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SOVRANITA’ E DEMOCRAZIA DALLA CITTA’-STATO A JEAN-JACQUES ROUSSEAU [Parte prima] clicca sul titolo per leggere.
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SOVRANITA’ E DEMOCRAZIA DALLA CITTA’-STATO A JEAN-JACQUES ROUSSEAU [Parte seconda] clicca sul titolo per leggere.
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SOVRANITA’ E DEMOCRAZIA DALLA CITTA’-STATO A JEAN-JACQUES ROUSSEAU [Parte terza] clicca
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Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della
relazione presentata al Convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento
Roosevelt e tenutosi a Roma nei
giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle
Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video
dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO: Sovranità e democrazia, dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]
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L’introduzione del vincolo di mandato
parlamentare - come si è già visto - si rivela necessaria, secondo Rousseau,
per sopperire alla mancanza di democrazia diretta, laddove questa risulti di
difficile attuazione in un grande stato; resta evidente tuttavia che egli
ritenga questa forma di democrazia come l’unica in cui la sovranità popolare,
fondata sul principio di libertà che per natura appartiene ad ogni essere
umano, possa esprimersi integralmente. Quanto alla divisione dei poteri, mentre
Pufendorf e Hobbes la ritengono inaccettabile perché metterebbe in pericolo
l’esistenza stessa dello Stato, al contrario, Locke, Montesquieu e addirittura
con più forti accentuazioni Barbeyrac e Burlamaqui, la ritengono essenziale per
evitare che lo stato liberale precipiti nell’assolutismo e nella tirannia.
Rousseau, dal canto suo, sostiene nel Contratto Sociale che la sovranità
“è semplice e una e che non si può dividerla senza distruggerla” [libro III,
cap.XIII], affermazione che ricorda quella formulata da Hobbes nel Leviatano:
“Non si può dividere la sovranità, senza dissolverla, perché quando in uno
Stato i poteri sono divisi, si
distruggono l’uno con l’altro” [XXIX]. Ancorché le affermazioni suonino simili,
profondamente diverso è lo scenario di riferimento. Tutto dipende da cosa
s’intende per volontà generale e quale meccanismo procede alla sua
formazione. Se la volontà generale è la volontà di uno Stato che trascende la
volontà e la libertà dei cittadini nel nome di un’astratta sacralità, fosse
pure quella rappresentata dalla sovranità popolare, allora non c’è dubbio che
siamo di fronte alla costituzione di uno stato etico e totalitario. Se,
viceversa, la volontà generale è l’espressione di una complessità democratica,
in cui a nessun individuo è impedito l’esercizio della sovranità, allora siamo
già proiettati nel futuro. Si comprende così tutta la differenza che passa tra
“la negazione della divisione dei poteri” di Hobbes e “la negazione della
divisione della sovranità” di Rousseau. Il fatto è che per Rousseau la
sovranità indivisibile e inalienabile risiede unicamente nel potere
legislativo, laddove i teorici dello stato liberale la attribuiscono a tutti e
tre i poteri, accentrati in solo organismo o persona secondo Hobbes, divisi in
tre distinte unità, secondo Montesquieu e gli altri. Ciò significa che Rousseau
fa rientrare dalla porta la divisione dei poteri che non è divisione di
sovranità, ma distinzione di funzioni, sostenendo esplicitamente che le
competenze legislative, amministrative e giurisdizionali vanno ripartite tra
organismi e soggetti diversi, ancorché il potere esecutivo, benché
indipendente, debba sempre essere subordinato a quello legislativo, nel senso
che quest’ultimo ha il compito di controllarlo ed eventualmente di sostituirlo,
in quanto la sovranità del potere legislativo consiste essenzialmente nel fare
le leggi e nel verificare che siano applicate. È dunque in malafede o poco
documentato chiunque sostenga che il pensiero politico di Rousseau conduca
inevitabilmente allo stato etico e totalitario, dove è il potere esecutivo che
in nome della governabilità e della sovranità statuale finisce per subordinare
gli altri due, pur mantenendoli formalmente in vita, manipolando la formazione
delle leggi e servendosi del potere giudiziario per colpire gli avversari
politici. Infine, va detto che la critica che Rousseau fa della Costituzione o
legge fondativa di uno Stato si basa analogamente sul concetto di una sovranità
popolare e universale di cui la volontà generale è depositaria. Tra il
1762 e il 1765, Rousseau si rifugia in
Val-de-Travers [attuale cantone svizzero di Neuchâtel] per sfuggire all’ordine
d’arresto delle autorità ginevrine, a seguito del mandato di cattura spiccato
dal Parlamento di Parigi dopo la pubblicazione dell’Emilio e del Contratto
Sociale, opere giudicate pericolose e date alle fiamme pubblicamente
davanti al Palazzo Comunale di Ginevra. Di qui, Rousseau scrive una serie di
lettere, poi pubblicate col titolo di Lettere scritte dalla Montagna
nelle quali – oltre a prendersela con il Gran Consiglio di Ginevra, con
l’arcivescovo di Parigi e con Voltaire, campione di tolleranza che non dice una
sola parola in difesa delle opere condannate – egli critica la Costituzione
della Repubblica di Ginevra, sostenendo che concepire una Costituzione come
inamovibile significa di fatto limitare la sovranità del potere legislativo. Lo
Stato può ben darsi una Costituzione ma deve valutare la possibilità di
cambiarla velocemente e semplicemente col mutare stesso di quella volontà
generale che è la condizione stessa della legittimità e dell’unità dello
Stato. Ciò non significa, tuttavia, che la volontà generale del momento sia
migliore di quella del passato né che tale volontà non possa sbagliare. La
questione è un’altra e si basa unicamente sul rispetto di regole imposte
dall’unico legittimo detentore della sovranità.
Resta la
questione della formazione della volontà generale. Risulta chiaro, per
Rousseau, come questa si manifesti difficilmente attraverso la democrazia
rappresentativa. Oggi, più ancora di ieri, divenuta una mera democrazia
formale. L’occidente europeo vive attualmente in una condizione in cui la
maggior parte delle decisioni degli stati dell’Unione sono prese dalla Banca
Centrale [BCE] del tutto autonoma dai parlamenti nazionali e dalla volontà dei
cittadini. Si aggiunga a ciò che il Parlamento Europeo non è neppure
l’espressione di detta volontà, avendo solo poteri consultivi e che i
rappresentanti dei parlamenti nazionali sono eletti con leggi completamente
differenti tra di loro e che, solo per restare in Italia, deputati e senatori
sono scelti dalle segreterie di partito oppure col sistema delle preferenze,
oggi invocato da più parti, nel recente passato bocciato da referendum perché
ritenuto più favorevole alla corruttela pubblica. Louis Althusser definì
l’opera di Jean-Jacques un capolavoro complicatissimo, labirintico,
apparentemente contraddittorio, lontano dal geometrismo cartesiano, tipico del
razionalismo illuministico. Ebbene, nell’apparente contraddizione tra il vagheggiamento
della polis antica, vista come mirabile connubio di esigenze individuali
e sociali, e l’impossibilità di utilizzare le forme della democrazia diretta in
un grande stato, Rousseau fornisce più di un elemento per superare l’apparente
inconciliabilità tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Non si
tratta di ricorrere alla cosiddetta democrazia partecipativa, ingannevole e
illusoria se non addirittura demagogica, né di ricercare forme ibride in cui il
cittadino e il suo rappresentante siano insieme legislatori, come avviene di
solito con il referendum, opportunamente filtrato e pilotato per
esigenze di potere. Neppure si tratta, come si direbbe oggi, di democrazia
elettronica, dove ciascun cittadino può manifestare rapidamente la propria volontà
ma con il rischio di decisioni prese per spirito di fazione o magari senza la
dovuta informazione e con scarsa riflessione, ricreando condizioni di consenso
simili a quelle tradizionali. Si tratta invece di immaginare una forma nuova di
espressione democratica in cui ogni cittadino, se davvero lo desidera, sia
messo nella condizione di decidere della cosa pubblica. Nell’Atene di Pericle,
come si è già detto, le cariche
pubbliche erano assegnate per sorteggio tra i cittadini di media cultura e
competenza, o mediante elezione assembleare per le cariche che richiedevano
specifiche competenze. Insomma, la democrazia per sopravvivere in un grande
stato deve uscire tanto dalle forme, ormai anacronistiche della
“rappresentanza”, quanto dall’equivoco “dell’uno vale uno” inteso come mera
partecipazione a decisioni che alla fine sono prese dai più informati, dai più
scaltri, da chi nel fatto controlla la comunicazione e il potere. Questa
recente forma di democrazia, infatti, ancorché possa apparire un passo avanti
nella direzione giusta, rimanda in realtà ad una oligarchia, determinata non in
base a effettive capacità di scelta, ma a logiche di potere e di carisma
mediatico. Come ricorda Socrate nel Teeteto platonico, polemizzando con il
sofista Protagora, non di tutte le cose è misura l’uomo e se, in fatto di vini,
di cibi, di salute, di ginnastica, di musica e di ogni arte, richiediamo il
parere dell’esperto, perché solo nell’arte della politica riteniamo di poterne
fare a meno?
Quando si fa dell’ironia sulla democrazia
stocastica, cioè sulla scelta mediante sorteggio dei rappresentanti del popolo
o quando se ne parla come di una tecnocrazia, perché ognuno dei cittadini
sorteggiati dovrebbe di necessità appoggiarsi ad un esperto per legiferare,
dimentichiamo più o meno volutamente che non tutti i cittadini hanno interesse
ad occuparsi della cosa pubblica, tant’è che oggi molti scelgono la politica
unicamente in funzione dei privilegi che assicura. In una ipotesi puramente
esemplificativa, avendo in mente le istituzioni della Roma delle origini e
quelle dell’Atene di Pericle e adattandole al nostro tempo, il sorteggio per la
formazione della Camera dei deputati potrebbe avvenire tra gli iscritti a liste
regionali di elettorato attivo, di cittadini e cittadine maggiorenni giudicati
idonei - per le loro conoscenze di storia, diritto, economia e amministrazione
pubblica e a prescindere dal loro titolo di studio – da specifiche commissioni
formate di docenti universitari e/o di personalità che hanno dato lustro al Paese.
Il mandato della durata di una legislatura potrebbe essere reiterato, sempre in
base al sorteggio, ma non consecutivamente, e la relativa retribuzione andrebbe
commisurata all’effettivo carico di lavoro e senza altri privilegi di natura
economica. L’elettorato passivo andrebbe mantenuto per il referendum e per
l’elezione di un Senato senza potere legislativo ma con quello di designare il
potere esecutivo, mediante la formazione di un governo espresso dal partito o
dai partiti di maggioranza, per mettere in pratica le leggi deliberate a
maggioranza relativa dalla Camera dei deputati, per proporre leggi con
procedura d’urgenza e per assicurare la rappresentanza internazionale del
Paese. Una ipotesi costituzionale, questa, che solo in malafede può apparire utopistica
e che unisce la migliore tradizione delle democrazie antiche con una concezione
nuova dell’istituzione parlamentare: con la rilevanza che avrebbe il Senato,
secondo la tradizione di Roma antica, il Popolo, alla luce della democrazia
stocastica ateniese, il Parlamento, con la reale differenziazione dei poteri
tra Camera e Senato.
sergio magaldi