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SOVRANITA’ E DEMOCRAZIA DALLA CITTA’-STATO A JEAN-JACQUES ROUSSEAU [Parte prima] clicca sul titolo per leggere
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SOVRANITA’ E DEMOCRAZIA DALLA CITTA’-STATO A JEAN-JACQUES ROUSSEAU [Parte seconda] clicca sul titolo per leggere
Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della
relazione presentata al Convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento
Roosevelt e tenutosi a Roma nei
giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle
Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video
dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO: Sovranità e democrazia, dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]
Per entro l’illuminismo, tuttavia, uno spirito si
leva su tutti, come riconobbero Kant ed Hegel. Illuminista, così da collaborare
all’Enciclopedia di Diderot [1713-1784] e D’Alembert [1717-1783] e di entrare a
pieno titolo nel dibattito sul patto sociale che d’après le rivoluzioni
inglesi, tenne impegnate le menti più fertili del secolo dei lumi, Jean-Jacques
Rousseau [1712-1778] si colloca ben oltre lo spirito del suo tempo che di rado
seppe comprenderlo e più spesso lo condannò come sovversivo, relegandolo in una
condizione di indigenza e di solitudine. Scrisse di lui il filosofo inglese David
Hume [1711-1776]:
“È simile a un uomo che si sia spogliato non
solo dei suoi vestiti, ma della sua stessa pelle e che, in quelle condizioni,
si sia buttato a combattere contro i violenti e tempestosi elementi che
perpetuamente agitano questo basso mondo”.
Nel descrivere la natura umana per quello che è: non solo
ragione ma istinto e sentimento; nell’individuare la fonte dei nuovi principi
liberali; nell’intuire il vero fondamento della sovranità popolare e le nuove
possibili forme di governo, non c’è dubbio che Rousseau fu in realtà un
autentico precursore della modernità e della post modernità. Come giustamente
osserva Hegel nelle sue lezioni berlinesi [Lezioni sulla Storia della
Filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 1964, vol.III,2, pp. 259-262], nel
porsi il problema della giustificazione dello Stato, Rousseau introduce nella storia un elemento
sino ad allora sconosciuto: il principio della libertà.
La critica fatta a Rousseau di
contrapporre alla società civile, il mito del “buon selvaggio”, in uno stato
paradisiaco di natura che non è mai esistito e che mai potrebbe esistere,
nonché di sostenere la tesi di come il progresso delle scienze e delle arti
abbia contribuito a peggiorare i costumi, in luogo di migliorarli, si basa su
una lettura superficiale del Discorso sulle scienze e sulle arti [1750]
e del Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra
gli uomini [1754], destoricizzata e per di più avulsa dal complessità della
sua opera. Il buon selvaggio non è altro che un paradosso da contrapporre
all’uomo malvagio di cui aveva parlato Hobbes per giustificare il patto sociale
e il potere, così dello Stato liberale come dello Stato assoluto. Insomma,
l’uomo primitivo e virtuoso non è altro che un’astrazione utilizzata da
Rousseau per valutare la condizione dell’uomo socializzato del suo tempo, come
riconosce lui stesso in una lettera del 1762 all’arcivescovo di Parigi,
Christophe de Beaumont: “Quest'uomo
non esiste, voi direte. E così sia; ma quest'uomo può esistere come ipotesi,
essenziale per giudicare la condizione attuale degli individui nella società”
In natura,
l’uomo non è né buono, né cattivo [Discorso sulle origini…], diverso per
costituzione fisica e mentale, egli è però uguale ad ogni altro uomo per
istinto di conservazione, per un innato sentimento di pietà verso i propri
simili e per l’esigenza di soddisfare i bisogni primordiali. Lungi dall’essere
paradisiaco, lo stato di natura si rivela dunque per l’uomo primitivo una
condizione di massima precarietà, dalla quale egli cerca di uscire,
associandosi con individui che hanno le sue stesse esigenze. Alla finzione del
“buon selvaggio”, si aggiunge ora la finzione dell’individuo isolato. Rousseau
sa benissimo che tali condizioni forse non sono mai esistite in natura, ma si serve
di entrambe per dimostrare: 1)Che la disuguaglianza tra gli uomini ha origine
dalla proprietà, quando tra individui anche solo momentaneamente associati per
sopperire ai bisogni di tutti, il più scaltro, il più abile, il più forte
cominciò a fare della proprietà comune un uso privato: “Il primo che, recintato
un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così
ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.” [Discorso
sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini,
parte II, inizio]. Con la proprietà privata, nasce anche l’usurpazione della
sovranità a vantaggio di pochi, ma ciò non significa affatto che in natura
prevalga il diritto del più forte: “Il più forte non è mai abbastanza forte per
essere sempre il padrone, finché non trasforma la sua forza in diritto e
l’obbedienza in dovere”, annota Rousseau nel Contratto Sociale [Libro I,
cap.III, inizio]. 2)Che la sovranità – nella società civile esercitata dal
monarca, dallo stato o persino dal popolo – trae la sua legittimità unicamente
dall’individuo, per il diritto che gli appartiene, in nome della libertà, di
governarsi da solo. 3)Che la proprietà, contrariamente a ciò che sostiene
Locke, non è un “diritto naturale”, bensì una acquisizione basata su una
sopraffazione originaria, a qualsiasi titolo esercitata, o comunque introdotta
e alimentata dalla divisione del lavoro. Tutto ciò non significa che bisogna
abolire la proprietà o tornare allo stato di natura, ma che occorre pensare ad
una società che sappia conciliare l’innato diritto dell’uomo alla libertà e
alla sovranità – senza la precarietà dello stato di natura – con i vantaggi della società civile, ma senza
l’egoismo, l’avidità e la corruzione che la caratterizzano. Quanto alla tesi
che rafforzerebbe, per i critici di Rousseau, il rimpianto per la cosiddetta “felice condizione” in cui l’uomo
delle origini avrebbe vissuto, prima che si affermasse il progresso delle
scienze e delle arti, è abbastanza evidente che si tratti di un altro
paradosso. Rousseau ha sotto gli occhi la società francese della metà del XVIII
secolo, con il suo regime assolutistico e corrotto, peraltro non più tenuto
insieme dal carisma del Re Sole, ma governato dall’imbelle Luigi XV [1715-1774]
che affidò il potere nelle mani del suo precettore, il cardinale de Fleury, per
una politica di sprechi, di corruttela e di privilegi ad esclusivo appannaggio
della nobiltà e del clero. In tale contesto, scienze ed arti erano come “le
ghirlande di fiori poste sulle catene” che imprigionavano il terzo stato e il
popolo minuto. Quel che sembra, ai malevoli interpreti di Rousseau, un discorso
contro il progresso, è in realtà una presa di posizione contro le
sovrastrutture che servivano ad abbellire l ’ancien régime.
Nel suo
radicalismo politico, alieno dai compromessi che a suo giudizio finiscono per
privare l’individuo della libertà e della sovranità che gli appartengono per
natura, Rousseau accomuna in una sola condanna i cosiddeti “contrattualisti”,
siano essi Grozio, Pufendorf, Hobbes, Locke, Spinoza, Barbeyrac, Burlamaqui o
gli illuministi francesi. Molti di loro non contestavano che la sovranità
appartenesse al popolo ma erano tutti convinti, sia pure con diverse sfumature,
della necessità di delegare l’esercizio della sovranità ad un organismo capace
di garantire per tutti il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà.
Questa alienazione della sovranità di ciascuno, non importa se a beneficio di
un solo uomo o di molti, di un monarca o di un’assemblea, che si giustifica
solo con la semplice promessa di assicurare la convivenza civile, rappresenta
per Rousseau l’ennesima mistificazione delle oligarchie del potere, in quanto
ratifica lo status quo delle disuguaglianze sociali e per di più
sancisce per sempre la rinuncia all’unico bene che ci fa degni di essere
uomini: la libertà. Un patto sociale è necessario, ma deve essere ripensato su
basi completamente nuove, occorre cioè – come scrive Rousseau nel Contratto
Sociale [1762] – “Una forma di associazione che difenda e protegga, con l’intera
forza comune, la persona e i beni di ogni membro, e in cui ognuno, nell’aderire
a questa associazione, obbedisca soltanto a se stesso e resti libero come
prima”.[Libro I, cap. VI]. Perché ciò sia possibile, l’individuo non può
rinunciare all’esercizio della sovranità che è insieme la manifestazione della
sua volontà e della sua dignità di uomo libero. La rinuncia, anche se fatta a
vantaggio di un’assemblea, è di per sé un atto contro natura, perché – annota
ancora Jean-Jacques Rousseau nel Contratto Sociale [libro III, cap.XV] – “La sovranità non può
essere rappresentata per la stessa ragione per cui non può essere alienata;
essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si
rappresenta; essa è la medesima o è un’altra; non c'è una via di mezzo. I
deputati del popolo, dunque, non sono né possono essere i suoi rappresentanti;
essi non sono che i suoi commissari e non possono concludere nulla in via
definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è
nulla; non è una legge. Il popolo inglese si crede libero, ma si sbaglia di
molto; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena
questi sono eletti, esso è schiavo, è nulla. Nei brevi momenti della sua
libertà, l'uso che ne fa merita invero che la perda. L'idea dei rappresentanti è moderna; proviene a noi dal
governo feudale, da quell'iniquo e assurdo governo nel quale la specie umana
viene degradata e il nome stesso di uomo era un disonore. Nelle antiche
repubbliche e persino nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresentanti:
la parola stessa era ignorata […] a Roma, dove pure i tribuni erano sacri, non
si è neppure immaginato che essi potessero usurpare le funzioni del popolo […].
Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva fare, lo faceva da sé e si
adunava di continuo sulla piazza, in pubblica assemblea”.
Rousseau non
ha mai ignorato le obiezioni – non si sa se più ironiche o più spaventate – dei
suoi contemporanei, circa la possibilità di rendere effettivo l’esercizio della
democrazia diretta in un grande stato e non più soltanto in una città-stato
dell’antichità dove, peraltro, le donne e gli schiavi non godevano dei diritti
politici. Nelle Considerazioni sul governo della Polonia del 1772, egli
dichiara esplicitamente che in un grande stato “il potere legislativo non può
essere esercitato che mediante i deputati del popolo” [cap.VII], alla
condizione tuttavia che questi siano cambiati di frequente e che siano
unicamente i portavoce di decisioni prese altrove dal popolo e con la massima
precisione, al fine di evitare, egli dice, “il male terribile della
corruzione”.
A tale proposito, l'introduzione del vincolo di mandato per i rappresentanti del
popolo era considerata sovversiva in una realtà storica, come la Francia
prerivoluzionaria della metà del XVIII, dove non esistevano ancora i principi
del liberalismo classico, in base ai quali il deputato, promosso al rango di
“onorevole”, diventa un rappresentante privilegiato della nazione, absolutus,
sciolto cioè da ogni riferimento alla volontà politica dei suoi elettori. Così,
analogamente, la proposta di introdurre nella Costituzione italiana il vincolo
di mandato, per scongiurare il tradizionale trasformismo delle istituzioni
parlamentari, viene respinta con le stesse motivazioni di allora e in più con
l’argomentazione che il vincolo di mandato, di matrice marxista-leninista, era
presente nelle costituzioni sovietiche e in quelle delle cosiddette democrazie
popolari dell’est europeo, dove un regime poliziesco controllava il potere,
privando i cittadini di qualsiasi forma di libertà. Non a caso gli argomenti
utilizzati ancora oggi contro il pensiero politico di Rousseau riguardano non
solo il vincolo di mandato per i parlamentari e l’istituzione della democrazia
diretta – ritenuta utopistica e/o improponibile e di cui Rousseau è considerato
l’antesignano – ma anche e soprattutto la mancata distinzione dei poteri
all’interno dello stato, in nome di una sovranità popolare rappresentata da
quella volontà generale che sarebbe alla base dello stato etico e
totalitario. Si rimprovera infine a Rousseau la critica che egli fa della
Costituzione o legge fondativa di uno Stato.
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