domenica 27 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Quinta]






 L'intreccio tra pensiero sapienziale, di cui la Massoneria è gelosa custode, e pensiero teologico, proprio di ogni religione, è quasi inesistente in Qoelet, problematico in Giobbe, si fa invece serrato in Sapienza e in tutti gli altri trattati della letteratura sapienziale vetero-testamentaria. Emerge, tuttavia, un'osservazione fondamentale. Per quanto nei Proverbi, lo pseudo-Salomone affermi che la sapienza si fondi sul timore di Dio, i detti, i consigli, le sentenze ricche di saggezza e di umana esperienza contenuti nel libro sono norma a se stessi e il loro valore prescinde dal riferimento ad ogni trascendenza perché si iscrivono innanzi tutto nel libro della vita e prospettano per chiunque voglia appropriarsene un ideale di crescita, un progressivo distacco dalle passioni e dai pregiudizi, una iniziazione dello spirito nel crescente dominio di se stessi.

 Le massime morali contenute in Sapienza, nei Proverbi, in Siracide o nei Salmi prima di essere norme dettate dal timor di Dio, sono regole sapienziali e sono altresì testimonianza di una tradizione giunta ininterrotta e vivente sino a noi. Sono massime di rispetto o di pietà familiare come: "Lo stolto deride le correzioni del padre, ma chi fa tesoro delle correzioni diventerà più saggio"(Proverbi, XV,5), "Figlio, assisti la vecchiaia di tuo padre e non lo contristare nella sua vita; ed anche se diverrà debole di mente, compatiscilo, non lo disprezzare nella tua vigoria..."(Siracide, III, 14-15). Sono ammonimenti contro l'ira, nella tradizione ebraica la più funesta tra le passioni, insieme alla lussuria: "E' onorevole per l'uomo stare lontano dalle contese, ma tutti gli stolti si immischiano nei litigi"(Proverbi, XX,3) oppure: "Grave è la pietra, pesante la sabbia, ma più pesante dell'una e dell'altra è l'ira dello stolto"(XXVII,3). Sono regole di prudenza e di saggezza:"Come una città aperta e senza mura è l'uomo che non sa frenare il suo spirito nel parlare"(XXV, 28), "Quanto più sei grande, tanto più umiliati in tutte le cose" (Siracide,III,2O), "Non cercare quello che è al di sopra di te, e quello che è al di sopra delle tue forze non lo indagare"(III,22) "Come acque profonde sono i disegni nel cuore dell'uomo e solo all'uomo sapiente è dato trarli a galla"(Proverbi XX, 5-6)

 Massime tutte queste per orientare il cammino del giusto, lo zaddiq cui la tradizione ebraica assegna un ruolo fondamentale. Noè – scrive Dante Lattes – è il primo tipo dello zaddiq, del giusto che passa incontaminato fra le tristizie dei contemporanei. La figura dell’uomo giusto, che assumerà poi tanto significato etico e una così vasta funzione redentrice nell’ideologia ebraica, dalla Bibbia al Chassidismo, ha in Noè il suo primo modello (…) Noè è l’uomo; l’uomo senza alcun altro aggettivo; non misurato secondo criteri di razza, di lingua, di nazionalità, di religione (…) e quindi posto ad esempio alle generazioni, per quanto remote e diverse dal suo tempo, o, se si vuole, in modo relativo, secondo il grado di perversione del suo secolo. (Nel solco della Bibbia, Laterza, Bari, 1953, p.39).

 Noè è dunque ‘l’uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e che camminava con Dio’ com’è detto in Genesi, 6,9. Noè salvato dal diluvio perché ‘speranza del mondo’ come lo definisce il libro della Sapienza (14,16) e perché fosse il prototipo di una umanità nuova in sostituzione della precedente che si era macchiata di ogni violenza. Violenza contro Dio e soprattutto violenza degli uomini tra di loro che la tradizione ebraica considera ancora più grave dell’altra giacché le colpe commesse dall’uomo contro Dio possono essere rimesse nel giorno di Kippur, mentre le colpe dell’uomo contro l’uomo possono essere rimosse solo mediante il perdono da parte dell’offeso.

 Com’è noto, Dio stringe un patto con Noè, lo benedice insieme ai suoi figli e dà loro alcuni precetti (i cosiddetti precetti noàchidi) con valore universale, rivolti cioè non solo agli Ebrei, in quanto già compresi nelle 613 Mitzvoth, ma ai giusti di tutte le nazioni. Il precetti noàchidi sono 7 di cui 1 positivo (Obbligo della giustizia e dell’istituzione di giudici e tribunali) e 6 negativi (Divieto di idolatria, bestemmia, relazioni sessuali illecite, omicidio, furto e di cibarsi di animali vivi).

 Più ancora che nei libri sapienziali del Vecchio Testamento, è nel Pirqè Avòt - "Insegnamenti dei padri" che il pensiero sapienziale degli Ebrei si identifica strettamente con il pensiero religioso. Pirqè Avòt raccoglie in sei capitoli le riflessioni di autori vissuti tra il V secolo av. C. e il II secolo d. C. e si può a buon diritto considerarlo un trattato sapienziale di morale ebraica o, ciò che è lo stesso, di morale religiosa. Osserva in proposito Yoseph Colombo:

 "E' morale religiosa, come religiose per eccellenza sono tutte le manifestazioni culturali, politiche, spirituali del popolo ebraico. Non bisogna dimenticare che il popolo ebraico è e si ritiene in possesso, fin dai suoi primordi, dell'idea monoteistica e che la tradizione ebraica ritiene di essere venuta in contatto con tale idea per rivelazione divina. Ora, un popolo che ha come cardini del proprio pensiero questi elementi, Dio e rivelazione, è un popolo che, qualunque cosa faccia, dovunque vada, qualunque destino gli sia assegnato, porterà sempre con sé per informarne ogni sua azione un carattere eminentemente religioso. Per cui, pur ammettendo (...) che ci sia stata una speculazione ebraica, anch'essa sarà stata di carattere religioso. Non già che la dottrina morale che può essere rintracciata in questi Pirqè Avòt sia religiosa nel senso che sia eteronoma; essa sostiene non tanto la provenienza divina della legge morale, quanto il carattere divino della legge morale; è religiosa perché è ebraica, e gli Ebrei, anche quando sentono ed esprimono l'autonomia del principio morale e l'universalità ed assolutezza della legge del dovere, questa esprimono in termini religiosi, inserendo la loro concezione morale nella più vasta visione religiosa del mondo e della vita." (Pirque Aboth, Morale di maestri ebrei, trad.it., introd. e commento di Y.Colombo, Carucci, Roma, 1986, pp.XVII-XVIII)

 Sorprende allora, pur nell'annunciata identificazione di pensiero sapienziale e di pensiero religioso, trovare in questa sorta di rassegna del pensiero rabbinico attraverso i secoli, accenti di una laicità sconcertante dove, per esempio, gli elementi della trascendenza divina e della sopravvivenza dell'anima dopo la morte sembrano volutamente accantonati e dove in luogo del consueto encomio dell'ignoranza, così caro alla maggior parte delle religioni positive, perché disporrebbe alla purezza di spirito, troviamo l'invito allo studio e alla frequentazione dei dotti:

 "Sia la tua casa - scrive il rabbi Jòçé figlio di Jo'èzér di Zeredà - un luogo di convegno per i dotti; impòlverati della polvere dei loro piedi; e bevi con sete le loro parole" (I,4) e il rabbi Hillel ammonisce:

 "Chi cerca fama, perde quel po' che ne ha; ma chi non accresce il proprio sapere, finisce col non saper più nulla; ché se poi uno non ha mai studiato, allora è degno di morte" (I,13) e altrove: " ...non dire che studierai quando ne avrai la possibilità, perché potresti non averla... l'uomo rozzo non si cura del peccato e l'ignorante non può essere pio..." (II, 5-6)

 Lo studio, dunque, e i maestri, ma anche il giusto atteggiamento perché, come avverte anonimo il V Capitolo del Pirqè Avòt, "...quattro tipi di persone stanno davanti ai Maestri: v'è la spugna, l'imbuto, il colatoio, lo staccio. La spugna assorbe tutto, l'imbuto da una parte si riempie e dall'altra tutto si svuota, il colatoio fa passare il vino trattenendo le feccie, lo staccio fa passare la farina trattenendo la semola." (V,16)

 D'altra parte, per appropriarsi veramente della Torah, della Legge, occorrono all'ebreo 48 requisiti (VI, 5) di cui, circa la metà riguardano lo studio e l'altra metà vanno divisi tra la comprensione del cuore, l'umiltà, il buon carattere, il rispetto dei maestri, l'amore della giustizia e di tutte le creature, l'osservanza della vita sobria. Il primo dei 48 requisiti è naturalmente lo studio e l'ultimo è sorprendentemente la corretta e necessaria citazione delle fonti. Dire una cosa, citando il nome di chi l'ha detta, riportare sempre il nome dell'autore è causa di redenzione per il mondo secondo l'insegnamento contenuto nel libro di Ester: "E disse Ester al Re, a nome di Mardocheo..." (Ester, II, 22). La frase che Ester dice al re Assuero si riferisce alla congiura ordita contro di lui e di cui la ragazza era stata informata da Mardocheo, suo padre adottivo. Aver citato fedelmente l'autore della preziosa notizia valse a Mardocheo la salvezza e fu motivo di un editto di Assuero a favore degli Ebrei.

 Va da sé, d'altra parte, che questa morale rabbinica si ispiri ai libri sapienziali del Vecchio Testamento, come appare in tutta evidenza nelle parole di rabbi Ben Zòma':

"Chi è veramente sapiente? Chi impara da ogni uomo; secondo quanto è stato detto (Salmi,114, 99): 'da tutti coloro che mi insegnarono io mi sono istruito'. Chi è veramente prode? Chi vince le sue tentazioni, secondo quanto è stato detto (Proverbi, 16, 32): "E' meglio il longanime del prode e chi domina il suo carattere di chi espugna una città". Chi è veramente ricco? Chi si contenta della sua parte, secondo quanto è stato detto: (Salmi, 128, 2): "Beato te e felice te, quando potrai mangiare della fatica delle tue mani"..."(IV,1)

 In alcuni aforismi echeggia persino la lezione di Qoelet: "Sii molto umile davanti a chicchessia, perché, tanto, l'unica speranza umana sono i vermi", osserva rabbi Levitàç (IV, 4) e 'Aqàbjàh ben Mahalal'él risponde a suo modo alla triplice e fatidica domanda della tradizione esoterica: "Rifletti a tre cose e tu non avrai mai a commetter peccato: Sappi donde tu sei venuto, verso dove tu vada e dinanzi a Chi tu sarai per render conto completamente delle tue azioni. Donde sei venuto? Da una goccia putrida. Dove vai? Verso un luogo di polvere, vermi e lombrichi. Dinanzi a chi sarai tu per render conto delle tue azioni? Davanti al Re dei Re, il Santo, benedetto Egli sia" (III, 1) [Segue]


sergio magaldi

mercoledì 23 dicembre 2015

IRRATIONAL MAN




 Se l’irrazionale, nel film di Natale dello scorso anno [La filosofia di Woody Allen in Magic in the Moonlight, clicca sul titolo per leggere] era rappresentato da Woody Allen come una possibile e tuttavia improbabile categoria dello spirito per dare senso a una realtà che non ne ha, l’ultimo lavoro del grande regista newyorchese fa camminare l’irrazionale sui piedi di un professore di filosofia di un college [Abe Lucas, interpretato da un Joaquin Phoenix ingrassato di 15 chili per interpretare la parte], alcolista, depresso, angosciato e temporaneamente impotente. Quali le cause? Forse nel suo passato, forse nella presa di coscienza che gli fa dire a proposito del suo nuovo saggio su Heidegger: "Non riesco a scrivere, non riesco a respirare, non riesco a ricordare le ragioni per vivere. E, quando lo faccio, non sono convincenti".

 Il professore snocciola agli allievi pillole di storia della filosofia, citando Kant e poi Heidegger, Kierkegaard, Sartre. L’esempio che il docente di filosofia fa dell’imperativo categorico kantiano ricorda, mutatis mutandis, quello che Sartre fa in L’Esistenzialismo è un umanismo. Per entrambi, si rivela impraticabile perché contraddice se stesso. Che fareste – chiede il prof agli studenti – se i nazisti entrassero nello stabile dove abitate e vi chiedessero dove si nasconde Anna Frank? Sapendolo cosa rispondereste? Consegnereste Anna ai suoi aguzzini per non dover mentire e violare la morale kantiana che condanna la menzogna? E Sartre nel libro sopra richiamato [frutto di una conferenza tenuta al Club Maintenant di Parigi nel 1945] cita il caso di un suo allievo venuto a chiedergli consiglio: doveva arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione per vendicare il fratello maggiore ucciso dai nazisti e soprattutto nell’interesse del popolo francese oppresso dall’occupazione tedesca, o restare accanto alla madre, rimasta sola con il suo dolore e che aveva bisogno di lui? La morale kantiana non lo avrebbe aiutato a scegliere: sostiene di dover trattare gli altri sempre come fine e mai come mezzo. Ma scegliendo, chi dei due avrebbe trattato come mezzo? La madre o il popolo francese?

 In realtà, entrambi gli esempi offrono una lettura soltanto parziale di Kant, perché non tengono conto dell’universalità dell’imperativo categorico: nel primo caso non rivelerò il nascondiglio di Anna Frank perché mi renderei complice di assassini che hanno programmato lo sterminio degli innocenti, e nel secondo, citato da Sartre, se decidessi di restare accanto a mia madre, implicitamente sceglierei che nessuno entri a far parte della Resistenza, sulla base di motivazioni che, per quanto nobili, hanno solo valenza individuale.

 In virtù di questo e di altri esempi, il professor Abe Lucas conclude con gli studenti che “esiste una differenza tra un mondo teorico di stronzate filosofiche e la vita vera”. Battuta non nuova nei film di Woody Allen, per compiacere e far sorridere il grosso pubblico, ma che è anche l’espressione del suo amore-odio per la filosofia.

 Di Abe si innamorano ben presto  la collega Rita Richards [Parker Posev] che è in crisi con suo marito, e l’allieva Jill Pollard [Emma Stone], benché già innamorata di Roy [Jamie Blacklev], il suo ragazzo. Torna qui l’attrice protagonista di Magic in the Moonlight, in una dimensione altrettanto romantica, ma con un rovesciamento di prospettiva, esattamente come per il protagonista maschile del film dello scorso anno. Lì, un gentiluomo inglese [Colin Firth], civettando per gioco con l’irrazionale, sostiene il primato della razionalità, mentre Emma Stone, fingendo di conoscere l’alfabeto del soprannaturale, crede in realtà nella magia dell’amore come nell’unica vera forma di irrazionale.

 Qui, il professore è immerso in una razionalità che lo travolge e che ha spento in lui ogni desiderio di vivere e solo quando, per futile casualità, assume una condotta irrazionale, torna a sentirsi vivo e alla sua potenza virile. Al contrario, Emma Stone, nei panni di Jill, la studentessa innamorata, è ricondotta alla ragione quando scopre che “le puttanate” dell’esistenzialismo francese del dopoguerra, con i suoi filosofemi sulla libertà e sulla scelta, hanno precipitato il suo amante nell’abisso. Alla romantica conclusione di Magic in the Moonlight, si sostituisce qui un finale tragico che solo il ricordo di un film di Dino Risi [Il vedovo, interpretato da Alberto Sordi] rende almeno sarcastico.

 Non sono d’accordo con Davide Turrini che su Il Fatto Quotidiano del 18 Dicembre demolisce Irrational Man. Non credo si tratti di un “film inesistente” e/o di un raschiare sul “fondo di un barile drammaturgico costruito nel tempo” e neppure che le voci narranti di Jill e di Abe finiscano con l’accavallarsi. È vero, d’altra parte, che molti “ingredienti” di questo nuovo film di Woody Allen, siano ripresi dal suo repertorio, ma questo può valere quasi per ogni film del regista newyorchese.    

 C’è il tema dell’amore tra l’allieva e il professore, tra la ragazzina e l’uomo maturo, come in Mariti e Mogli [1992] o soprattutto come in Manhattan [1979]. Anche qui, come in Irrational Man, è la giovane ad innamorarsi e il professore sembra restio a lasciarsi andare sulla base di considerazioni razionali e di buon senso. C’è però una differenza di fondo: tutti ricorderanno il finale di Manhattan quando Isaac Davis [Woody Allen], l’autore televisivo di 42 anni, torna da Tracy [Mariel Hemingway], la liceale che lo amava e che lui ha abbandonato. Ora è Isaac ad accorgersi di non poter fare a meno di lei e benché ormai Tracy sia in procinto di partire per Londra, la speranza di un futuro insieme è più che una promessa. Qui, invece, non solo Abe ricambia l’amore di Jill solo grazie alla ritrovata virilità - conseguenza di una scelta irrazionale - che del resto lo porta a fare l’amore contemporaneamente con Jill e con la collega Rita Richards, ma è l’amore stesso a mutarsi ben presto in disamore. E la suspense di un finale da film giallo ripercorre la strada di altri lavori [Crimini e misfatti, Match Point, Sogni e delitti], forse con minore efficacia ma con significative varianti: manca qui ogni rimorso, l’onestà è più forte dell’amore e la ragione ha la meglio su qualsiasi forma di irrazionale, amore compreso. 

 Nessun “raschiamento del barile”, dunque, da parte di Woody Allen, ma continuità di un discorso che accende la curiosità di sapere come potrà proseguire. Lascia, invece, un po’ di amaro in bocca non ritrovare i proverbiali motti di spirito cui il grande regista ci ha da tempo abituati. L’argomento trattato, più drammatico di quello che sembri in apparenza, probabilmente ne sconsigliava l’uso. Di sicuro non è questione di senilità [gli 80 anni appena compiuti]: già in un film di circa trent’anni fa [Another Woman] mancava questo aspetto che, fuori di dubbio, ha contribuito ad alimentare la fama di Woody Allen presso il vasto pubblico.

 sergio magaldi


sabato 19 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Quarta]








 La felice apparente commistione tra pensiero sapienziale e pensiero religioso che traspare dal genio dei Greci, non deve trarci in inganno. In realtà, abbiamo già visto, a proposito di Socrate e dei sofisti, la scarsa tolleranza religiosa della società ateniese. La città antica è “totalitaria” nel senso che non distingue tra l’obbedienza che si deve alle leggi e quella dovuta agli dei. Unica eccezione fu forse Roma, tollerante e persino rispettosa del pantheon finché una religione non pretese di imporsi su tutte e addirittura di sostituirsi allo stato.

 Tuttavia la religione dei Greci non conosce né dogma né libro sacro, risolvendosi dunque in una formale adesione agli dei della città, nei sacrifici, nei riti e nelle feste, peraltro assai frequenti, che si devono celebrare per ingraziarsi la divinità e assicurare il benessere di tutti.

 Accanto a questa religione per così dire, conformista, superstiziosa e popolare, che peraltro è il tratto caratteristico ed esteriore delle religioni di ogni età, si sviluppano in Grecia, in perfetta concordia con la religione ufficiale, le cosiddette religioni misteriche che non chiedono di sostituire una divinità con l’altra, e bensì promettono agli adepti una individuale salvezza, cosa alquanto impensabile e rara nella società antica.

 Così, per esempio, l’iniziato dei piccoli come dei grandi Misteri Eleusini possiede un sapere indicibile e segreto che non deve essere rivelato ai profani. E per quanto questo sapere sia legato al culto di Demetra e di Persefone e dunque si avvalga di un pensiero sostanzialmente religioso, nondimeno occorre riconoscere che da queste due divinità, collegate al ciclo del grano e della vegetazione, si levi una sapienza antica e tradizioni più arcaiche, in parte andate perdute e in parte gelosamente custodite dalla Massoneria. A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la distinzione tra pensiero sapienziale [Massoneria] e pensiero teologico [Religione] non consiste tanto in quel che si sa, ma del modo in cui lo si sa e più ancora nella spiegazione che si dà del pretendere di saperlo…

 Più arduo ancora distinguere, almeno a prima vista, tra pensiero sapienziale e pensiero religioso all’interno di quella che si può ben definire la seconda radice della civiltà occidentale: l’ebraica. La specificità della dottrina sapienziale degli Ebrei, infatti, è di presentarsi e di svilupparsi in stretta relazione con il Dio della Rivelazione. Ma vi sono al suo interno almeno tre aspetti che possono facilitarci il compito.

 Il primo e il più importante è costituito dall’infinita ‘lontananza’ che corre tra l’uomo e Dio, sebbene il Dio del Vecchio Testamento si annunci straordinariamente talora ai sapienti d’Israele. A differenza del Dio cristiano, Egli non s’incarna, a differenza del dio pagano Egli non si trasforma assumendo ogni sembianza. Pure, questo insondabile vuoto che dimora tra l’uomo e Dio deve essere colmato. E per quanto l’ebreo viva costantemente nel pensiero e nel timore di Dio, egli sa che, per ridurre la distanza incolmabile che separa l’umano e il divino, deve contare unicamente sulle proprie forze, sperando solo che la Shekinah sia su di lui.

 In tale prospettiva, si delinea anche il secondo aspetto: l’importanza che riveste per l’ebreo l’elaborazione di una dottrina sapienziale, lo studio e l’approfondimento della Legge o Torah, il ruolo carismatico della tradizione.

 Il terzo aspetto è appunto costituito dalla Qabbalah o Tradizione nella quale confluiscono speculazioni di pensiero talora estranee se non addirittura ostili alla dottrina rabbinica, e per la quale si è persino parlato di ‘pensiero laico’ e di ‘esoterismo’ degli Ebrei.

 Insomma, contro quel che comunemente si pensa, l’ebreo è costretto a vivere ‘come se Dio non ci fosse’, pur sapendo in cuor suo che Egli c’è.

 Sotto questo riguardo, il più significativo tra i libri sapienziali del Vecchio Testamento, è certamente Qoelet. 'Tutto è vanità' vi si legge all'inizio e 'tutto è vanità' si ripete quasi alla fine del libro. Nulla di nuovo sotto il sole: una generazione va e l'altra viene, il sole sorge e tramonta sempre allo stesso modo, infinito è il numero degli stolti e i malvagi mai si correggono; inutilmente ci si applica nello studio o ad acquistar ricchezze perché dove aumentano la conoscenza e il denaro si moltiplicano le inquietudini e gli affanni. In questo deserto descritto nel I Capitolo di Qoelet, dove non c'è traccia del nome di Dio e dove tutto si ripete con regolarità sconcertante, nulla sfugge alla vanità e all'afflizione dello spirito. Il tema è ripreso con forza nei capitoli successivi e per quanto si faccia menzione di Dio, si commenta amaramente:

 "... la morte dell'uomo e delle bestie è la stessa, è uguale la condizione di ambedue: come muore l'uomo così muoiono le bestie; uguale è il soffio di vita per tutti, e l'uomo non ha nulla di più della bestia. Tutto è soggetto alla vanità." (III, 19)

 Una incolmabile lontananza dimora tra l'uomo e Dio, perché 'Dio è nel cielo e tu sei sulla terra' è detto all'inizio del V Capitolo e l'uomo, benché sapiente, non troverà nessuna spiegazione dell'operare di Dio, è detto alla fine dell'ottavo. Così, "vi sono dei giusti cui toccano i mali, come se avessero operato da empi, e vi sono degli empi, tanto tranquilli, come se avessero operato da giusti"(VIII, 14). Lo stesso concetto si ripete e si completa nel IX Capitolo(2-3):

 "Tutto è incerto nel futuro, perché tutto avviene ugualmente al giusto e all'empio, al buono e al cattivo, al puro e all'impuro (...) L'onesto e il peccatore, lo spergiuro e chi giura il vero sono trattati allo stesso modo. Questa è la cosa peggiore di quelle che avvengono sotto il sole: l'accadere a tutti le medesime cose..."

 Dunque, il tema della retribuzione, così altrimenti caro al pensiero sapienziale ebraico non preoccupa minimamente l'autore o gli autori di Qoelet. L'intento sembra essere piuttosto quello di descrivere l'infelice condizione umana, prescindendo da Dio e dai suoi imprescutabili disegni. Il legame tra l'uomo e Dio, se proprio lo si vuole rintracciare, si sostanzia unicamente nel concetto di prova alla quale Dio chiama, chiamando alla vita. Ma, diversamente che nel libro di Giobbe, dove il rapporto uomo-Dio, tra ragione e sragione, assurdo e paradosso si colora infine di senso, qui il mistero permane rigidamente sigillato e la lontananza diviene assoluta. Tant'è che l'ultimo consiglio di Qoelet sembra ispirarsi al Carpe diem di Orazio e dei filosofi greci:

 "Va' dunque e mangia allegramente il tuo pane, e bevi con allegria il tuo vino (...)
 In ogni tempo siano candide le tue vesti e non manchi l'unguento al tuo capo. Godi la vita con la moglie diletta, per tutto il tempo della tua vita fugace, per quei giorni che ti sono dati sotto il sole, per tutto il tempo della tua vanità; questa è la tua sorte nella vita e nelle tue fatiche che ti affannano sotto il sole. Tutto quello che puoi fare con i tuoi mezzi, fallo presto, perché né attività né pensiero, né sapienza, né scienza hanno luogo nella regione dei morti dove tu corri." (IX, 7 - 10).

 E non v'è dubbio che il pensiero sapienziale dei Greci aleggi qui e finanche la concezione dell'aldilà rammenti in modo ancora più radicale quella descritta da Omero nell'Odissea dove, almeno, le ombre dei morti hanno rimpianti… [Segue]

sergio magaldi


venerdì 18 dicembre 2015

martedì 15 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Terza]





 Difficile e talora persino inutile separare rigidamente nell’universo dei Greci il pensiero sapienziale da quello religioso. E non perché non esista differenza, come abbiamo visto nel confronto tra Socrate ed Eutifrone (MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Seconda], clicca sul titolo per leggere), bensì perché nella stessa tradizione confluiscono religiosità e religione, mito e simbolismo, iniziazione misterica e norme etiche e civili. Gli uomini vivono a continuo contatto con gli dei e benché questi ultimi si rivelino, per così dire, solo ai predestinati, i loro consigli, le loro leggi s’impongono a tutti, perché appartengono alle regole non scritte del coraggio, della pietà, dell’onore e della comune convivenza, al dominio della saggia prudenza. Accostarsi ai poemi omerici, alle opere di Platone e dei grandi filosofi, all’arte, alla tragedia, come del resto alla lirica o alla commedia, significa entrare nell’immenso patrimonio sapienziale dei Greci, attingere al ricco simbolismo dei miti e delle leggende. E se è vero che nella mitologia greca, di gran lunga la più illuminante nella storia della civiltà, s’intrecciano senza soluzione di continuità le vicende degli dei, degli eroi e degli uomini, resta pur vero che il pensiero mito-poietico dei Greci può tranquillamente rinunciare alla divinità senza che il significato esoterico del mito, l’insegnamento che dietro vi si cela, vada perduto.

 Così è nel mito della caverna del X Libro della Repubblica di Platone, dove i prigionieri scambiano per realtà le ombre degli oggetti che si proiettano sulla parete per l’azione di un fuoco, così è nel mito del Fedro, dove Socrate e Platone, velata appena nel simbolo, espongono la dottrina tradizionale e di carattere esoterico dell’anima umana che ricade pesantemente a terra. Così è, ancora, nel mito di Prométeo e di Epiméteo che nel Protagora di Platone il grande sofista racconta a Socrate. L’uno rappresenta l’umana saggezza, l’altro, suo fratello Epiméteo, come dice il suo nome, è colui che ha ‘il senno di poi’, l’umana stoltezza che non si fa da parte, perché non si riconosce come tale e anzi pretende di decidere e s’impone e compie gesti frettolosi e inconsulti che si risolvono in dramma.

 Non diversamente accade nel teatro greco. Il motivo ricorrente del peccato di ubris contro gli dei non deve trarci in inganno. Nelle tre tragedie della trilogia di Oreste, l’Agamennone, le Coefore, le Eumenidi, Eschilo svolge il tema della maledizione che si abbatte sulla stirpe degli Atridi: a cuor leggero Agamennone ha mosso guerra ai Troiani, per ingraziarsi gli dei egli ha compiuto l’empio sacrificio della figlia Ifigenia, lui stesso e i suoi soldati hanno sterminato i nemici senza pietà, hanno profanato e distrutto i templi degli dei troiani. Tornato finalmente in patria egli è ucciso per mano di sua moglie Clitennestra. E’ vendicato dal figlio Oreste che si macchia del peccato di matricidio, su di lui si abbatte la furia delle Erinni e neppure il dio Apollo può sottrarlo alla vendetta.

 La soluzione della vicenda è infine affidata al verdetto di un tribunale, i cui giudici, avendo tante ragioni per assolvere quanto per condannare, accettano il principio universale che l’accusato sia assolto quando gli uomini riscontrino in lui eguali ragioni per l’assoluzione e per la condanna.

Non diversamente Sofocle, nell’Antigone, risolve il problema della sepoltura di Polinice. Contro il divieto di Creonte, re di Tebe, e contro la legge scritta della città che vieta la sepoltura dei traditori, Antigone rivendica per il fratello Polinice il diritto alla sepoltura. Per quanto la donna sembri ispirata dalla pietà e dalla coscienza religiosa, ciò che decide è la norma panellenica di giustizia che impone il seppellimento anche dei cadaveri dei nemici.

 Il tema del seppellimento è ripreso da Sofocle nell’Aiace, dove l’eroe greco è punito con la follia e con la morte per il suo peccato di ubris contro gli dei. Ma è veramente così? Sono gli dei i responsabili o non è piuttosto l’uomo stesso a tessere la trama del proprio destino? Come la dea Atena dice ad Ulisse nel prologo della tragedia:

 “…Tali cose vedendo, nessuna parola orgogliosa tu non dire mai contro gli dei e non aver mai superbia, se superi qualcuno per forza di braccio e per quantità di ricchezze: ché un giorno solo innalza ed abbatte tutte le cose umane; gli dei amano gli uomini moderati ed odiano gli empi” (vv. 127-133)

 Ma la sorte di Aiace, prima che punizione divina, è frutto dell’umano isolamento che lo porta a ripudiare finanche il figlio e la moglie, è il risultato della tracotanza che gli fa affermare: “o gloriosamente vivere o gloriosamente morire è il dovere di ogni valoroso”. (vv. 479-80).

 Più inquietante è la sorte di Edipo nel notissimo dramma di Edipo Re. Qui l’eroe è innocente e pio né alcun dio ha da rimproverargli qualcosa. Ma il suo destino tragico, di chi inconsapevolmente uccide il padre e si accoppia con la madre, si spiega con la stessa maledizione della stirpe che colpisce Agamennone, lui sì, consapevole. Della maledizione sono responsabili gli dei o non è piuttosto vero che la colpa chiama colpa e il sangue chiama sangue, ricadendo anche sugli innocenti?

 Si accennava prima ad Ulisse, così diverso da Aiace eppure anche lui colpevole di ubris, nonostante gli ammonimenti della dea Atena. Vediamolo dunque all’opera, per un attimo, nel secondo dei poemi omerici: l’Odissea. Ci riuscirà così di comprendere meglio il rapporto tra gli uomini e gli dei nell’universo greco e di cogliere l’intreccio talora solo apparente del pensiero sapienziale e del pensiero religioso.

 Gli dei greci sono a casa tra gli uomini e non hanno bisogno di incarnarsi, come il Dio cristiano, per colmare l’insondabile lontananza. Non si incarnano, si trasformano e in forme sempre varie e sempre diverse sono continuamente accanto a noi anche se noi non ce ne accorgiamo. Sono lì ad ammonirci, a perderci o a salvarci, sono gli amici e i fratelli che ci consigliano, i nemici che ci tendono trappole, i familiari che si preoccupano per noi, le donne che ci amano o quelle che vogliono la nostra rovina. Ma, a guardar bene, chi decide la sorte è l’uomo stesso e poco importa che questa coincida con la moira, la ‘parte’, che gli dei hanno stabilito per lui. Violarla significa esporsi all’inevitabile contraccolpo, necessario a ricostituire l’ordine cosmico e la forza che lo mantiene in essere. Ognuno conosce il proprio dovere con o senza il messaggero alato che si rechi ad avvertirlo. Non è un caso che l’Odissea abbia inizio con la parola àndra (andra) uomo e che Ulisse – prototipo stesso dell’uomo civilizzato – sia definito polùtropon (polutropon), multiforme o dal multiforme ingegno, non è un caso che Zeus ricordi La Legge al concilio degli dei, proprio ad apertura di poema:

 “Ahimè, come i mortali dàn sempre le colpe agli dei!
Dicono che da noi provengono i mali, ma invece  sono gli uomini, con le loro azioni, ad attirarseli in spregio al destino.
Guardate Egisto: sedusse la sposa del figlio d’Atreo, violando la moira, e lo sposo sgozzò che tornava, benché conoscesse la sorte. Perché noi l’avvertimmo,a lui mandando Ermete occhio acuto, argheifonte, che non uccidesse l’eroe e neppure agognasse la donna: vendetta Oreste farebbe del padre Agamennone, quando, cresciuto, avesse nostalgia della patria.”
(Omero, Odissea, I, 32-41)

 Perché Ulisse impiegherà vent’anni, dalla fine delle guerra, a tornarsene in patria? Perché così hanno deciso gli dei, parrebbe la risposta, in un universo in cui la mente umana s’intreccia di continuo con quella divina e da questa appare costantemente guidata.

 Così non è: la sapienza dei Greci si serve liberamente degli dei e non sono gli dei a servirsi della libertà umana. Ulisse sa di dover tornare ad Itaca, ma c’è nel suo comportamento la volontà di attardarsi, quasi avesse bisogno di completare un ciclo. Ulisse è l’iniziato che si sottopone a prove sempre più ardue nel tentativo di superarle e di conoscere se stesso. In questo proposito non del tutto consapevole, egli è soccorso da alcuni dei e danneggiato da altri, ma questi dei sono innanzi tutto le sue stesse qualità: le sue virtù e i suoi difetti. Anche lui, come altri eroi greci è colpevole di ubris, ma si ravvede sempre e soprattutto egli è polìtropos e poikilométes, possiede cioè una mente e un cuore dalle molte e variegate fome che gli consente la pietà e l’immedesimazione autentica con gli altri e con le loro sofferenze.

 E quando infine raggiunge l’isola dei Feaci, Ulisse è pronto per il ritorno. L’isola appartiene al dio Posidone, il suo peggior nemico, ma chi vi governa veramente è Ermete, il dio che insieme ad Atena sembra guidare i suoi passi, il dio dal quale Ulisse discende, secondo Esiodo, per parte di Autolico il nonno materno. Non solo i Feaci prima di addormentarsi libano a Ermete ma tutto, in quest’isola – come acutamente osserva Pietro Citati – è ermetico: “il viaggio, i colori, i piaceri, il gioco, la leggerezza, la magia, la sottile comicità, i percorsi della notte, il segreto.” (P. Citati, La mente colorata, Mondadori, Milano, 2002, p.141)

 Ulisse scopre finalmente che il mondo ostile e profano può essere superato con la sapienza ermetica. E sarà proprio questo sapere, camuffato della benevolenza di Atena, a condurlo ad Itaca per affrontare l’ultima prova. E una volta qui, comprendiamo meglio il significato della protezione di Atena: Ulisse possiede la sapienza degli alberi, insegnatagli dal padre Laerte, il re-contadino. In particolare, conosce l’ulivo, la pianta sacra alla dea e sulla cui radice Ulisse ha costruito il letto nuziale che, dunque, non può essere spostato. Da questo e da numerosi episodi del finale del poema, apprendiamo così che l’eroe greco condivide con Penelope e pochi altri anche una terza sapienza: egli conosce l’arte dei segni simbolici e segreti. [segue]


sergio magaldi

domenica 13 dicembre 2015

IL NUOVO TESTAMENTO AL FEMMINILE...

Jaco Van Dormael, Dio esiste e vive a Bruxelles [LE TOUT NOUVEAU TESTAMENT], Francia, Belgio, Lussemburgo, Novembre 2015, 113 minuti


  Albert Einstein affermò una volta di non credere che Dio giocasse a dadi col mondo. Il regista belga Jaco Van Dormael nel suo ultimo film Le Tout Nouveau Testament [titolo italiano: “Dio esiste e vive a Bruxelles”] propone invece addirittura Dio come un Gran Giocatore solitario che crea e usa il mondo svogliatamente e solo per il suo passatempo, divertendosi con gli esseri umani, fatti a propria immagine e somiglianza, ma trattati come altrettanti piccoli pupazzi: scatenando guerre tra di loro e generando nel mondo ogni genere di sciagura, dispensando per ognuno poche gioie e molti dolori. Tutto il suo potere si basa sul controllo di un pc universale dove si trova scritta anche la data di morte di ciascuno, tenuta rigidamente segreta. Si tratta di un Dio [Benoît Poelvoorde] pigro, capriccioso e maschilista che impone al cosmo leggi bizzarre e venate di sadismo, come quella che la fetta di pane spalmata di marmellata cada a terra sempre dalla parte della marmellata o quella che il telefono squilli non appena ci si immerga nella vasca da bagno. Un Dio che impone la sua legge alla moglie [Yolande Moreau] e alla piccola figlia Ea [Pili Groyne], vieta loro l’accesso al Grande Archivio del destino umano e che dissente fortemente dal suo unico figlio maschio [di cui non possiede il potere di camminare sulle acque né di fare miracoli], perché al monito “ama il prossimo tuo come te stesso”, egli oppone il suo “odia il prossimo tuo come te stesso”. Naturalmente, tutto ciò è tratteggiato nel film con umorismo e ironia, tanto da fare assomigliare questo Dio a quello descritto da Roberto Benigni in E l’alluce fu:




Roberto Benigni, E l'alluce fu, Einaudi, 1996, pp.166


 “Ragazzi, se c’è uno più pigro di lui! È stato proprio la pigrizia in persona, è stato un’eternità senza far niente! Prima di fare il mondo non ha fatto niente! Ma non un giorno, un’eternità! Poi, un giorno, sdraiato, decide di fare il mondo. E il settimo giorno: riposo! Da allora non l’ha visto più nessuno! Fosse venuto a fare un ritocco! Ce ne sarebbe anche bisogno!”

 Sarà Ea, l’unica figlia femmina di Dio, a ribellarsi e a vendicarsi del padre oppressore, impadronendosi delle chiavi del suo studio e di quelle del pc universale e inviando ai viventi un sms con la notifica del tempo che resta loro da vivere. Con il risultato che l’ordine imposto dal padre e con il quale egli mantiene il suo giogo sul mondo, andrà in frantumi: gli esseri umani prenderanno finalmente coscienza della propria morte, con la conseguenza che cesseranno le guerre e il lavoro asservito e ognuno diverrà padrone del proprio tempo, decidendo come utilizzare al meglio ore, giorni, mesi o anni che restano da vivere.

 La conoscenza che ognuno ha dell’istante della propria morte [con l’ eccezione, naturalmente, di quei pochi che non dispongono di un cellulare] e che genera il caos sociale ricorda un libro di Saramago, Le intermittenze della morte. Qui è la morte stessa che dopo sette mesi di irreperibilità, in cui nessuno più muore, torna a farsi viva con lettere viola che annunciano il momento supremo. A nulla servirà scrivere alla morte per avere spiegazioni perché la morte – osserva il grande scrittore portoghese – è “una donna che non risponde alle lettere” [Si veda in proposito il post La morte è una donna che non risponde alle lettere, cliccando sul titolo per leggere].

 Per sfuggire alla collera del potente genitore, ma anche su consiglio del fratello, relegato ormai nella casa di Dio al ruolo di statuina parlante, Ea fuggirà sulla terra alla ricerca di sei nuovi apostoli perché sia scritto un “Nuovo Testamento” del tutto nuovo, in cui gli apostoli non saranno più 12 ma 18, con probabili conseguenze benefiche per l’umanità, così come gli ha annunciato il fratello. E quando Dio scenderà anche lui sulla terra per riprendersi le chiavi rubate dalla figlia, l’archivio celeste e il pc universale resteranno nelle mani della moglie di Dio che cesserà dal ruolo di sottomessa casalinga per riprendere la sua veste di Dio-donna. Allora accadrà finalmente qualcosa di nuovo…

 Un film piacevole, ancorché una sceneggiatura talora futile, ne disturbi l’idea originale.


sergio magaldi

giovedì 10 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Seconda]






 L’Eutifrone di Platone ci presenta un confronto esemplare tra pensiero sapienziale [Massoneria] e pensiero teologico [Religione]. Esaminiamo in sintesi il contenuto del dialogo.

 Eutifrone e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della polis e subito Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel vederlo lontano dal Liceo e dalle sue abituali conversazioni e più ancora manifesta la sua incredulità di fronte all’idea che Socrate possa essere l’accusatore di qualcuno. E infatti Socrate subito gli rivela di essere l’accusato, non l’accusatore. Di quale accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa nella quale incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo periodo. Socrate è cioè accusato di non credere negli dei della città-stato, di volerli sostituire nel culto con altre divinità e di insegnare queste cose ai giovani, corrompendoli. Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo non esiste tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro l’accusa di empietà si celano precisi motivi politici.

 Eutifrone, dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso l’arconte-re, il sommo magistrato ateniese, in qualità di accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo padre in giudizio e di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante della ‘legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia e santa’.

 “Ma allora, Eutifrone, – gli oppone Socrate – hai davvero la convinzione di conoscere con tanta perfezione le leggi divine? Di conoscere insomma ciò ch’è santo e pio e ciò ch’è empio?… Non hai timore di procedere contro tuo padre? Non potrebbe forse avvenire che a sua volta anche la tua fosse un’empietà?”

 Naturalmente, Eutifrone risponde subito di conoscere perfettamente le leggi divine, ciò ch’è santo e ciò che non lo è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate dichiara di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio difendersi in tribunale e subito propone al suo interlocutore di rivelargli in cosa consista l’empietà e la santità. Eutifrone risponde che è santo fare ciò che lui sta facendo, cioè denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’ di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in catene il padre Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per questione di giustizia, aveva evirato il padre Urano. La citazione consente a Socrate di tornare per un attimo sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio questo comportamento degli dei aveva generato la sua critica e dato spunto alla denuncia contro di lui.

 Ma, insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto quel che stai facendo contro tuo padre, dammi una definizione di santità che possa adattarsi per infiniti altri casi. E subito Eutifrone dichiara che è santo ciò che è caro agli dei, empio ciò che non lo è. Definizione che Socrate non tarderà a smontare: gli dei per primi si accordano forse tra di loro su ciò che è giusto e ingiusto? Noi – continua Socrate – possiamo facilmente accordarci sul peso di un certo oggetto, basterà procurarci una bilancia… ma, quando si tratta del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto non troveremo facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli dei non si comportano diversamente dagli uomini. Eutifrone ne conviene e al termine di una serie di ulteriori argomentazioni propone una nuova definizione di santità: è santo – egli dice – ciò che è gradito a tutti gli dei, empio ciò che a tutti è sgradito. Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova questione: il santo è amato dagli dei perché santo o è santo perché amato dagli dei?

 Man mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore evidenza il fine di Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in possesso della verità, ma, non potendo dire cosa santità e giustizia siano in sé, propone via via diverse definizioni, accorgendosi che nessuna di loro è la verità, e che ognuna dipende dal punto di vista di chi giudica. Così, da ultimo, ad Eutifrone non resta che rifugiarsi nella religione, troncando per ciò stesso ogni ulteriore indagine:

 “…la pietà e la santità – egli dirà – sono quella parte del giusto avente la sua esplicazione nel culto e nella cura degli dei. La parte invece rivolta agli uomini è la restante.”

 Avrà un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade, col consenso del suo stesso interlocutore – anche questa definizione e quando infine gli riuscirà e proporrà di riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone sfuggirgli con un pretesto.

 “Che peccato, amico mio! – ha appena il tempo di osservare Socrate con ironia – Avevo concepito una grande speranza; tu vai lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da te avrei appreso ciò ch’è santo e ciò che non è santo. Così, mi sarei liberato dall’accusa di Meleto, poiché gli avrei mostrato che alla scuola di Eutifrone son divenuto un sapiente di problemi religiosi…” (Platone, I Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)

 Insomma, alla presunzione di sapere della mente religiosa, Socrate oppone la sapiente temperanza di chi innanzi tutto si propone di conoscere se stesso. L’argomento si ritrova in un altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del semplice assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per mezzo di argomenti aprioristici, come sostiene la mente religiosa.

 “O Crizia – dice Socrate – ti rivolgi a me, credendo ch’io conosca gli argomenti sui quali ti rivolgo la domanda. E tu pensi che dipenda dalla mia volontà il darti l’assenso. Al contrario, la cosa non sta affatto così: io vado saggiando col tuo aiuto le varie definizioni propostemi; appunto perché comincio io stesso a non sapere. Farò dunque opportuna ricerca e poi intendo significarti se sono d’accordo o no. Aspetta dunque che finisca prima la mia indagine” (Ibid., p.222)

Pure, in questa ricerca che nulla concede al ‘sapere saputo’ si accompagna sempre un barlume di religiosità. Che si tratti del Socrate storico o dell’iniziato Platone ha poca importanza. Nulla o poco c’è dato sapere sine deo concedente, come Socrate dice a Teage nel dialogo omonimo:

 “Eccoti dunque, Teage mio caro, questa la mia scuola: qualora il mio insegnamento riesca gradito a Dio, grandi e rapidi saranno i tuoi progressi, piccoli e tardi in caso contrario…”

 Ma questo contatto tra l’umano e il divino si realizza con modalità tutt’affatto differenti da quel che avviene nel pensiero religioso. Non si tratta di sostituirsi al dio parlando per la sua bocca e spargendo ovunque il seme di una verità rivelata che dovrà essere accettata anche con la forza, il dio non si mescola con l’uomo ma può lasciar cadere in lui una scintilla di sé, una luce in grado di illuminare la sua ricerca e di guidarlo alla comprensione del Cosmo, cioè dell’Ordine imposto alla natura da un Grande Architetto.

 Del resto, Socrate – ci racconta Platone nel Simposio – è anch’esso un iniziato. Egli ha ricevuto l’iniziazione dei fedeli d’Amore da Diotima, una sacerdotessa esperta nei sacri misteri dell’eros:

 “Proverò a esporvi – dice Socrate ai convitati – il discorso su Amore che ho sentito fare una volta da una donna di Mantinea, Diotima, che era sapiente in queste e in molte altre cose (…) E’ stata appunto Diotima che m’ha iniziato alla scienza d’Amore (…) Quando parlavo con lei, io pure sostenevo, pressappoco, le stesse cose che ora diceva con me Agatone: Eros è un grande dio; Eros è amore di bellezza. E lei confutava il mio dire (…) E allora, dissi, che cosa sarebbe Eros? Un mortale?”
“Per nulla”
“Ma che cosa allora?”
“Come i casi precedenti, rispose, qualcosa di intermedio tra il mortale e l’immortale”
“Che cosa, dunque, Diotima?”
“Un gran Daimon, Socrate, perché tutto ciò che è daimonico è intermedio tra dio e mortale”
“E che potere ha?”
“Di interpretare e trasmettere agli dei ciò che viene dagli uomini e agli uomini ciò che viene dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri invece gli ordini e le ricompense per i sacrifici: essendo in mezzo a entrambi, riempie lo spazio sicché il tutto risulta in se stesso connesso. Attraverso di lui passa tutta la divinazione e la tecnica sacerdotale concernente i sacrifici, le iniziazioni, gli incantamenti e la predizione tutta e la magia. Un dio non si mescola con l’uomo, ma per mezzo di Eros ha luogo ogni rapporto e colloquio degli dei con gli uomini, sia nella veglia che nel sonno.[…] E per natura non è né immortale né mortale […] né povero né ricco. D’altronde è anche in mezzo tra sapienza e ignoranza […].
“Chi sono allora, Diotima, quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?”
“E chiaro anche ad un bambino ormai, disse, che sono quelli a metà tra questi due e che di essi fa parte anche Eros. La sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Eros è amore del bello, sicché è necessario che Eros sia filosofo e, in quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”

 E’ dunque questo fuoco interiore – che in Socrate assume le sembianze di un Daimon, di uno spirito buono, il nel linguaggio della psicologia – a gettare un ponte tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. [Segue]


sergio magaldi

venerdì 4 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Prima]





 Se è vero che la Massoneria Universale si propone come gelosa custode del patrimonio sapienziale dell’umanità, ciò non significa che massoneria e religione siano inconciliabili tra loro. Il divieto di discutere di religione [oltre che di politica] all’interno del tempio massonico ubbidisce infatti a una triplice esigenza: 1) Evitare inutili e sterili contrapposizioni. 2) Rispettare le istituzioni religiose di tutte le fedi. 3) Osservare l’ideale massonico di libera ricerca e libero pensiero.

 Ciò premesso, occorre riconoscere come le due tradizioni, la sapienziale e la religiosa siano, quanto ai contenuti, tutt’altro che irriducibili e rigidamente distinte. Permane tuttavia tra loro una sostanziale differenza che si riflette sulla struttura stessa del pensiero, determinandone atteggiamento e modalità sicuramente divergenti. E se ad entrambe queste forme di pensiero è comune la ricerca di una chiave di comprensione della realtà, una necessità logica di ordinare e unificare ciò che è sparso e diviso, il pensiero religioso sembra incline a sviluppare e ad approfondire la propria ricerca unicamente in funzione di una fede e di una verità rivelata.

 Il pensiero religioso procede per identificazioni e riconoscimenti, adeguando costantemente il proprio sapere ad una rivelazione originaria, ad una Aletheia, una e altra dal pensiero che la pone in essere. Il pensiero sapienziale, al contrario, non si preoccupa del confronto con la Cosa, non conosce, per così dire, l’angoscia dell’ adaequatio rei et intellectus, giacché il vero di cui va in cerca è suscettibile ogni volta di essere variamente interpretato in funzione della consapevolezza acquisita.

 Nei Discorsi sulla religione della fine del ‘700, il filosofo romantico Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, rivolgendosi agli spiriti colti e illuminati del suo tempo, taccia di peccato di ubris, di tracotanza e di presuntuosa inimicizia verso gli dei, chiunque pretenda di detenere un sapere e praticare un’etica senza osservare una religione. E’ la colpa antica di Prometeo che riconosciuto di vitale importanza per l’uomo il fuoco degli dei, lo ruba anziché domandarlo con la necessaria umiltà. Nel pensiero di Schleiermacher c’è una fondamentale esigenza: arte e intuizione senza che le accompagni il sentimento dell’infinito sono inadeguate ad esprimere tutta la complessa potenzialità del sapere umano. E’ questo il senso dell’appello che, proprio ad apertura di libro, egli rivolge agli uomini colti dell’epoca sua:

 “… Oggi particolarmente la vita degli uomini colti è lontana da tutto ciò che potrebbe essere sia pure semplicemente simile alla religione. Io so che voi tanto meno adorate in sacro segreto la divinità quanto più frequentate gli abbandonati templi; so che nelle vostre eleganti dimore non ci sono altri dei domestici se non i detti dei savi e i canti dei poeti; so che l’umanità e la patria, l’arte e la scienza, poiché credete di poter abbracciare interamente tutte queste cose, hanno preso sì pieno possesso del vostro animo che non vi resta nulla per l’Essere santo ed eterno, il quale, per voi, è di là dal mondo, e che non avete nessun sentimento per lui e in comune con lui. Siete riusciti a far sì ricca e sì varia la vita terrena che non sentite più alcun bisogno dell’eternità; e dopoché avete creato a voi stessi un universo, vi sentite dispensati dal pensare a colui che vi ha creato. Voi siete d’accordo, lo so, che nulla di nuovo e nulla di convincente si può più dire di questo argomento che è stato trattato abbastanza da tutti i lati, da filosofi e da profeti e, potessi soltanto non aggiungere, anche da dileggiatori e da preti. Soprattutto dai preti voi non siete minimamente disposti – ciò non può sfuggire a nessuno – ad ascoltare qualcosa su questo argomento, perché essi si sono resi, già da gran tempo indegni della vostra fiducia, in quanto dimorano più volentieri solo nelle rovine del Santuario, devastate dal tempo e dalle intemperie, e non possono vivere neanche lì senza deturparle e senza corromperle maggiormente. So tutto questo, e, tuttavia, sono spinto a parlarvi da una necessità interna ed irresistibile che mi domina divinamente…” (F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione e monologhi, trad.it., Sansoni, Firenze, 1947, pp.5-6)

 E questa “necessità interna” è certamente per Schleiermacher quel sentimento dell’infinito che in lui sembra inspirato da un dio e in cui, a suo giudizio, principalmente risiede il senso stesso della religione. Ma il sentimento dell’infinito, accompagnato o meno dalla consapevolezza di un divino ispiratore, bene appartiene al pensiero sapienziale come al pensiero religioso, entrambi infatti fanno parte della sfera del sacro come esperienza fondamentale e strutturale della mente umana. Giacché il sacro non è degli dei piuttosto che degli uomini, perché – come osserva Heidegger interprete di Hölderlin – “È piuttosto il sacro a decidere inizialmente intorno agli uomini e agli dei, se siano, chi siano e quando siano” (M. Heidegger, Erlauterungen zu Hölderlin, 1943, pp. 73-74)

 Sentimento dell’infinito, senso del sacro: non è su questo terreno che si decide propriamente la differenza tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. Il sapiente è come Socrate, egli sa di non sapere o di non sapere abbastanza e questa consapevolezza lo spinge con fede alla ricerca e al dialogo con gli altri. In questo percorso egli non disdegna di utilizzare la tradizione degli antichi, il patrimonio acquisito dell’umanità cui aggiunge la consapevolezza che gli deriva dal continuo confronto con gli altri, da quell’arte sottile che consiste nel domandare e rispondere nel tentativo improbabile di conoscere il Ti estì,  il Che cos’è di cui si parla. E se con queste procedure egli si colloca sempre di là della verità, questa nondimeno gli si offre in infiniti adombramenti ed egli prende coscienza che la Verità una e indefettibile è per principio fuori portata della mente umana e che l‘ unico vero che gli riuscirà di scoprire sarà quello che faticosamente sarà riuscito a costruire e a condividere con gli altri che, come lui, siano guidati dallo stesso intendimento e che come lui siano disposti, mutando per così dire il quadro di riferimento in cui quel ‘vero’ era nato, a riconsiderare nuovamente la questione… Ma questa, si dirà, non è altro che la verità della scienza che si trasforma col mutare del tempo, delle risorse, del metodo, delle intuizioni e in funzione delle regole dell’arte.

 C’è di più e di diverso: il pensiero sapienziale funziona alla stregua del pensiero scientifico ma se ne discosta perché il suo intento non è meramente strumentale e innovativo e il suo procedere nella ricerca di nuove verità e di nuove conoscenze non lo porta a tralasciare quanto ha già acquisito e che costituisce il patrimonio di conoscenze dell’intera umanità. Insomma, il pensiero sapienziale se non disdegna per così dire di andare avanti, non rifiuta neppure di rivisitare e di approfondire ciò che appartiene al passato, giungendo talora a considerarlo un sapere privilegiato anche rispetto alle consapevolezze della modernità e della post-modernità.

 E il pensiero religioso? La struttura che lo anima sembra piuttosto incline a un rovesciamento di prospettiva: non la fede nella ricerca ma la ricerca di una fede il cui fondamento si sostanzi di una verità rivelata. E c’è da augurarsi che in questa prospettiva si mantenga tollerante evitando guerre e persecuzioni che troppo spesso hanno caratterizzato la sua storia.

 Ma il rapporto tra queste due modalità del pensiero, così distanti tra loro eppure così convergenti, dovrà essere studiato nella concretezza storica dei loro rapporti… [segue]


sergio magaldi