Ripropongo di seguito la
recensione di Canale Mussolini, il
romanzo con cui Antonio Pennacchi, improvvisamente scomparso, vinse
meritatamente lo Strega, il più
prestigioso tra i premi letterari italiani.
Un
libro finalmente degno dello Strega (Vincitore 2010) questo Canale
Mussolini di Antonio Pennacchi. Narra le vicende dei Peruzzi, una
grande famiglia contadina del ferrarese, nel contesto degli eventi che
caratterizzarono la storia italiana tra gli inizi del ‘900 e la metà del
secolo.
Si
parla di fascismo, dunque, ma – e questo è uno dei maggiori pregi del romanzo –
per così dire lo si osserva dal di dentro. Il fascismo non è più o non appare
soltanto come una condizione inquietante dell’anima, secondo il noto giudizio
di Benedetto Croce o come un “incidente di percorso” della storia italiana, tra
liberalismo e democrazia [cristiana], ma piuttosto come il prodotto
naturale delle tensioni sociali che si erano andate accumulando in Italia,
durante i sessant’anni successivi all’unificazione. Non “un corpo estraneo”,
dunque, ma purtroppo l’unico modo in cui una società arretrata, preindustriale
ed elitaria, caratterizzata dall’analfabetismo, dalla miseria, dal brigantaggio
e dalla corruzione [costante di sempre, quest’ultima, nella politica e nella
società civile del Belpaese], riuscì malgrado tutto ad evolversi. In questo
senso e solo in questo senso, il fascismo fu “rivoluzionario”, dando così in
parte ragione a Benito Mussolini, quello ormai sconfitto dalla Storia, che
nell’ultima intervista concessa pare abbia detto: “Io non ho creato il
fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”.
Non
vorrei essere frainteso. Non che gli italiani fossero da sempre abitati dai
“mostri” del fascismo, giacché erano i mostri della fame e dell’ignoranza a
tenere il campo, e l’unico senso accettabile che ha il pensiero dell’ultimo
Mussolini è quello di aver saputo interpretare il malessere sociale e l’istinto
di ribellione delle masse saldandoli agli oscuri ideali di una piccola
borghesia frustrata e megalomane, talora vagamente intellettuale e che, prima
del fascismo, trovava spesso nella Massoneria il proprio punto di riferimento.
Come si vede chiaramente non solo dalla denominazione che assunse il massimo
organo di rappresentanza politica del fascismo. Quel Gran Consiglio che
annoverava in prevalenza massoni ed ex-massoni, preferibilmente di Piazza del
Gesù.
Un po’
quello che avverrà nel secondo dopoguerra con la Democrazia Cristiana e che
oggi avviene con Berlusconi: saldare in un unico blocco gli ideali [?!] della
piccola borghesia e gli interessi della borghesia media e
alta, col collante dei cosiddetti valori cristiani e grazie alla forza
della telecrazia, odierno ed efficace strumento di governo, capace
di allineare le coscienze nell’unica direzione del conformismo, della
volgarità, dell’ignoranza e del pregiudizio [ciò lo scrivevo, naturalmente più di dieci anni fa...]
È
chiaro che senza mettersi al servizio della Reazione la “rivoluzione fascista”
sarebbe fallita e di questo il primo a rendersene conto fu certamente Mussolini,
nato socialista e abbastanza lungimirante da comprendere la sterilità di un
movimento perpetuamente scissionista ed eternamente diviso tra una base
proletaria e una classe dirigente di piccoli intellettuali sempre in lotta per
il potere, ora riformisti, ora rivoluzionari, ora imbelli e qualunquisti,
sempre frazionisti.
E il
nonno di chi racconta Canale Mussolini partecipa anche se solo
marginalmente agli eventi che caratterizzano la storia italiana agli inizi del
‘900. Trentenne, divide il carcere con il socialista Rossoni, futuro
sottosegretario alla presidenza del consiglio di Mussolini. A quattro dei suoi
diciassette figli mette i nomi di Treves, Turati, Modigliani e Bissolati.
Divide insieme alla numerosa famiglia pasta e fagioli e polenta con il giovane
Mussolini. È testimone della carriera politica del duce: sindacalista
rivoluzionario, direttore dell’Avanti, violento oppositore della guerra
di Libia del 1911: “È chiaro che i socialisti non potevano condividere questa
politica di aggressione coloniale e imperialista […] il più arrabbiato di tutti
era proprio il Mussolini, che era diventato una specie di numero uno dei
sindacalisti rivoluzionari in Italia ed era pure un pezzo grosso del partito
socialista. ‘L’ho sempre detto’ diceva adesso mio nonno all’osteria […] ‘che
come questo ce n’è pochi, questo è un uomo speciale, se si mette in testa una
cosa la fa, non lo ferma nessuno’ e difatti nel giro di pochi anni se ne erano
resi conto tutti, mica solo mio nonno […] pure il Treves e il Turati, che
cercavano di tenerlo buono. Be’, lui per la Libia ha fatto un casino. Prima è
riuscito a convincere tutti gli altri socialisti […] e poi ha guidato lo
sciopero generale contro la guerra in Africa con azioni rivoluzionarie di vero
e proprio sabotaggio”. [p.41]
E dopo
di allora: la settimana rossa e il carcere con Pietro Nenni. Poi, improvvisa la
svolta con l’interventismo nella I guerra mondiale, non al fianco della
Germania, nostra tradizionale alleata di allora, ma nel campo opposto con
Francia e Inghilterra. Perché questo cambiamento? Lo spiega al nonno del
narratore lo stesso Mussolini, desinando con lui: “Questa guerra quindi era
proprio quello che ci voleva, una mano santa che avrebbe scatenato tante di
quelle tensioni – diceva il compagno Mussolini – che niente sarebbe stato più
come prima. Una volta che il proletariato si fosse ritrovato tutto coinvolto
sotto le armi, la guerra da mondiale non avrebbe potuto diventare che sociale.
In fin dei conti era deflagrata come scontro di interessi – ‘I schèi’ – tra le
borghesie capitalistiche dei singoli Paesi europei. Ma poi sul campo non poteva
non sfociare in una guerra generale di classe, con il proletariato europeo
contro i padroni di tutti i Paesi”. [p.57]
E la
testimonianza prosegue con i racconti dello zio Pericle, soldato a Milano e il
più politicizzato della famiglia: le tensioni del dopoguerra, i tanti discorsi
sulla “vittoria mutilata”, la fondazione del fascio e il programma di San
Sepolcro che promette suffragio universale, repubblica e terra ai contadini.
Nel socialismo ormai è guerra aperta. Tra i cosiddetti interventisti, ora
fascisti, e i neutralisti di sempre: “Nemici ormai – noi di qua e loro di là –
perché loro erano stati contro la guerra e adesso erano contro i soldati e
continuavano a fare quello che avevano sempre fatto: chiacchiere cioè, e pochi
fatti, o almeno così dicevano i miei. E se loro erano rossi, noi per contrasto
dovevamo essere neri, anche se non è che stessimo con la borghesia
capitalistica e loro invece col proletariato. Mica stavamo con classi diverse,
almeno all’inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo
semplicemente concorrenti nella stessa classe di popolo lavoratore […]. È per
questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si sono
divisi”. [pp.69-70]
Non
bisogna tuttavia pensare che il romanzo di Pennacchi si limiti a ripercorrere
l’ascesa del fascismo e del suo duce in un’atmosfera rarefatta e incolore che
rischia di annoiare il lettore, perché è un’intera civiltà contadina quella che
prende vita pagina dopo pagina, attraverso il duro lavoro, le sofferenze, le
passioni, i vizi e i valori di chi ne fa parte. Neppure l’autore difetta di
ironia nel descrivere personaggi piccoli e grandi di questa storia e una
particolare attenzione è dedicata alla donna, alle molte contraddizioni in cui
si trova a vivere. Capo-famiglia di fatto, quando invecchia, come la nonna di
chi racconta, madre di abbondante prole per avere un ruolo familiare, che è
anche l’unico ruolo sociale, vittima e quasi schiava se le viene a mancare il
marito con i figli ancora piccoli. E in questo universo femminile governato da
ferree leggi non scritte, spesso occultamente violate, si distingue la figura
di Armida che alleva le api, parla con loro e ne riceve consigli e
premonizioni.
Ma il
romanzo s’incentra soprattutto sull’esodo che costringe i Peruzzi, assieme ad
altre famiglie emiliane, venete e friulane, a lasciare la propria terra e a
recarsi nell’Agro Pontino. Perché? Perché solo tra le paludi dove da secoli e secoli
regnano indisturbate zanzare e malaria, la promessa “sansepolcrista” del duce
sarà mantenuta. In cambio delle bonifiche e della costruzione di un canale
[Il Canale Mussolini, appunto], vasti poderi saranno assegnati ai
contadini, naturalmente solo a quelli di comprovata fede fascista.
“Maledetto
Zorzi Vila”, diranno i Peruzzi costretti all’esodo per colpa del conte Zorzi
Vila che li ha cacciati dalle terre che coltivavano a mezzadria, e la
maledizione diverrà la divisa di ciascun membro della famiglia di fronte ad
ogni sciagura, da allora in poi. Ma anche Mussolini ci mise del suo nella
vicenda, osserva il narratore: “Era il 1927 e come lei sa, a quei tempi, il
commercio estero non avveniva sulla base del dollaro, ma dell’oro e della
sterlina inglese che a settembre 1926 era arrivata a 149, quasi 150 lire per
una sterlina. La bilancia dei pagamenti import-export era al tracollo.
L’industria italiana in crisi […] Be’, lui – il Duce – dalla mattina alla sera
ha detto: ‘Rivaluto la lira, da oggi in poi è a quota 90, mai più di 90 lire
per una sterlina’. […] come deve essere stata contenta la grande industria
italiana che per il carbone, il ferro, il rame ed ogni cosa che doveva andare a
comprare all’estero e che fino al giorno prima la pagava, mettiamo, a 150 lire
al chilo, adesso la pagava 90. Ed anche noi Peruzzi abbiamo detto lì per lì:
‘Vaca boia, come che l’è bravo il nostro Duce’. […] solo dopo ci siamo accorti
che se il nostro campo continuava a produrre solo e sempre, mettiamo, i suoi
dieci quintali di grano all’anno, e noi sino al 1926 vendendo quei dieci
quintali al mercato avevamo preso 1500 lire, dal 1927 in poi ne avremmo
prese solo 900. Veda un po’ quanto ci abbiamo rimesso e se è vero o no, che la
quota 90 ha
ammazzato i contadini italiani […] Noi eravamo tenuti a spartire a metà il
raccolto con il padrone. […] Ed eravamo pure tenuti però a spartire le spese. E
queste lui – lo Zorzi Vila maladéto – le ha conteggiate tutte in lire. Debiti
segnati per anni, e noi convinti di averli già scalati anno dopo anno con una
parte del quintalaggio dei nostri raccolti”. [pp.124-5].
Fu così
– osserva ancora il narratore – che i Peruzzi persero tutto, e furono costretti
all’esodo nell’Agro Pontino, dove gli furono assegnati due poderi grazie
all’intercessione dell’amico Rossoni.
Così i
fascisti, o meglio i contadini emiliani, veneti e friulani, riuscirono in
quello che avevano inutilmente tentato i Romani, i Papi e Napoleone: scavare il
Canale Mussolini e bonificare la palude pontina.
La
storia dei membri della famiglia Peruzzi prosegue intrecciandosi con le vicende
della proclamazione dell’Imperium [al canto di Sole che
sorgi libero e giocondo,/sul colle nostro i tuoi cavalli doma: /tu non vedrai
nessuna cosa al mondo /maggior di Roma/maggior di Roma!], con le
leggi razziali e la II guerra mondiale. E qui finalmente un barlume di
coscienza sembra affiorare nei Peruzzi o almeno in chi di loro racconta la
storia. Sia pure attraverso Italo Balbo: “Ma siete matti? Ma che vi hanno fatto
gli ebrei? In Italia sono più fascisti di noi”. [pp.338-9] e le sue profetiche
parole alla vigilia dello scoppio della guerra, solo qualche mese prima di
essere abbattuto in volo da ‘fuoco amico’: “Io spero che l’Italia non
entri in guerra: voglio ancora avere fiducia nel senso realistico del Duce e mi
auguro che non prevalga in lui il demone della megalomania da cui sembra
invasato in questi ultimi tempi. Ma se così non fosse, noi saremo sconfitti,
cadrà il fascismo, cadrà la monarchia, perderemo le colonie e ci potremo
ritenere fortunati se si salverà l’unità d’Italia”.
Una
dichiarazione almeno lucida e onesta, questa di Balbo, amico da sempre degli
americani e onorato dagli inglesi al momento della morte avvenuta per tragico
errore [?!], per mano di “fuoco amico”. Una dichiarazione nella quale ancora
oggi si riconoscono molti italiani che fascisti non furono o che il fascismo
neanche conobbero e che rimproverano al duce soltanto “la scelta finale”, senza
comprendere che la tragedia veniva da lontano, perché la dittatura, buona o cattiva
che fosse, prima o poi ci avrebbe condotto al baratro.
sergio magaldi