SEGUE DA:
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA' E DOGMATISMO (Parte prima)
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA' E DOGMATISMO (Parte seconda)
Il rapporto tra pensiero sapienziale e
pensiero religioso – cioè tra due modalità della mente così in apparenza
distanti tra loro – deve essere studiato nella concretezza storica dei loro
rapporti, non solo per coglierne appieno le differenze ma anche per portarne
alla luce le non sempre visibili convergenze. Limitiamo l’osservazione alle due
radici della civiltà occidentale: la greca e l’ebraica.
L’Eutifrone di
Platone ci presenta un confronto esemplare tra pensiero sapienziale e pensiero
religioso. Esaminiamo in sintesi il contenuto del dialogo.
Eutifrone
e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della polis e
subito Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel vederlo lontano dal
Liceo e dalle sue abituali conversazioni e più ancora manifesta la sua
incredulità di fronte all’idea che Socrate possa essere l’accusatore di
qualcuno. E infatti Socrate subito gli rivela di essere l’accusato, non
l’accusatore. Di quale accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa
nella quale incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo periodo.
Socrate è accusato di non credere negli dei della città-stato,
di volerli sostituire nel culto con altre divinità e di insegnare queste cose
ai giovani, corrompendoli. Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo
non esiste tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro
l’accusa di empietà si celano sempre precisi motivi politici.
Eutifrone,
dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso l’arconte-re, il sommo
magistrato ateniese, in qualità di accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo
padre in giudizio e di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante
della “legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia
e santa”.
«Ma allora, Eutifrone, – gli
oppone Socrate – hai davvero la
convinzione di conoscere con tanta perfezione le leggi divine? Di conoscere
insomma ciò ch’è santo e pio e ciò ch’è empio?… Non hai timore di procedere
contro tuo padre? Non potrebbe forse avvenire che a sua volta anche la tua
fosse un’empietà?»
Eutifrone
risponde subito di conoscere perfettamente le leggi divine, ciò ch’è santo e
ciò che non lo è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate dichiara
di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio difendersi in
tribunale e subito propone al suo interlocutore di rivelargli in cosa consista
l’empietà e la santità. Eutifrone risponde che è santo fare ciò che lui sta
facendo, cioè denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’
di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in catene il padre
Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per questione di giustizia, aveva
evirato il padre Urano. La citazione consente a Socrate di tornare per un
attimo sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio questo
comportamento degli dei aveva generato la sua critica e dato spunto alla
denuncia contro di lui.
Ma,
insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto quel che stai
facendo contro tuo padre, dammi una definizione di santità che possa adattarsi
per infiniti altri casi. E subito Eutifrone dichiara che “è santo ciò
che è caro agli dei, empio ciò che non lo è”. Definizione che Socrate non tarderà a smontare: gli dei per
primi si accordano forse tra di loro su ciò che è giusto e ingiusto? Noi –
continua Socrate – possiamo facilmente accordarci sul peso di un certo oggetto,
basterà procurarci una bilancia… ma, quando si tratta del giusto e
dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto non troveremo
facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli dei non si comportano
diversamente dagli uomini. Eutifrone ne conviene e al termine di una serie di
ulteriori argomentazioni propone una nuova definizione di santità: “è
santo – egli dice – ciò che è gradito a tutti gli dei, empio
ciò che a tutti è sgradito”.
Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova questione: “il santo è
amato dagli dei perché santo o è santo perché amato dagli dei?”
Man
mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore evidenza il fine di
Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in possesso della verità, ma, non
potendo dire cosa santità e giustizia siano in sé, propone sempre nuove e
diverse definizioni, rendendosi conto lui per primo che nessuna di loro è la
verità, e che ognuna dipende dal punto di vista di chi giudica. Così, da
ultimo, ad Eutifrone non resta che rifugiarsi nella religione, troncando per
ciò stesso ogni ulteriore indagine:
«…la
pietà e la santità – egli dice – sono quella parte del giusto
avente la sua esplicazione nel culto e nella cura degli dei. La parte invece
rivolta agli uomini è la restante.»
Avrà
un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade, col consenso del
suo stesso interlocutore – anche questa definizione e quando infine gli
riuscirà e proporrà di riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone
sfuggirgli con un pretesto.
«Che peccato, amico mio! – ha appena il tempo di
osservare Socrate con ironia – Avevo
concepito una grande speranza; tu vai lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da
te avrei appreso ciò ch’è santo e ciò che non è santo. Così, mi sarei liberato
dall’accusa di Meleto, poiché gli avrei mostrato che alla scuola di Eutifrone
son divenuto un sapiente di problemi religiosi…»
(Platone, I Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)
Insomma,
alla presunzione di sapere della mente religiosa, Socrate oppone la sapiente
temperanza di chi innanzi tutto si propone di conoscere se stesso.
L’argomento si ritrova in un altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme
all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del semplice
assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per mezzo di argomenti
aprioristici, come sostiene la mente religiosa.
sergio magaldi
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