo stesso valore di 207.

EIN SOPH


 L’impossibilità di conoscere Ein Soph è già adombrata nel Sepher Yetzirah, allorché si chiede: “E prima dell’uno che numero puoi tu contare?” [1:7] e il testo ha già detto al rigo precedente che non è lecito iniziare a contare dallo zero: “Dieci sephiroth beli mah, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro principio nella loro fine”. Dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi testi cabbalistici lo zero-nulla diviene l’ “Ayn” di Ein Soph, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeìron” di Anassimandro. In realtà, l’a-peìron del pensatore ionico è il “senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tut­te le cose. L’ “Ayn” ebraico, composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità ma di luogo: Ein Soph indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e la fine, oltre ciò che è manifesto. La fine è impossibile da coglie­re: i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infi­niti. Il principio è ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio’ è il due.

 Nello Zohar, il significato dato dallo Yetzirah a un concetto ancora embrionale di Ein Soph, non ne risulta affatto stravolto, ma addirittura rafforzato: “Ein-Soph, infinito: in lui non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità dal pensiero”[4]. Più avanti Ein Soph è detto “Chiusura inaccessibile e sconosciuta [...] resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare né una fine né un principio”[5]. C'è di più: non solo 'Ein-Soph' non è il principio, non lo è neanche l’uno. Il principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli antichi pitagorici, com’è scritto in Zohar:

 “E’ scritto: ‘In principio’ (Bereshith), ma è la lettera beth che si trova all’inizio, el­la che è il due, la seconda lettera dell'alfabeto. Perché il due e chiamato 'principio’, allorché la Corona suprema (l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in Questione, è il due che è il principio”. [6] La spiegazione rimanda alle prime parole del Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar:

 “In principio. Rabbi Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del Genesi una inversione nell'ordine alfa­betico delle lettere: prima una beth seguita da un'altra beth in 'Bereshith barah' ('In principio creò'), poi soltanto una aleph seguita da un'altra aleph in 'Elohìm-eth’('II Signore')”. [7]

 Dall'esame dei passi citati emergono due considerazioni essenziali e la prima è che ‘in principio’ è il due. Non a caso, le let­tere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla seconda, alla terza, alla sesta e alla decima sephirah: Yud-Hochmah, il padre; He-Binah, la madre; Vaw-Tiphereth, il figlio; seconda He-Malchuth, la figlia o la sposa.[8] La seconda considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è 'Ayin'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana[9] che di fatto implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Pro­prio perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la diade. Tale unificazione è possibile grazie a un elemento in grado di equilibrare ciascun polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar

 “Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu mattina, un solo giorno’(Genesi I-1). Giorno, dove sera e mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno.”(9)[10]

 E ancora: in Binah, la terza sephirah (il tre), che è composta dalle lettere Beth, Yud, Nun, He , c'è il principio (Beth), il padre (Yud), la madre (He). La lettera Nun, tra lo Yud e la He, rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la madre, il maschio e la femmina.

 In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e si rivolge verso Ein Soph. In tale contesto, Ein Soph, lungi dall'essere l’Uno dell'estasi plotiniana, altro non è che la pensabilità della negazione della fine e del principio. Così, se l'uno, come tale, si ritrae, e se non è possibile al­cuna speculazione su Ein Soph, non resta che aspirare all'uni­ficazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui si ri­vela, nell'unificato. Si comprende allora come l'unificazione più alta sia quella tra l’uomo e la donna, la diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah-Shirim o “Cantico dei Cantici”.

[S E G U E]

Sergio Magaldi




[1] […]  d j a   h w h y   w n y h l a    h w h y    l a r c y    u m c
‘Shemà Israel Adonai Elohenu Adonai Echad…’ “Ascolta… Israele… il Signore è il nostro Dio… il Signore è uno… Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi nel tuo cuore… le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali in mezzo agli occhi e […]”.
[2] Azriel de Girona, Cuatro Textos Cabalísticos, Riopiedras Ediciones, Barcelona, 1994, p.158. La traduzione dal castigliano è mia, come quella del passo che segue
[3] Ibid., p.159
[4]Sepher ha Zohar, ed. Verdier, I, 2Ia. La traduzione del brano dall’edizione francese, come dei successivi brani citati dallo Zohar, è mia.
[5]Ibid.,II,239a
[6] Ibid.,I,31b
[7] Ibid.,I,2b
[8] Midrash-ha-Heelam,75a; Idra Zouta,Zohar III,291a
[9] L' ineffabile Uno di Plotino si svela mediante l'estasi o, me­glio, si rivela a chi, librandosi sul fango della materia e riper­correndo a ritroso il cammino emanativo, giunge infine a medesimarsi con Lui: “Tutti gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi pri­ma che dell'intelletto e incontrando, dapprima, di necessità le cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la loro vita nelle credenze che esse siano le prime e le ultime cose, e so­stengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole sia rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne abbastanza passano la vita perseguendo l'uno o l'altro, lonta­ni dal loro tetto. E chi tra loro si atteggia a filosofo pre­tende persino che sia qui la sapienza. Somiglian, costoro, ad uccelli pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appe­santiti così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la parte più nobile dell'anima loro li sospinge dal piacere alla bellezza; ma poiché non riescono a vedere le altezze, privi di altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla scelta, tra le cose vili e basse donde prima avevano tentato di sollevarsi.
 V’è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte vi­gore e di sguardo più acuto che san vedere, come per suprema in­tensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù, quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene verace e avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua retta da buone leggi.”[Plotino, Enneadi, V.9.I. , trad.it. di V.Cilento].
[10] Zohar,I-32a