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da Einaudi, esce nell’edizione italiana l’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, il
grande scrittore turco, già Nobel per la letteratura. “La donna dai capelli rossi”, questo il titolo del libro, narra la
vicenda di Cem – studente, libraio, guardiano di orti, apprendista cavapozzi,
ingegnere geologico e infine ricco imprenditore – tra gli anni Ottanta
dell’ultimo secolo e il primo decennio del nuovo, nello scenario di una Turchia
che ha vinto la sfida dello sviluppo economico, ma che resta perennemente
divisa tra l’anima europea e lo spirito profondamente radicato nella tradizione
e nella cultura mediorientale. Non si tratta, tuttavia, di ripercorrere lo
sviluppo di Öngören, da piccolo villaggio popolato di cavapozzi o cercatori
d’acqua, a periferia di Istambul; né di intrattenere i lettori su una storia
d’amore, come il titolo del romanzo farebbe supporre. Pamuk, con la consueta efficacia
narrativa, affronta piuttosto il tema dell’eterno conflitto tra padre e figlio.
E lo fa alla luce di due tradizioni: quella greca e occidentale rappresentata
dall’Edipo re di Sofocle e quella
persiana e orientale tratta dal Libro dei
re di Firdusi [935-1020]. Due modalità opposte di risolvere tragicamente il
medesimo conflitto.
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Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi, Einaudi, Torino, 2017 |
Ancora adolescente, Cem è abbandonato dal
padre, arrestato dalla polizia per la sua militanza comunista. Una volta
liberato, suo padre finisce col disinteressarsi del figlio e della famiglia.
Costretto a guadagnare qualcosa per aiutare sua madre, Cem, ormai
diciassettenne, accetta di seguire come apprendista mastro Mahmut Usta, che si
reca a Öngören per scavare un pozzo e trovare
l’acqua. Qui il ragazzo vede per la prima volta la donna dai capelli rossi,
un’attrice del teatro itinerante delle
leggende educative, molto più grande di lui, e se ne innamora. In una calda
notte di luglio del 1986 per la prima e unica volta Cem fa l’amore con lei. È a
questo punto che s’incrociano le due antiche leggende: quella di Edipo e di
Laio, che Cem aveva letto in un compendio di un anno prima, restandone
affascinato, e che racconterà a Mahmut, e quella di Rostam e di Sohrab che egli
vede rappresentata a teatro dagli attori della compagnia della donna dai
capelli rossi.
Tra Cem e mastro Mahmut Usta si instaura ben
presto un rapporto che va ben oltre quello di apprendista e maestro. Talora è
Cem a paragonarlo a suo padre:
“Quel
giorno mi alzai per controllare la cena sul fuoco e vidi che Mahmut Usta si era
addormentato, sdraiato per terra; allora osservai con attenzione quella
creatura distesa al suolo e, come facevo da piccolo con mio padre, ne esaminai
le lunghe braccia e gambe, immaginando che lui fosse un gigante e io un
lillipuziano, come nel mondo di Gulliver” [p.34, ed. mondo libri]. Altre
volte è Mahmut a vagheggiarlo come figlio: “il
mio mastro era mio padre, – replicava con tono didattico – Se sarai un bravo
apprendista, diventerai come un figlio per me”[p.43]. Ecco delinearsi due diverse prospettive che da sempre
alimentano il contrasto padre-figlio: da una parte il figlio vede nel padre
colui che lo proteggerà, senza limitarne la libertà di azione, dall’altra il
padre vede nel figlio colui che dovrà ascoltarlo ed ubbidirgli, senza mai
ribellarsi. Libertà e autorità si scontrano, non diversamente da come avviene
nella dialettica di servo e padrone, descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito.
Nel proseguire la narrazione, Pamuk sembra
implicitamente domandarsi se Edipo, che uccide inconsapevolmente il padre Laio,
e Rostam che altrettanto inconsapevolmente uccide il figlio Sohrab, siano
innocenti perché “non sanno” oppure se la loro colpevolezza prescinda dalla
loro coscienza. Insomma siamo o no responsabili del nostro inconscio? Com’è
noto, Edipo uccide Laio, re di Tebe, in combattimento, senza sapere che è suo
padre e, divenuto nuovo re di Tebe, sposa altrettanto inconsapevolmente sua
madre Giocasta, da lei generando figli. La collera divina che sottoforma di
peste si abbatte sulla città rende infine Edipo tragicamente consapevole del
parricidio e dell’incesto. Nella leggenda iraniana, Rostam, eroe persiano,
giunge alla città di Semengan per ritrovare il destriero che gli è stato
rubato. Il re gli offre il proprio sostegno per ritrovare il cavallo e gli
offre ospitalità. Durante il soggiorno a corte, Rostam s’innamora di Tehmineh,
l’unica figlia del re, e la sposa. Costretto a ripartire per la guerra, Rostam
dona a Tehmineh un prezioso e originale bracciale di onice, facendosi
promettere che, se durante la sua assenza, le nascerà un figlio, questi
indosserà il bracciale, senza più levarselo, perché lui possa riconoscerlo in
qualsiasi momento. Sohrab, il figlio di Rostam e Tehmineh, benché sia ancora
adolescente, si mostra un valoroso guerriero e, attirato in un tranello dai
nemici suoi e di suo padre, sfida inconsapevolmente Rostam. Il combattimento
tra i due si protrae a lungo e Sohrab si mostra generoso col suo avversario e
gli offre ancora un’opportunità, proprio quando ha la possibilità di
impartirgli il colpo mortale. Non altrettanto generoso si dimostra Rostam
quando, ripreso il combattimento, sarà lui ad avere a disposizione il colpo
risolutivo. Prima di morire Sohrab grida al suo avversario che suo padre Rostam
giungerà a vendicarlo. Rostam impallidisce e subito dopo si dispera quando vede
il gioiello di onice, che aveva regalato alla sposa, al braccio del figlio.
Naturalmente, Pamuk si guarda bene dal
rispondere al tacito interrogativo circa le responsabilità di Edipo e di Rostam,
preferendo piuttosto soffermarsi sul contrasto tra le due tradizioni: ad
Occidente a vincere è il figlio, il nuovo che avanza, ma sbarazzarsi del
proprio passato significa essere incapaci di vedere il proprio futuro, equivale
cioè ad accecarsi, proprio come capita a Edipo, sconvolto dal rimorso per aver
ucciso il padre. Ad Oriente a vincere è il padre che, come un despota
orientale, impedisce al nuovo di affermarsi, e al tempo stesso si condanna alla
ripetizione e alla solitudine, proprio come Rostam, trasformatosi
volontariamente in eremita dopo l’uccisione del figlio.
Nel narrare le vicende di Cem, Orhan Pamuk
utilizza entrambe le leggende, ma ad ognuna toglie o aggiunge qualcosa, finendo
poi per scegliere, da cittadino turco che guarda verso Occidente, il figlio
[Edipo] rispetto al padre [Rostam]. La colpa di Cem consiste nel ripetere la
colpa di suo padre, con l’abbandono al proprio destino di colui che, in quel
frangente della sua vita, ai suoi occhi è il sostituto del padre naturale.
Tuttavia, a differenza di Edipo, egli è ben consapevole delle responsabilità
della sua scelta. L’elemento inconscio gioca invece a suo favore laddove, entra
in scena il femminile, ma qui non c’è incesto vero e proprio, bensì soltanto
una ulteriore identificazione inconsapevole con il padre reale e una
altrettanto inconsapevole “appropriazione” di ciò che al padre è appartenuto.
In conclusione, nel romanzo, il mito del V sec.
av. Cristo si coniuga con quello più recente della tradizione orientale – dove
è assente peraltro la componente sessuale e incestuosa – secondo un’interpretazione
vicina a quella che Fromm dette del cosiddetto complesso edipico, con in più
l’ammissione implicita da parte di Pamuk che del guardiano della soglia
[l’inconscio] siamo pur sempre responsabili noi stessi. Com’è noto, le tre
maggiori, possibili interpretazioni del mito riguardano: 1) La supremazia del
destino in tutte le vicende umane. 2) L’interpretazione freudiana circa il
desiderio incestuoso verso il genitore dell’altro sesso che porta il soggetto ad
identificarsi col genitore del suo stesso sesso e a volersene inconsciamente liberare.
3) La tesi del conflitto generazionale, che spinge il figlio a ribellarsi al
padre che, ai suoi occhi, rappresenta la società che lo priva di ogni forma di
potere. In proposito, in “Il linguaggio
dimenticato”, Erich Fromm si domanda: “È giustificata la conclusione di
Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi
incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in
tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di
Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino
questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull’esattezza di
tale teoria. La domanda più logica è questa: se l’interpretazione freudiana
fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza
sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre
inconsapevolmente. Ma nel mito […] l’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso
comporta la successione al trono […]. Ma siamo almeno in grado di formulare una
ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell’amore
incestuoso tra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l’autorità
del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio tra Edipo e Giocasta è
soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del
figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi. La
validità di questa ipotesi può essere verificata coll’esame del mito di Edipo
nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre
due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone”.
sergio
magaldi