SEGUE DA: Sovranità e democrazia dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau [Parte prima]. CLICCA SUL TITOLO PER LEGGERE
Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della relazione
presentata al Convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento
Roosevelt e tenutosi a Roma nei giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile,
presso la Casa Internazionale delle Donne. Preciso che detto testo differisce
nel contenuto dal video dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO: sovranità e democrazia, dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau] che si limita a illustrarlo sinteticamente. Aggiungo che la relazione
integrale farà parte degli Atti del Convegno che saranno pubblicati a cura del
Movimento Roosevelt.
Il concetto
di sovranità popolare, sia pure nei limiti sin qui ricordati e in associazione
con le varie forme della democrazia, scompare del tutto col passare dei secoli
e con l’affermarsi dei regni e dei
grandi imperi, e in Occidente, con
l’avvento del Cristianesimo, la sovranità diventa appannaggio del re o
dell’imperatore che la riceve direttamente da Dio, secondo la massima paolina
che “Non est potestas nisi a Deo”. Solo con la “riscoperta” degli
antichi, si torna a parlare di un pensiero politico autonomo e dunque in grado
di riprendere legittimamente il discorso sulla natura del potere e
sull’esercizio della sovranità. Con Niccolò Machiavelli [1469-1527] nasce la
cosiddetta scienza della politica e
tutto il Rinascimento riflette sui Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e
soprattutto sul Principe, la cui attualità perdurò nei secoli
successivi, come nelle analisi di Antonio Gramsci: “Il carattere fondamentale del Principe – egli scrive –
è quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro
“vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella
forma drammatica del “mito”. Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in
cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla
sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e
razionale s’impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e
“antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva” […] Il moderno
principe, il mito principe, non può essere una persona reale, un individuo
concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel
quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e
affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo
sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si
riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e
totali” [A. Gramsci, Quaderni del carcere, note sul Machiavelli,
Einaudi, Torino, 1966, pp. 3 e 5].
Il XVI
secolo vede anche il fiorire di tutta una schiera di pensatori cosiddetti
monarcomachi per la loro opposizione all’assolutismo monarchico di ispirazione
divina e la rivendicazione del diritto del popolo a ribellarsi; neppure è
assente l’utopia politica, come negli scritti dell’inglese Tommaso Moro
[1478-1535] o, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, in quelli di Tommaso
Campanella [1568-1639]. Ma è nel XVII secolo, soprattutto in Inghilterra, che
divampa il
dibattito sulla natura del potere, sul diritto naturale e sul contratto
sociale. Si delineano quattro scuole di pensiero. Si va da Robert Filmer
[1588-1653], che continua a sostenere l’origine divina del potere del Sovrano,
a John Warr che rivendica la sovranità popolare in nome di Dio, in virtù
della scintilla divina presente in ogni uomo. La tesi contrattualistica
del potere è invece sostenuta da Thomas Hobbes [1588-1679] e da John Locke
[1632-1704] ma con differenti implicazioni. Per Hobbes, lo stato di natura è
caratterizzato dall’espressione utilizzata dal commediografo Plauto [255-184 a .C.] in età classica, e
cioè che “ogni uomo è lupo all’altro uomo” [homo homini lupus], con il
risultato che il potere si accentra nelle mani del più forte, perché in natura
non esiste un diritto fondato sulla ragione, ma solo un costume gestito dalla
forza. Per uscire da questa condizione di guerra incessante degli uni contro
gli altri, gli uomini accettano di divenire parte integrante di uno Stato che
d’ora in avanti godrà di un potere illimitato e irreversibile, fatti salvi i
casi di follia del sovrano o di attentato alla proprietà dei singoli. Locke,
dal canto suo, ritiene che non necessariamente nello stato di natura gli uomini
si combattano tra di loro, in quanto la ragione li fa consapevoli di possedere il
diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Si assoceranno, dunque,
ma solo al fine di evitare l’anarchia e di creare uno Stato per la tutela di
tali diritti, e il cui potere [avendo ben cura di separare il potere
legislativo da quello esecutivo] potrà sempre essere rimesso in discussione
allorché venga meno il fine stesso della costituita comunità politica. Dalle
teorie si passa all’azione con la prima rivoluzione inglese che alla metà del
XVII secolo impone Il Patto del libero popolo inglese [1647-1649], dove
in nome della sovranità popolare, per la prima volta vengono addirittura
messi in discussione i principi della democrazia rappresentativa. Si
legge tra l’altro nel Patto:
“È chiaro il motivo per cui noi vogliamo
istituire un patto col popolo e dichiarare quali siano i nostri diritti naturali,
piuttosto che chiedere al Parlamento di sancirli: nessun atto del Parlamento è,
o può essere, immodificabile, per cui non esclude con garanzia sufficiente -
per la vostra e la nostra sicurezza - la possibilità che un altro Parlamento si
lasci corrompere e decida in senso contrario. Inoltre, il Parlamento deriva
potere e rappresentatività da coloro che glieli trasmettono. Il popolo deve
quindi specificare in che cosa consiste tale potere e tale rappresentatività,
ed è appunto questo che si prefigge il nostro patto”.
Tuttavia,
con l’ascesa al potere del Cromwell e la proclamazione della Repubblica [Commonwealth]
e successivamente con la restaurazione degli Stuart, i diritti umani sanciti
dal Patto del Libero Popolo Inglese furono vanificati e neppure con la
seconda rivoluzione e l’incoronazione di Guglielmo d’Orange tornarono in auge.
Nel 1689 fu però riconosciuto dal nuovo sovrano il Bill of Rights che
dettava regole per la successione al trono e che, pur parlando di sudditi e non
più di cittadini, riconosceva al Parlamento libertà di parola e di stampa. In
particolare, il Bill of Rights si compone di 13 articoli che hanno il fine di
stabilire cosa debba ritenersi illegale e quali incontestabili diritti debbano
essere garantiti alle Camere dei Lords e dei Comuni, in quanto organi di
espressione della sovranità popolare.
Tra il XVII
e il XVIII secolo, il pensiero politico inglese che era stato alla base delle
due rivoluzioni britanniche si andò diffondendo in Francia, innestandosi sul
ceppo del libertinismo, già presente nel tardo medioevo, ma sviluppatosi come
movimento culturale sulla scia del Rinascimento, e che rivendicava, ma solo ad
opera ed esclusivo diletto di un’aristocrazia intellettuale, una critica
radicale della società esistente. Così, in luogo dei discorsi sulla tolleranza
religiosa di Locke e dei pensatori inglesi, abbiamo il Teofrastus redivivus,
opera anonima della metà del Seicento in cui si professa apertamente l’ateismo:
le uniche divinità esistenti, se così si possono chiamare, sono il sole e le
stelle che regolano la vita e il destino sulla terra. Il Dio dei teologi è pura
astrazione, quello del popolo nasce solo dal timore della morte. I libertini o
liberi pensatori [Pierre Gassendi, Molière, Michel de Montaigne, Gabriel Naudé,
Elie Diodati, Cyrano de Bergerac, Bernard le Bovier de Fontenelle, Pierre Bayle
etc…] furono in realtà rivoluzionari da salotto, spesso eruditi ma conformisti
al punto di ritenere che le istituzioni e i costumi verso i quali rivolgevano i
loro strali e il loro sarcasmo, fossero in realtà necessari per il mantenimento
dell’ordine costituito, ma è altrettanto vero che in alcuni di loro
fruttificasse la “lezione” inglese sino al punto di favorire l’avvento del
pensiero illuministico che rovesciava addirittura il punto di vista dei
libertini: la verità, frutto del connubio di pensiero e conoscenza, deve
diventare appannaggio di tutti gli uomini, in quanto esseri dotati di ragione.
Il contributo che il libertinismo apportò al secolo dei lumi è riconosciuto
dallo stesso Diderot [“Abbiamo avuto dei contemporanei sotto il regno di Lugi
XIV”]. E, del resto, il pensiero libertino più tardo, con autori come Gabriel
de Foigny e Claude Gilbert, si avvicina all’illuminismo nella critica
dell’ateismo dei liberi pensatori, giudicato incapace di vedere come l’esserci
stesso del mondo rimandi all’esistenza di un Grande Architetto dell’Universo.
Celebre la
definizione che Kant dà dell’illumimismo nel 1784: “L'illuminismo - annota Kant - è l'uscita dell'uomo da uno
stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità
di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di
intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del
proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il
coraggio di servirti della tua propria intelligenza - è dunque il motto
dell'illuminismo. Se in ambito filosofico, il pensiero illuministico rappresenta
la critica del razionalismo di Cartesio [1596-1650] alla luce dell’empirismo
anglosassone, in ambito storico-politico il secolo dei lumi si configura come
la critica della tradizione alla luce della libertà umana e dell’idea di
progresso. E, se per Voltaire [1694-1778] la storia non è altro che la lotta
incessante dello spirito umano per affrancarsi dai pregiudizi, per Montesquieu
[1689-1748] la storia va letta secondo un ordine che si manifesta in base a leggi che
riflettono la natura intrinseca dei fatti, così per esempio, egli dice:
“Occorre che per disposizione stessa delle cose il potere arresti il potere”[Esprit
de lois,1748, XI,4]; occorre cioè che in uno stato si realizzi la divisione
tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Gli fa eco il ginevrino di
famiglia calvinista Jean-Jacques Burlamaqui [discendende del ricco mercante
lucchese Francesco Burlamacchi, gonfaloniere delle Repubblica di Lucca nel
1533] che, nei Principi di diritto politico del 1751, manifesta il
timore [II Parte, cap.1, prg 19] che la concentrazione di tutti i diritti della
sovranità nelle stesse mani conduca inevitabilmente alla tirannia e che per
garantire la libertà dei cittadini occorre affidare – egli scrive –
“l’esercizio delle differenti parti del potere sovrano a differenti soggetti od
organismi che potranno agire gli uni indipendentemente dagli altri”. Per la
verità, una teoria dello stato liberale, basato sulla divisione dei poteri, era
stata già formulata da John Locke nei Due trattati sul governo del 1690,
anche se il filosofo inglese aveva attribuito il potere legislativo al
Parlamento, il potere esecutivo [che comprendeva anche il potere giudiziario] e
il potere federativo al monarca. In Francia, prima ancora che da Montesquieu e
da Burlamaqui, la necessità della divisione del potere era stata affermata dal
giurista di Linguadoca, Jean Barbeyrac [1674-1744] discepolo di Locke. [SEGUE]
sergio
magaldi
Occorre por mano a considerare quali siano i reali detentori del potere oggi, rispetto a quelli che effettivamente servono e dai quali occorre ottenere debite certezze sulla trasparenza del loro operato in un ottica di lungo termine.
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