martedì 21 dicembre 2010

Androgino ermetico







Nella letteratura ermetica non c'è forse equivoco maggiore di quello generato dalla figura dell'androgino. La fonte, comune ad altre tradizioni, è nei due noti versetti del Genesi biblico, in cui è detto che Dio creò l'uomo a propria immagine e somiglianza (Genesi, 1:26) e che lo creò maschio e femmina (Genesi, 1:27). Da allora non si è smesso quasi di assegnare a Dio entrambi i sessi, [1] dimenticando, per esempio, che, nella concezione ermetica, Dio è privo di forma e tralasciando di indagare la natura reale del frutto della divina creazione. Potremmo altrimenti scoprire che l'Adam Qadmon non è in alcun modo da confondersi con un ipotetico uomo cosmico di natura bisessuale e neppure con la sua larvata presenza asessuata e tuttavia spiritualmente comprensiva tanto del principio femminile che di quello maschile.

E pare proprio che le due interpretazioni si dividano il campo, l'una inferendo che l'androgino Adamo è il riflesso di Dio, l'altra osservando che l'androginia di Adamo è soltanto spirituale perché l'uomo fu creato a immagine e somiglianza di Dio ma solo per l'anima.

Così, chi attribuisce fisicità e umanità all'Adam Qadmon non sfugge alla necessità di dover attribuire a Dio forma e bisessualità, chi, al contrario, opta per lo spirito perde, per così dire, il bandolo della matassa perché concepisce Adamo, prima ancora del peccato che lo escluderà dalla condizione edenica e immortale, come un essere metà spirito, per ciò che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e metà carne, per ciò che, fisicamente, egli è fatto di terra (Adamah). Ma, se è fatto di terra, Adamo, nascendo, è già condannato al male e alla morte, a meno che...a meno che il compito affidatogli non sia proprio quella di trasformare la propria terra corruttibile in metallo incorruttibile. Ma, chiamato alla prova, Adamo fallisce e, in luogo dell'oro, mostra intatta la zavorra con cui è stato formato dal suo creatore.

E’ interessante osservare come il cabbalista medievale Joseph Gikatila attribuisca la 'caduta' di Adamo al suo non aver saputo attendere che il frutto dell'albero fosse maturo, prima di cibarsene. Fu dunque l'impazienza a perdere il genere umano precipitandolo nel regno della vita e della morte. Il frutto dell'albero della vita si mutò così nel frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male.
Scrive Gikatila in Cha 'aré Orah (Le Porte della Luce):

" Il serpente primordiale...inflisse un danno alla luna (la sephirah Malkhout) per via del primo uomo, il quale...non attese che (il serpente) mangiasse la propria parte...nel qual caso l'albero sarebbe stato chiamato del bene e non del male e lui avrebbe potuto mangiarne tanto quanto ne desiderasse: ne avrebbe mangiato e avrebbe vissuto per sempre (Genesi, 3:22), secondo il segreto dell'albero della vita collegato a quello della conoscenza..." (f. 105a).

La luna, che nel linguaggio cabbalistico rappresenta anche la terra, nell'accezione ermetica simboleggia la materia prima. Il serpente, simbolo ctonio per eccellenza, bene traduce la forma di Adamo fatta di terra, non già le sembianze di Dio, privo di forma ma spesso idolatrato come Grande Androgino.

Tutto ciò dimostra che non c'è che un albero e che la terra si sarebbe trasformata se Adamo avesse saputo attendere. I denti non gli si sarebbero legati se egli non si fosse cibato del frutto ancora acerbo. Solo mangiando del frutto maturo, segno dell'avvenuta trasformazione, Adamo avrebbe guadagnato l'immortalità.

D'altra parte, la prova cui Adamo dovette sottostare non fu capriccio divino. Dio, infatti, non avrebbe potuto concepirlo del tutto identico a sé, creando un altro se stesso, ma solo a propria immagine e somiglianza, così come fece, mediante il suo spirito e dandogli forma col fango della terra (Genesi, 2:7). La presunzione e l'impazienza persero Adamo. La prima, nel fargli credere di essere in tutto e per tutto simile a Dio (mentre Dio non ha forma), la seconda nel ritenere che, in breve tempo, anche il suo potere sarebbe stato identico a quello di Dio.
Scrive ancora Gikatila in Sod ha - Nahach (Il Segreto del Serpente):

"... E' per questo motivo che Dio comanda al primo uomo di non toccare l'albero della conoscenza, fin quando il bene e il male fossero stati associati, sebbene l'uno fosse all'interno e l'altro all'esterno. Occorreva attendere che ne fosse staccato il prepuzio, com'è detto: tratterete i loro frutti come prepuzio (Levitico,19:23), ora è scritto: prese del suo frutto e ne mangiò (Genesi,3:6). Introdusse un idolo nel Palazzo (T.B. Ta'anit 28b) e l'impurità penetrò all'interno." (f. 276a-b).

Il prepuzio è la scorza dura, assimilabile alla terra (Adamah) di cui è fatto Adamo. Solo quando la scorza fosse caduta, il frutto, ormai maturo, avrebbe potuto essere mangiato e la terra di Adamo si sarebbe mutata nell'oro dello spirito.
Il 'sogno divino' di mutare la terra in oro è votato allo scacco? Il Golem ha fallito la prova? Peggio per lui! Che ci riprovi da solo, ma fuori dell'Eden e in condizioni difficili. Saranno proprio le difficoltà ad acuire il suo ingegno e forse un giorno gli riuscirà finalmente di rendere al creatore la terra ricevuta... trasformata in oro.

L'idea di un Grande Androgino primordiale si spiega con l'esigenza di coniugare insieme la capacità di generare (principio femminile) e il principio maschile o fecondatore e benché la Bibbia si sforzi di dimostrare che Dio creò tutto con la parola, quando egli pronuncia per l'ottava volta le parole creative (i dieci 'Dio disse' del primo capitolo del Genesi) non può fare a meno di rivelare la sua natura - di cui l'uomo partecipa in immagine e somiglianza - di maschio e di femmina allo stesso tempo.

La medesima esigenza conduce numerose altre tradizioni ad assumere una concezione per lo più identica, [2] anche se la tradizione egizia e la maggior parte delle tradizioni orientali, eliminando il ruolo determinante della vagina e dell'utero fanno nascere tutto da un gesto solitario del Dio primordiale.
Ciò non esclude, d'altra parte, la presenza nel pantheon egizio di divinità androgine. Una è Hapi, dio del Nilo, le cui acque celano il fuoco fecondatore, raffigurato come un uomo pingue e dotato di mammelle; l'altra è Mut, grande madre, dotata insieme di organi sessuali maschili e femminili, rappresentazione della natura naturans e per molti versi assimilabile, nella mitologia greca, alla dea Cibele. [3] Le due divinità, tuttavia, rinviano ad un primordiale dio solare che, mediante masturbazione o semplicemente sputando, crea la prima coppia dell'Enneade, alla quale appartengono, tra l'altro, Nut e Geb, cielo e terra, Osiride e Iside, sole e luna.

Tutta la questione non è di poco conto se si considera l'imbarazzo e lo scandalo che da sempre ha suscitato nella maggior parte delle coscienze l'idea di un Dio attivo e insieme passivo, di un uomo che, riflettendo l'immagine del proprio creatore, sia ad un tempo capace di fecondare e di generare. Poiché, d'altra parte, la realtà mostra che il maschio è solo capace di fecondare, riservando semmai ogni atto generativo alle opere della mente, fu di necessità provvedere alla separazione dei sessi.

Il Genesi risolve il problema con altri due versetti. Nel primo (Genesi, 2:21) affermando che ' ...il Signore Dio mandò ad Adamo un profondo sonno ' e che 'mentre era addormentato, prese da lui una costola che sostituì con carne'; nel secondo (Genesi, 2:22) proclamando infine la costruzione (non la creazione!) della donna e presentandola al sonnolento e intorpidito Adamo.

A tale semplice e lineare conclusione, comunemente accettata, fa spesso riscontro, nella tradizione occidentale, la visione più complessa e fantastica introdotta dal Simposio platonico. E per quanto anche qui si parli di un dio (Zeus) separatore, diversi sono i presupposti: l'androgino che subisce la separazione non è già più l'immagine speculare di un Dio, perché Zeus è un dio maschio e per quanto egli si unisca occasionalmente anche con giovani del suo stesso sesso, egli non dispone di organi sessuali femminili, ma piuttosto dà sfogo alle proprie passioni indotte, se non addirittura protette dal costume, dove i vizi degli uomini sono identici a quelli degli dei.

Così, l'androgino descritto da Platone, rinvia, per le sue fonti, ad una realtà ben più arcaica e primordiale, quando Zeus non era e i sessi si manifestavano congiunti nell'indistinzione caotica della natura naturans. Insomma, ancora il mito di Cibele e di Agdistis cui si accennava sopra.

Ignorando il problema di un dio fecondatore e insieme capace di generare, problema che certo non compete a Zeus, dio relativamente giovane del politeismo greco, Platone immagina tre sessi originari: il maschio, la femmina e l'androgino. Distinzione questa che ripropone inconsciamente il rapporto tra una divinità primordiale, antropomorfa e totalizzante e la bisessualità della natura umana quale si manifesta con la polarità maschio - femmina. Ciò che nel Simposio, Aristofane dice a Eurissimaco, presuppone non solo l'esistenza di un Grande Androgino originario, ma attesta altresì di una ubri fondamentale presente nell'androgino umano, superbia e vigore in eccesso che, esattamente come avviene per Agdistis, devono essere puniti.

"Dunque - dice Aristofane - i sessi erano tre e così fatti perché il genere maschile discendeva in origine dal sole, il femminile dalla terra, mentre l'altro, partecipe di entrambi, dalla luna, perché anche la luna partecipa del sole e della terra. Erano quindi rotondi di forma e rotante era la loro andatura perché somigliavano ai loro genitori. Possedevano forza e vigore terribili, e straordinaria superbia; e attentavano agli dei..." [4]

Fu così che Zeus prese la decisione di punire gli androgini, ma, esattamente come per Agdistis, la punizione non comportò la privazione della vita, ciò che - osserva Platone - avrebbe determinato la scomparsa degli onori e dei sacrifici che gli uomini attribuivano agli dei e, se Agdistis fu evirato, gli androgini videro il proprio corpo tagliato a metà e, dopo di allora, dedicarono l'esistenza alla ricerca della metà resecata. [5] E ciò non tanto col desiderio di unirsi alla propria opposta polarità, come vorrebbe far credere un'interpretazione falsamente poetica che, solo nel matrimonio, santifica l'unione dei sessi, ma con l'idea della più completa reintegrazione dell'androgino primordiale. Il che, poi, non è tanto una metafora poetica dal momento che esiste un'abbondante letteratura sull'androginia e una sua altrettanto ricca rappresentazione nelle arti figurative.
La questione, talora ossessiva, si riassume nella domanda di Herman Melville:

" What Cosmic jest or Anarch blunder
The human integral clove asunder
And shied the fractions through life's gate?"

(Quale scherzo cosmico o errore dell'Anarca / ha spaccato l'essere umano integro / e ha lanciato i frammenti attraverso la porta della vita?) " [6]

Evidente, nei versi di Melville, il rimpianto per la condizione edenica quando Adamo non conosce Eva ed è ancora l'Adam Qadmon, l'uomo cosmico creato a immagine e somiglianza del Grande Androgino. La legittima aspirazione a riconoscere e celebrare le due polarità della natura umana si muta nel desiderio impossibile e titanico di un uomo considerato integro, perché dotato di entrambi i sessi, a imitazione del suo fantomatico e carnale creatore.

C'è di più: il mito dell'androgino, sotto il velo poetico e religioso, cela un'altra verità. L'avversione e l'invidia maschile per la femmina alla quale soltanto è concesso di generare, tant'è che, per un verso si dice che la donna è costruita, non creata [7] e, per altro verso, si pretende di annullare l'identità femminile, di farne a meno, per così dire, a tutto vantaggio di un ibrido di entrambi i sessi, sublimato per essere a immagine e somiglianza di Dio, come lui maschio bisessuato, dotato di straordinari poteri. [8]

Questa visione antropomorfa, maschile e materialista della divinità si trova, con diverse accentuazioni, in tutte le religioni e nella tradizione ebraico - cristiana trova la sua pietra d'inciampo nell'allegoria del serpente e della scimmia. Cosa dice il serpente alla donna? Che se lei e il suo compagno mangeranno il frutto proibito, diverranno simili a Dio. Ed ecco Adamo ed Eva che, in luogo di reintegrarsi nell'Uomo cosmico, si trasformano in simia dei, scimmia di Dio.

Così, l'androgino, lungi dall'essere 'un nuovo stato in cui le caratteristiche essenziali del maschio e della femmina coesistono armoniosamente' [9] o il luogo a cui 'la mente s'innalza al di sopra dei nomi e delle forme' e dove 'anche le divisioni sessuali vengono superate', [10] lungi dal rappresentare il ritorno alla condizione edenica e a Dio, ne è piuttosto l'allontanamento, con la discesa nel caos indistinto della natura naturans, dove ogni identità scompare nella babele delle forme, perché ogni forma è ancora lontana dall'individuazione. [11]

Il Pimandro, echeggiando il Genesi, ripropone la bisessualità fondamentale della natura umana, [12] la successiva separazione dei sessi per volere divino [13] e il conseguente appello all'accrescimento e alla moltiplicazione del genere umano. [14]
In altri trattati ermetici, tuttavia, si fa strada una più complessa dinamica dei rapporti uomo - Dio. E' il mondo, inteso come totalità del reale, ad essere creato a immagine di Dio, non l'uomo, e se il creatore è eterno e ingenerato (aidios ), la realtà (mondo, cosmo) che è generata, è soltanto immortale (atànatos). L'uomo, invece, non è né eterno né immortale, perché generato dal mondo, sebbene egli partecipi dell'immortalità mediante l'intelletto (nous): [15]

"Primo di tutti gli esseri, in realtà è Dio, eterno, ingenerato, creatore dell'universo; secondo è colui che è stato creato da Dio a sua immagine e che da Dio è tenuto in vita, nutrito e dotato di immortalità...Il Padre dunque, generandosi da sé, è eterno, il mondo invece, essendo generato dal Padre, è generato ed è immortale. E quanta materia era soggetta alla sua volontà, tutta questa il Padre la foggiò in forma di corpo e, avendole dato un volume, la rese sferica...Dio circondò il tutto di immortalità, affinché, anche se la materia volesse separarsi dalla composizione di questo corpo, non potesse dissolversi tornando al disordine che le è proprio...I corpi degli esseri celesti possiedono un unico ordine, quello che hanno ricevuto dal Padre fin dalla loro origine; e quest'ordine è conservato immutabile dal ritornare periodico di ciascuno di essi al suo posto primitivo (il ritorno periodico degli astri a un punto fissato della loro traiettoria, indica quindi l'immobilità dell'ordine celeste)...Il terzo essere vivente è l'uomo, creato a immagine del mondo, e che, a differenza degli altri esseri terrestri, possiede l'intelletto per volontà del Padre; non solo è unito per affinità al secondo dio, ma può conoscere il primo dio con la facoltà intellettiva." [16]

Il medesimo concetto, dell'uomo creato a immagine del mondo, è ripreso nel IX Discorso, [17] nel X per sostenere che il mondo è bello ma non buono perché soggetto a passioni [18] e per ribadire la gerarchia degli esseri: Dio, il cosmo e l'uomo [19]. E' ripreso di nuovo nel discorso che l'intelletto o nou rivolge a Ermete per meglio fissare, in rapporto a Dio, i concetti di eternità, cosmo o mondo, tempo e divenire [20] e per definire, in rapporto al cosmo, i reali significati di morte, trasformazione, visibile, invisibile, rotazione e sparizione.[21]

Per quanto la concezione ermetica ricordi il Timeo platonico nel fare del cosmo l'immagine dell'eternità, passaggio dal caos all'ordine, topo generato e immortale [22]; per quanto i trattati parlino del cosmo come di un secondo dio, non bisogna dimenticare il carattere sostanzialmente monoteistico della teologia ermetica: ei kai mono, uno e solo, è il fondamento stesso della divinità e il nous così parla ad Ermete:

"Che esista dunque un creatore di queste cose, è chiaro; che sia anche unico, è ancora più evidente; una è l'anima, infatti, una la materia, una la vita. Chi è dunque questo creatore? Chi altro se non Dio, che è unico? A chi altro infatti si converrebbe creare esseri animati, se non a Dio solo? Dio dunque è unico. Sarebbe una cosa del tutto ridicola: hai ammesso con me che il mondo è sempre uno, uno il sole, una la luna, una l'attività divina, e vorresti che Dio proprio lui, fosse membro di una serie?"[23]

Dio - uno è davvero il Grande Androgino descritto nel primo capitolo del Genesi, in alcuni trattati ermetici e nel pantheon delle diverse religioni? In contrasto con quanto si afferma sia nel Pimandro che nell' Asclepio, nel già menzionato discorso del nou ad Ermete la soluzione prospettata, nonostante l'apparente dualismo, è decisamente in armonia col pensiero complessivo dell'ermetismo. Per un verso Dio, come principio trascendente, è incorporeo e dunque privo di forma, per altro verso Dio, creatore del cosmo, presenta tutte le forme:

"Il mondo è multiforme, non perché contiene in sé stesso le forme, ma perché muta in se stesso. Poiché dunque il mondo è stato creato multiforme, come può essere colui che lo ha creato? Non potrebbe essere privo di forma. D'altra parte, se egli è multiforme, risulta che è uguale al mondo. Ma se possiede una sola forma?In questo sarà inferiore al mondo. Come possiamo dunque dire che è, per non lasciare il discorso senza una conclusione certa? Niente vi è infatti di dubbio per noi nella conoscenza di Dio. Dio quindi ha una sola forma che sia propria di Dio, la quale non sia però oggetto degli organi della vista, e cioè incorporea; Dio presenta tutte le forme attraverso i corpi." [24]

Poiché, dunque, c'è forma solo per rapporto alla materia, Dio non ha forma, né, tantomeno, può improntare di sé una qualsiasi forma da trasmettere all'uomo, [25] per cui si possa dire che egli goda di natura bisessuale. Egli, tuttavia, creando il cosmo, è presente in tutte le forme e si trova tanto nel corpo del maschio che in quello della femmina e quando maschio e femmina si congiungono nell'amplesso, ricostituendo l'unità del creato (cosmo), sono a lui più vicini. [26]

Androgino è dunque il cosmo, non l'uomo, nel senso che ogni aspetto del reale necessità dell'azione congiunta della femmina e del maschio, e benché si dica che il cosmo è creato a immagine di Dio, [27] la sua somiglianza, poiché Dio è privo di forma, si estrinseca nell'unicità e nell'immortalità, ma già differisce nel principio stesso della sua esistenza, armonico in sé ma suscettibile di contrasto e separazione nell'individuazione delle forme del divenire. Tant'è che gli ermetici lo dicono bello, ma non buono [28] ad indicare che è soggetto a passione e corruzione, non in sé, ma nel tempo e nello spazio.

Cosa, d'altra parte, ci fa persuasi che il cosmo è uno, visto che la realtà si manifesta sempre nella forma della polarità e della contrapposizione (maschio - femmina, male - bene, odio - amore, luce - tenebre, giorno - notte, vita - morte...)? Non potendo creare un altro se stesso, se non riproponendo - come già si è detto -l'identità di sé, Dio scelse di creare, si un dio, perché, a propria immagine e somiglianza, lo fece uno e immortale, ma un dio visibile e sensibile, non tanto perché costui percepisse ma perché potesse essere percepito: [29] nacque così l'androgino ermetico - primo mattone della costruzione del cosmo, mirabile pietra grezza in cui la trinità converge nell'unità ancora indistinta e caotica, [30] unico e vero figlio di Dio, logos divino in cui Dio si è fatto carne. Questi e solo questi è l' Adam Qadmon, l'androgino primordiale, il caos primigenio che contiene indifferenziati il principio maschile e il principio femminile, e per mezzo del quale nasce l'ordine (cosmo) e si conoscono le forme transeunti e molteplici del reale.
Sotto questo profilo, l'intera storia, non solo dell'umanità, ma di tutte le forme esistenti e di quelle di là da venire, altro non è che la grande epopea dell'Ermete Trismegisto, il mercurio tre volte grande, non perché - come è stato detto - egli sia figura umana dotata di straordinaria saggezza e signore nei tre regni, bensì, perché è l'anima di tutte le fasi della Grande Opera. Dove il mercurio è tre volte grande? Nell'essere materia prima dell'Opera, nel morire e nel saper rinascere. Egli è ad un tempo la pietra grezza, la pietra lavorata e la pietra filosofale. Non a caso il suo nome greco, Ermes, significa pilastro di pietra e in tale forma veniva spesso rappresentato. Nella mitologia greca, egli è padre di Ermafrodito (l'androgino, la pietra grezza), generatogli da Afrodite nata dalla spuma del mare, fecondata dai genitali recisi di Urano.
Cosa fa l'alchimista con arte spagirica? Egli separa l'unità indistinta e caotica degli elementi (sale, zolfo e mercurio) che formano la pietra che non è una pietra e li ricompone nell'unità mirabile e aurea della pietra filosofale.

Il medesimo lavoro è possibile in tutte le tradizioni. In quella ebraica, il sigillo o esagramma di Salomone contiene, racchiusi in un cerchio (sale - terra), due triangoli contrapposti e incrociati, simboli del fuoco (zolfo) e dell'acqua (mercurio). L'esortazione contenuta nella Tavola di Smeraldo può essere compiuta: 'lavare col fuoco e bruciare con l'acqua'. E lo Zohar, in un passo che ha per tema la dialettica luce - oscurità, così ripropone il significato della creazione umana fatta a immagine e somiglianza di Dio:

" ‘A nostra immagine' corrisponde alla luce (principio maschile). 'A nostra somiglianza' corrisponde all'oscurità (principio femminile), che è una veste per la luce ". [31]

Nell'androgino ermetico, il maschio (la luce, il fuoco, il sole) è oscurato (velato) dalla femmina (la veste bianca della luna).Ma la tradizione cristiana si spinge anche oltre. Nella Lettera agli Efesini, Paolo di Tarso chiama Cristo pietra principale. Con Cristo (poco importa, sotto questo riguardo, se egli sia davvero esistito), la chiesa di Pietro ha finalmente realizzato il 'sogno divino' (e umano) di Adamo di trasformare la terra nell'oro dello spirito. Cristo, come Adamo, non nasce di donna, egli è figlio unigenito di Dio. A differenza di Adamo, egli ubbidisce al padre: accetta la morte, ma per avere vita eterna. Il suo calvario addita la via da seguire per trasformare il piombo in oro, la pietra grezza in pietra filosofale. Risorge, infine, dalla tomba per essere lievito di vita. Egli è si 'la via, la verità e la vita' ma solo come metafora dello spirito immortale presente nel primo mattone con cui Dio ha fatto il cosmo. Peccato averlo fatto uomo, peccato averlo idolatrato assieme al padre suo concepito a stregua di un prodigio umano, un ibrido dotato di fallo e di vagina.


[1] "Il fatto che uomo e donna, insieme, siano creati a immagine di Dio sottintende che Dio sia un'entità maschile/femminile, e non solo maschile", scrive G. Dreifuss in Maschio e femmina li creò. L'amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, La Giuntina, Firenze, 1996, p. 30. Tesi, questa, condivisa da autori come Kaplan e Moshe Idel. Dreifuss, tuttavia, osserva che 'nel giudaismo normativo questa immagine di un'entità divina maschile/femminile non trova espressione' (Ibid., p. 31), mentre è presente nella letteratura midrashica ( Genesi Rabbah 8:1 e 17:6, Levitico Rabbah, 14:1, Midrash Salmi, 139, bEruvim, 18a ) contrariamente a ciò che sostiene E. Zolla (The Androgyne. Fusion of the Sexes, trad.it., Incontro con l'androgino, red edizioni, Como, 1995, p. 57), un autore che, per la verità, non sembra avere molta dimestichezza con 'la tradizione esoterica ebraica' cui, pure, dedica un paragrafo di questo suo libello.
L'immagine maschile/femminile della divinità è anche ben presente nella Qabbalah dello Zohar e, soprattutto, nella Qabbalah luriana dei Partzufim, dove il carattere antropomorfico della divinità è addirittura esaltato. Fa tuttavia notare Moshe Idel che in nessun caso l'unione del maschio e della femmina è funzionale all’emergere di una divinità androgina, ma è piuttosto 'l'insistenza per l'ottenimento di una relazione armoniosa tra principi opposti, la cui esistenza separata è indispensabile per il benessere dell'intero universo. O per dirla con altre parole: la cabala teosofica non ha cercato una ritrutturazione drastica dell'esistenza, sia attraverso la trasformazione del femminile in maschile, sia attraverso la loro fusione finale in un'entità bisessuata o asessuata...Nella concezione gnostica, il mondo inferiore deve sforzarsi di copiare la regola superiore dell'androginia o della asessualità. L'attitudine gnostica risulta essere a certo riguardo simile all'attitudine cristiana di fronte alla sessualità, esse costituiscono un aspetto importante del loro più generale rigetto di questo mondo; le escatologie gnostiche e cristiane propongono una salvezza spirituale che riguarda sia la restaurazione dell'androginia paradisiaca sia uno statuto di asessualità per il credente.' (cfr. M. Idel, Cabala ed erotismo, Mimesis, Milano, 1993, pp. 35 - 36).
Più avanti, in nota, Moshe Idel riporta, condividendolo, il pensiero del Meeks (The image of the Androgyne, p. 186): "Nell'ebraismo, il mito dell'androgino serve a risolvere un dilemma esegetico e a consolidare la monogamia". E Moshe Idel osserva: "In ogni caso, la cabala estatica utilizza a volte una produzione di immagini androginiche, sotto l'influenza della filosofia greca, e attraverso la mediazione delle opere di Maimonide...Un'altra differenza cruciale tra le concezioni ebraiche e greche dell'androginia è la visione ebraica positiva della separazione tra il maschio e la femmina, mentre in Platone la separazione è vista come una punizione..." ( M. Idel, op.cit., nota 84, p. 55)
[2] "Questa concezione di Dio dotato di doppia natura, femminile e maschile, è molto comune nella letteratura religioso-filosofica del tempo; si ritrova nei neoplatonici, negli gnostici, nell'orfismo e ripetutamente negli scritti ermetici ... ed è strettamente connesa con l'altra concezione, per cui la natura propria e peculiare di Dio è il generare...".
Così osserva B.Maria Todini Portogalli in una nota del Pimandro da lei tradotto (Discorsi di Ermete Trismegisto, Boringhieri, I Ed.,1965, p. 31, nota 5).
[3] Greca d'importazione, Cibele è in realtà, in origine, la dea ittita Kubaba che dalle sponde dell'Eufrate trascorre in Asia Minore e in Frigia col nome di Kubebe e Kybele. In nessun caso, Cibele può essere assimilata a Rea come fecero i Greci e i Romani, la sua peculiarità, infatti, è di non essere soltanto la Grande Madre degli dei e degli uomini, ma di incarnare un principio più arcaico e primordiale. Cibele è la natura naturante nel momento del Caos, l'unità indifferenziata di maschio e femmina, allorché il principio creativo che è in lei non ha ancora operato la trasformazione in natura naturata.
In Frigia, nei pressi di Pessinunte, su una scogliera deserta, Cibele si manifestava come roccia o pietra nera (Agdos). Attis o Atti, discendente da seme divino caduto sulla pietra, tentò invano di vivere la propria sessualità maschile, unendosi in nozze con Atta, la figlia del re Mida di Pessinunte. Ad impedire le nozze, sopraggiunse Cibele nella sua veste maschile e violenta di Agdistis. Al suono della siringa di Pan, Cibele-Agdistis provocò la follia dei convitati e dello stesso Attis che si evirò sotto un pino, assumendone poi la forma e tornando così all'androginia originaria e primordiale.
[4] Platone, Simposio, XIV, 189c - 190b, in Platone, Opere, vol.I, Laterza, Bari, 1966, pp. 681- 682.
[5] Ibid., XIV, 190c - 191a. E' interessante osservare, a conferma di quanto si diceva sopra, come Platone tradisca qui l'idea che in origine non esistesse che un solo sesso: l'androgino. Evidentemente, come immagine speculare di una divinità primordiale. Egli, infatti, sottolinea il fatto (XIV, 190c) che gli uomini furono risparmiati unicamente perché con loro sarebbero scomparsi gli onori e i sacrifici attribuiti agli dei, ciò che invece si sarebbe evitato se, oltre a loro, fossero esistiti anche gli altri due sessi.
[6]Cfr., in E. Zolla, op. cit., p. 26.
[7] Com'è noto, secondo il racconto biblico , Dio costruisce la donna con ciò che toglie dal corpo di Adamo (Genesi, 2:22), tant' è che questi la chiama ishah perché da lui stesso (ish, uomo) è stata tratta e, nuovamente, grazie all'unione santa del matrimonio, sarà da lui incorporata (Genesi, 2:23-24). In altri termini, il corpo della donna non è che quello dell'uomo, che si munisce di utero e vagina unicamente in funzione dell'accoppiamento e della generazione.
[8] Naturalmente, anche una dea dotata di entrambi i sessi è un androgino, ma la sua rappresentazione, come nel caso di Cibele, è molto più arcaica e, probabilmente, fa riferimento ad una ipotetica società matriarcale o comunque ad un'età in cui il potere di generare riesce ancora ad imporsi su quello di fecondare.
[9] Cfr., A. Schwarz, Cabbalà e Alchimia, Saggio sugli archetipi comuni, La Giuntina, Firenze, 1999, p. 70
[10] Cfr., E. Zolla, op.cit., p. 11
[11] Con ciò, non si vuole certo disconoscere la dimensione psicologica della condizione umana e il bisogno di rappresentare, dentro di sé, l'opposta polarità sessuale. Appare perciò convincente, ancora oggi, la distinzione junghiana di anima, per descrivere la psiche maschile, e di animus, per descrivere la psiche femminile. Non diversamente, nel taoismo, all'energia maschile ed esterna yang, fa riscontro una prevalente energia femminile interna yin (non solo psichica ma anche fisica) e viceversa. Infine, non è da sottovalutare che, geneticamente, il sesso è determinato da una impercettibile (quanto significativa) differenziazione. Pertanto, la rottura dell'equilibrio, per le cause più diverse, può facilmente indurre la psiche e il soma a invertire di polarità (omosessualità) o a funzionare, per così dire, a corrente alternata (bisessualità).
[12] "...(L'uomo) possiede in sé la natura maschile e femminile insieme, perché è stato generato da un padre, che ha ambedue le nature..." , Pimandro, XV, ed. cit.,p. 34; cfr., Genesi, 1:27
[13] "... compiutosi il periodo della rivoluzione, il legame, che teneva unite tutte le cose, si ruppe per volere divino. Tutti gli esseri viventi, che erano al tempo stesso di natura maschile e femminile, insieme all'uomo, si divisero in due e divennero in parte maschili, in parte femminili.", Pimandro, XVIII, ed. cit.,p. 36; cfr., Genesi, 2:21-22
[14] "Immediatamente Dio con un santo discorso disse loro: 'Crescete accrescendovi, e moltiplicatevi in quantità tutti voi, che siete stati creati e prodotti, e chi possiede l'intelletto riconosca se stesso immortale'...", Pimandro, XVIII, ed. cit.,p. 36; cfr., Genesi, 1:28
[15] Che cosa debba intendersi per nou nella letteratura ermetica è argomento assai complesso. Sulla questione si rimanda alla lunga ed efficace nota di B. M. Todini Portogalli nel già citato testo (nota 2, pp. 27-28). Si può tuttavia provare a riassumere i diversi significati, con le parole stesse del Pimandro:
"L'intelletto...è della stessa essenza di Dio...non è ricavato dalla essenzialità di Dio, ma si dispiega da essa come la luce dal sole. Negli uomini questo intelletto è Dio..." (Discorsi di Ermete Trismegisto, cit., nota 2, p. 28)
[16] Cfr., Discorsi di Ermete Trismegisto, cit., VIII, pp. 80 - 82. Il corsivo in parentesi è contenuto in una nota di B. M. Todini Portogalli, in calce al testo.
[17] "Dio è dunque il padre del mondo, il mondo il padre di tutti gli esseri che si trovano in esso; il mondo a sua volta è figlio di Dio, e gli esseri che sono nel mondo sono figli del mondo. E giustamente il mondo è stato definito kosmo(ordine), perché ordina tutti gli esseri per mezzo delle varie qualità delle generazioni, per mezzo della continuità della vita, della sua instancabile attività, del rapido movimento imposto dal destino, della combinazone degli elementi, e della disposizione ordinata di tutti gli esseri che nascono." Discorsi, cit., IX, 8, pp. 87 - 88
[18] "Chi è dunque il dio materiale di cui parli?"chiede Asceplio ad Ermete ed Ermete risponde: "Il mondo, che è bello, ma non buono; è costituito infatti di materia, è soggetto a passioni ed è il primo di tutti gli esseri passibili; è il secondo nella serie degli esseri, ed è incompleto in sé stesso, ha avuto anch'esso un principio della sua esistenza, ma esiste sempre, perché esiste nel divenire..."Ibid., X,10, p. 96.
[19] "...Vi sono dunque questi tre esseri: Dio che è il padre e il bene al tempo stesso, il cosmo e l'uomo. Dio contiene il cosmo; il cosmo l'uomo; il cosmo nasce come figlio di Dio, l'uomo del cosmo, quindi come nipote di Dio." Ibid., X, 14, p. 98.
In proposito, B.M. Todini Portogalli osserva:
"La concezione di un profondo legame tra i tre esseri divini: Dio, il mondo, l'uomo è il tema centrale dell'ermetismo, e deriva evidentemente dal tema stoico della sumpateia (simpatia), principio di accordo e di unità del cosmo." (Ibid., p. 102, nota 26)
[20] "...Dio crea l'eternità, l'eternità il mondo, il mondo il tempo, il tempo il divenire. L'essenza di Dio è per così dire la saggezza; dell'eternità l'identità; del mondo l'ordine; del tempo il mutare, del divenire la vita e la morte...Così dunque l'eternità è in Dio, il mondo nell'eternità, il tempo nel mondo, il divenire nel tempo. E mentre l'eternità sta immobile intorno a Dio, il mondo è in movimento nell'eternità, il tempo si compie nel mondo, il divenire diviene nel tempo." Ibid., XI, 2, pp. 106 - 107
[21] "L'eternità è dunque immagine di Dio, il mondo immagine dell'eternità, il sole del mondo, l'uomo del sole. Il cambiamento è definito come morte, per il fatto che il corpo si disgrega e la vita si dissolve nell'invisibile. Gli esseri che si disgregano in tal modo, mio caro Ermete, e anche il mondo, io dico che si trasformano, per il fatto che ogni giorno una parte del mondo va nell'invisibile, ma non si dissolvono. Queste sono le perturbazioni che subisce il mondo: la rotazione e la sparizione. La rotazione è rivoluzione, la sparizione é rinnovamento." Ibid., XI, 5, p. 114.
[22] Non diversamente gli stoici (Zenone, Cleante e Crisippo, IV - III sec. a. C.), secondo le testimonianze degli antichi, considererebbero il cosmo uno, generato e immortale, cfr., Stoici antichi. Tutti i frammenti, raccolti da Hans von Arnim, trad. it. di R. Radice, testo greco e latino a fronte, Rusconi, Milano, 2.a ed., 1999, frr. (B. f)528 - 533, pp. 615 - 617.
C'è tuttavia da osservare che, nella concezione stoica, Dio stesso è identificato con l'intero cosmo:
"Per loro dio non è altro che l'intero cosmo con tutte le sue parti. E affermano che questo è uno solo, finito, vivente, eterno e divino. Nel cosmo sono compresi tutti i corpi, né v'è traccia di vuoto. Danno il nome di Dio alla qualità derivata da tutta la sostanza, e non a ciò che possiede una tale disposizione in conformità con l'ordine universale. Pertanto, in coerenza con la prima definizione sostengono che il cosmo è eterno, mentre con riferimento al suo ordinamento dicono che è generato, soggetto a un infinito cambiamento ciclicamente ripetuto nel passato e nel futuro. Ma per quanto riguarda la qualità che proviene da tutta la sua sostanza il cosmo è eterno e divino." Ibid., (B.f)528, p. 615. Il grassetto è nel testo.
Mi sembra interessante osservare come Giordano Bruno in De la causa, principio e uno pervenga in gran parte a risultati analoghi nel considerare il rapporto Dio - cosmo. Soluzione più stoica, dunque, che ermetica, anche valutando con tutto il rispetto le acute analisi della Yates sull'ermetismo di Bruno (Frances A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, Londra, 1964; trad. it. Laterza, Bari, 3.a ed., 1992 ). Il Nolano, infatti, pur chiamando Dio 'principio primo sopranaturale', finisce poi col distinguerlo dall'universo grazie soltanto agli aristotelici concetti di potenza ed atto e prospettando così una soluzione assai vicina a quella degli stoici:
"Or contempla il primo ed ottimo principio, il quale è tutto quel che può essere, e lui medesimo non sarebe tutto se non potesse essere tutto: in lui dunque l'atto e la potenza son la medesima cosa. Non è cossì nelle altre cose..." (Op. cit., Mursia, Milano, 1985, p. 157).
Il curatore Augusto Guzzo osserva che potenza ed atto non coincidono "né nelle singole cose dell'universo, né nell'universo preso complessivamente...perché esso è tutto quel che può essere, ma in ciascun momento e luogo è solo quel che è, e non le molte cose che anche potrebbe essere." (cfr., nota 191, p. 157)
[23] Cfr., Discorsi, cit., XI, 11, p. 112.
[24] Ibid., XI, 16, pp. 114 - 115.
[25] Analogamente, secondo testimonianza, per gli Stoici Dio non ha forma umana: "Omitto de figura dei dicere, quia Stoici negant habere ullam formam deum (Preferisco non parlare dell'aspetto di dio, perché gli Stoici escludono del tutto che dio abbia forma)", scrive Lattanzio (Stoici antichi, cit., fr. (B.f)1057, p. 899) e Clemente Alessandrino annota: "Dio per ascoltare non ha bisogno di avere forma umana, né gli servono i sensi, come dicevano gli Stoici, in specie quello della vista e dell'udito..." (Ibid., fr. (B.f)1058, p.901).
Del pari, si osservi, per tornare sull'argomento introdotto con la nota 23, che anche Giordano Bruno, nel De la causa, principio e uno, esclude che a Dio appartenga forma umana, vuoi che questo significhi - come sostiene Augusto Guzzo (op.cit., nota 3, p. 210) - un comune sentire con l'eleatismo e il pitagorismo, vuoi piuttosto con l'ermetismo di cui parla la Yates, per ciò che lo stesso Guzzo ritiene sotteso (Ibid., nota 1, p. 210) quel 'primo principio sopranaturale' che invece a me pari manchi intenzionalmente nel brano di seguito citato e che, ove anche fosse presente in 'spirito', rimanderebbe a un Dio - Cosmo, uno e totalizzante. Ciò che, a mio giudizio, rende di nuovo il Nolano concettualmente più vicino allo stocismo che all'ermetismo:
"TEOF. E' dunque l'universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e però infinibile ed indeterminabile, e per tanto infinito e indeterminato, e per conseguenza inmobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiongere, cossì è da cui non si può suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parte proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno da cui patisca e per cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi nell'essere suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere o pur ad altro ed altro modo di essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde. Non è materia, perché non è figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggiore di sé. Non si è compreso, perché non è minore di sé. Non si agguaglia, perché non è altro ed altro, ma uno e medesimo. Essendo medesimo e uno, non ha essere ed essere; e perché non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e per ciò che non ha parte e parte, non è composto. Questo è termine di sorte che non è termine; è talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno." (Giordano Bruno, op.cit., pp. 210 - 212).
Il brano, di grandiosa e poetica bellezza estetica e concettuale, non lascia adito al dubbio: nell'universo così descritto non c'è spazio per la trascendenza, ciò che lo avvicinerebbe alla visione ermetica proposta nel Discorso del nou (intelletto) a Ermete Trismegisto.
[26] Dove questo concetto meglio si esprime, è nella tradizione ebraico - cabbalistica del Cantico dei Cantici e dello Zohar. Anche qui, tuttavia, occorre intenderci. Se l' 'unione degli opposti', così poeticamente espressa nel Cantico, si propone a modello del Grande Androgino creatore, siamo alle solite, con una visione antropomorfica e materialistica della divinità. Se, viceversa, leggiamo il Cantico nell'ottica con cui Moshe Idel indica, più in generale, debba intendersi, nella tradizione ebraico - cabbalistica, l'unione sessuale del maschio e della femmina (cfr. nota 1), allora comprendiamo meglio, nella molteplicità dei fenomeni e nella dialettica degli opposti, la sostanziale unità del Tutto.
Giuseppe Abramo, nell'introduzione del suo pregevole studio sul Cantico, dopo aver ricordato che nel Talmud è detto che 'Tutto ciò che Dio ha creato in questo mondo, l'ha creato maschio e femmina', osserva: "Questo correlarsi di parti, questa affermazione che la polarità essenziale di tutta l'esistenza è quella maschile - femminile, in Cabala è contenuta nelle parole, peraltro prese a prestito dal Talmud, 'Due che è quattro'. Ci troviamo di fronte ad un sistema nel quale: ' l'Uno diventa due, che in realtà è quattro, che si unisce diventando due, il cui scopo è di rivelare l'Uno'. (G.Abramo - Nadav Eliahu Crivelli, Il Cantico dei Cantici e la tradizione cabalistica, trascendenza e immanenza nell'unione fra maschile e femminile, Bastogi, Foggia, 1999, p. 19). Se con 'Uno' s'intende non il Dio creatore e trascendente, ma il Cosmo creato uno da Dio, da cui si genera, nella sua opposta polarità, l'essere umano ed ogni altro aspetto della realtà, allora siamo nella prospettiva di Moshé Idel.
[27] Supra
[28] Ibid.
[29] Cfr., Asclepio, 8, in Discorsi, cit., p. 183
[30] A Roma, sull'architrave della Porta Ermetica di piazza Vittorio, è inciso il sigillo di Salomone sormontato da una croce. Ai piedi della croce, un cerchio che al centro ne contiene uno più piccolo. Sigillo e cerchi sono chiusi da un cerchio più grande dove tut'attorno è scritto in latino: "Tre sono le meraviglie: Dio e l'uomo, la madre e la vergine, il trino e l'uno". Ecco 'il miracolo della cosa una' di cui si parla nella Tavola smeraldina di Ermete Trismegisto. Ecco infine rivelato il mistero (o dogma) della santissima trinità.
[31] Cfr., Zohar, I, 22a-b, in G. Dreifuss, op. cit., nota 32, p. 117.

Narrativa e Qabalah : KAFKA

'Tutto è fantasia: la famiglia, l'ufficio, gli amici, la strada: fantasia, lontana o vicina, la donna; ma la verità più prossima è che tu premi la testa contro il muro di una cella senza finestre e senza porte”.

Così Franz Kafka annota nei Diari e meglio non potrebbe descrivere il proprio modo di vedere la realtà e di rappresentarla nell'unico universo possibile: quello letterario. Già, perché -a pensarci bene- gli altri e le cose non sono altro che le rappresentazioni che ne abbiamo: opere di fantasia di un prigioniero solitario. Fantasmi che sono reali e che per questo si propongono a noi con angoscia e senso del grottesco. ‘La disgrazia di Don Chisciotte -scrive Kafka- non è la sua fantasia, è Sancio Pancia [1]. La vera disgrazia di ogni uomo è il sacrificio della fantasia a vantaggio di una realtà impermanente.

Il male radicale e universale che ispira l'opera kafkiana è in quella deiezione o caduta originaria che estranea l'uomo dall'Uno-Tutto e che gli lascia solo la speranza di una improbabile risalita. L’estraneità dell'uomo nel mondo si riflette già all'interno del nucleo familiare, come Kafka stesso confessa e come capita a Gregorio Samsa, il commesso viaggiatore che nel racconto Metamorfosi diventa insetto: “Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregorio Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto. Giaceva sul dorso duro come una corrazza e, appena alzato il capo, scorse un addome carenato, scuro, traversato da numerose nervature...” [2]

Il cammino a ritroso è votato allo scacco, come ci mostrano gli inutili tentativi del protagonista, sia nel Processo che nel Castello. La soluzione è forse nella comprensione del reale significato del motto delfico. Kafka scrive: “Conosci te stesso non significa: osservati. Osservati è la parola del serpente. Significa: fatti padrone delle tue azioni. Ma tu lo sei già, sei padrone delle tue azioni. Questa frase, pertanto, significa: ignòrati! Distruggiti! Dunque una cosa cattiva. E solo chi si china profondamente ne ode anche il messaggio buono, che dice: Per fare di te stesso quello che sei[3]

Nel romanzo America scritto tra il 1912 e il 1914 e lasciato incompiuto, colpa e responsabilità del protagonista sembrano avere una base oggettiva ancorché paradossale. Karl Rossmann è un ragazzo tedesco di sedici anni che i genitori condannano all'esilio negli Stati Uniti per essersi lasciato sedurre da una cameriera e averne avuto un figlio. Inaspettatamente, al suo arrivo a New York, egli trova ad attenderlo uno ‘zio d'America’, un ricco senatore che lo sottrae così alla povertà e al vagabondaggio. Ad avvertire lo zio Jakob non sono stati i genitori -come ci si attenderebbe- bensì la cameriera che l'ha sedotto. Come Leni del Processo e Frida del Castello, la donna è la presenza soccorritrice e l'intermediaria di un potere sfuggente e incomprensibile, come incomprensibile è la decisione che lo zio Jakob annuncia tempo dopo al nipote in una lettera: “Caro nipote! Come avrai avuto occasione di accorgerti durante la nostra vita in comune, purtroppo così breve, io sono anzitutto un uomo di princìpi. Quest'è una cosa difficile e penosa non solo per coloro che mi stanno vicino, ma anche per me. Ma io devo ai miei princìpi tutto quello che sono, e nessuno può pretendere che io rinneghi la mia stessa esistenza a questo mondo (...) bisogna assolutamente che io ti allontani da me dopo quello che è successo oggi e ti prego insistentemente di non venirmi a cercare direttamente e di non tentare di metterti in rapporto con me, né per lettera né per mezzo di intermediari” [4]

Karl è in realtà innocente, come innocenti sono Gregorio Samsa, Josef K. nel Processo o l'agrimensore K. nel Castello. Pure, se c'è una colpa che li accomuna, è la loro ‘rigidità’, la loro incapacità di abbandonarsi totalmente alla Shekinah, questa misteriosa e femminile presenza dell'Alto che inutilmente li soccorre.

Scritto tra il 1912 e il 1917, riordinato per la stampa da Max Brod un anno dopo la morte di Kafka, Il Processo inizia con l'arresto di Josef K. senza motivo apparente di colpa. Per la verità, si tratta di uno strano arresto che gli consente di continuare nel suo lavoro di procuratore di una grande banca. La prima udienza è fissata di domenica e senza orario in un grande caseggiato dei sobborghi. Arrivando, Josef K. scorge all'ingresso dell'edificio, seduto su una cesta, un uomo scalzo che legge un giornale. Nel cortile interno due ragazzetti fanno l'altalena su un carrettino mentre alcune persone si danno da fare per fissare tra due finestre una corda con biancheria da asciugare:

“K. si diresse verso la scala per raggiungere la stanza della commissione d'inchiesta, ma subito si fermò, perché oltre a quella scala ce n'erano nella corte altre tre, e per di più, in fondo alla corte, si vedeva un piccolo passaggio che doveva condurre a un secondo cortile (...) Alla fine si decise a imboccare la prima scala, e nel suo pensiero si risvegliava il ricordo delle parole del guardiano Willem che la legge è attirata dalla colpa, per cui si poteva concludere che anche la stanza della commissione d'inchiesta doveva trovarsi sulla scala che K. aveva scelto a caso.” [5]

In quel labirinto e prima di trovare la stanza giusta, Josef K. vede ragazzetti con visi di furfanti che lo trattengono per i calzoni, donne con lattanti in braccio, ragazzette mezze svestite, malati e ogni genere d'umanità. Tutto l'intreccio del romanzo si svolge in un'atmosfera insieme di angoscia e di sottile ironia. Non a caso Thomas Mann ricorda il riso sfrenato degli amici di Kafka subito dopo aver ascoltato la lettura del primo capitolo del romanzo. Né minore ilarità suscita la filosofia che ispira le decisioni del Tribunale e che Kafka, laureato in Legge, ben doveva conoscere.

Più complessa e strutturata è la storia dell'agrimensore K. nel Castello. Qui, la colpa si manifesta nell'impossibilità radicale di raggiungere sia il Castello sia il signore che lo abita. L'angoscia è la stessa ma avvolge il lettore con minore intensità rispetto al Processo. Il labirinto che impedisce la comunicazione non è più il mondo tentacolare del tribunale, ma quello ben più esilarante e ineffabile della burocrazia dove si apprende che ‘Uno dei princìpi che regolano il lavoro dell’amministrazione è che non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio’[6]e che ‘le decisioni dell'amministrazione sono timide come ragazzine’ [7]

La radice ebraica di cui maggiormente sembra compiacersi Kafka è quella che risale all’albero genealogico di sua madre Julie Lowy [8] e in particolare al trisavolo Isaak Porias di cui lo scrittore praghese racconta nei Diari che fu uomo dotto e pio, ugualmente stimato da ebrei e cristiani, per la sua devozione miracolosamente scampato a un incendio. Esemplare per devozione, dottrina e fedeltà alla Torah fu anche il bisnonno Adam Porias, rabbino e circoncisore della comunità ebraica nonché stimato commerciante di stoffe [9]. E’ certo, tuttavia, che l’ebraismo in Kafka restò per anni come ‘assopito’ se non addirittura vissuto nella noia di tradizioni che egli giudicava formali e quasi meccaniche, ma il suo ‘cuore ebraico’ si destò improvvisamente nei due anni (1910-1911) in cui gli capitò di vedere le rappresentazioni di un teatro yiddish al Savoy di Praga. Per un paradosso che fa di Kafka a un tempo lo scrittore ebreo, più radicato nella tradizione di quanto non si creda e insieme l’uomo universale, fu proprio il teatro a scuoterlo dalla pigrizia con cui aveva sempre riguardato i fenomeni religiosi. Come Kafka stesso ricorda nell’ultimo degli Otto quaderni in ottavo, ‘un bambino ebreo non deve nemmeno sapere che esista un teatro’ [10], perché il teatro è cosa proibita e da lasciare ai cristiani e ai peccatori. L’unica rappresentazione teatrale ammessa era quella del giorno di Purim [11], ‘quando –osserva ancora Kafka nei Quaderni tra realtà e finzione letteraria- mio cugino Chaskel s’incollava una lunga barba nera sulla sua esile barbetta bionda, si metteva il caffettano alla rovescia e recitava la parte di un allegro mercante ebreo’ [12]. La vista del teatro yiddish ha su di lui l’effetto quasi di una rivelazione: “Tutto sommato, quello spettacolo mi piacque più che l’opera, il teatro di prosa e l’operetta messi insieme. Innanzi tutto vi si parlava yiddish, uno yiddish germanizzato ma pur sempre yiddish, uno yiddish migliore, più bello; e poi qui c’era tutto insieme: dramma, tragedia, canto, commedia, danza, tutto insieme, la vita! Tutta la notte non potei dormire per l’eccitazione, il cuore mi diceva che anch’io, un giorno, avrei servito nel tempio dell’arte ebraica, sarei diventato un attore ebraico” [13]. Ciò è tanto più sorprendente perché egli conosceva appena lo yiddish anche se una volta per tranquillizzare gli spettatori di una recita serale in yiddish in onore dell’attore e amico Jizschak Lowy,[14] egli affermò che nella comprensione ‘oltre alle conoscenze agivano anche delle forze e delle connessioni con forze che rendono capaci di sentire il significato del gergo’[15].

Lo spazio limitato non mi permette di seguire le tappe di questa progressiva ‘evoluzione ebraica’ di Kafka e, del resto, quel che mi preme sottolineare è piuttosto che l’intero universo letterario di Kafka si disegna tra la speranza teurgica propria della Qabalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere finalmente il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla Sua ‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per Giobbe [16], non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti. Scrive in proposito Remo Cantoni: “ Nella sua opera descrisse l’odissea illogica di un uomo estraneo dal mondo e dalla speranza. E questo uomo era lui stesso. Ma in questa immagine della coscienza angosciata e nullificante milioni di uomini videro la propria immagine e sentirono narrare la propria storia. Kafka è il testimone di ciò che il mondo non deve essere. Come Marcione e i marcioniti Kafka non accettava l’ottimismo della teodicea comune. Il suo Dio –se un Dio aveva- era assai simile al Dio vendicativo e crudele dell’Antico Testamento, a quella potenza inferiore che, per Marcione, ha creato il mondo limitato, pieno di miserie e controsensi in cui dobbiamo vivere. Per Marcione vi era un Dio infinitamente più alto del Dio creatore. Questo Deus superior et sublimior è il Dio ignoto al mondo, il Dio straniero. Forse anche per Kafka vi era un Dio redentore sconosciuto. Qualche raro barlume di questa redenzione irradia dal mistero. Ma la sola cantica che Kafka ha scritto è l’inferno” [17]. Non condivido neppure una riga di questa analisi che pure ebbe fortuna nella critica kafkiana, alimentata anche dal facile accostamento tra Dio e il Padre. E il padre nell’universo letterario di Kafka come nella realtà è sempre colui che punisce. Nel racconto breve del 1913, Il Giudizio, Georg Bendeman è spinto dalla maledizione paterna: ‘io ti condanno ora alla morte per annegamento!’ [18]a cercare l’improbabile ‘salvezza’ nei gorghi di un fiume. Che cosa esattamente punisce il padre nel figlio? La vita che è fuori di lui. E il figlio risponde col tradimento[19]. E’ questo l’anello della catena che si perpetua dalla ‘caduta’ di Adamo ed è questo anello che Kafka ci invita a spezzare.

La Qabalah nello svelarci il progetto divino del mondo, individua nella teurgia[20] lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia [21] E questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento, come ha giustamente osservato Groezinger in Kafka e la Cabbalà, è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo dove è il Rebbe, lo Tzadik ad intercedere per la comunità. L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio del Castello si rivela illusorio quando non addirittura fuorviante[22]. Eppure, ciò che Groezinger non dice nella sua pur pregevole opera, è che questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo né è vissuto da Kafka con particolare angoscia, ché, piuttosto, si converte in ironia e in ilarità[23], perché l’angoscia intollerabile di cui parlò André Gide s’impadronisce solo dei lettori e deve servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su… come osserva Groezinger[24], bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang: “Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto –in termini teologici- che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”[25]. A sostegno di tale interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka contenuti negli Otto quaderni in ottavo, a cominciare dal più breve di tutti: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato[26] che Elémire Zolla riconduce al chassid Rabbi Pinchas citato da Martin Buber: “Ciò che si caccia non si ottiene: ma ciò che si lascia avvenire e divenire, questo corre a noi”[27]. E se ciò non bastasse si veda la Considerazione terza: ‘Esistono due peccati capitali, nell’uomo, dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. E’ l’impazienza che li ha fatti cacciare dal paradiso, è per colpa dell’ignavia che non ci tornano. Ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. E’ a causa dell’impazienza che sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non tornano’[28]. Oppure la Considerazione trentottesima: ‘Un tale si stupiva della facilità con cui percorreva la via dell’eternità; in effetti, la stava volando giù in discesa’[29]. E tornando ai Quaderni in ottavo: ‘Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa’[30]. E ancora: ‘Prima di entrare nel Sancta Santorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe soltanto, bensì tutto, abito da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quanto c’è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di essa, e poi il midollo e il midollo del midollo, e poi il rimanente e poi il resto e poi ancora il riflesso del fuoco eterno. Solo il fuoco stesso verrà risucchiato dal Santissimo e si lascia da lui risucchiare, a nessuno dei due si può resistere’[31].

Che Kafka sia ‘l’ultimo grande scrittore chassidico e cabbalistico’ [32] è giudizio, tuttavia, che non mi sento di condividere in pieno con Zolla, perché Kafka non fu cabbalista né chassid e perché ritengo fondata l’analisi di Walter Benjamin per il quale ci sono ‘due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka. Uno è l’interpretazione naturale, l’altro è quello soprannaturale: l’una e l’altra –l’interpretazione psicanalitica come quella teologica- trascurano del pari l’essenziale’ [33]. E l’essenziale è che Kafka fu troppo poco devoto per essere un chassid e assai poco filosofo e teurgo per essere un cabbalista. L’En Soph, il Nulla che fa ‘tribolare’ i discepoli di Isacco il Cieco[34] perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano pensieri nichilistici, pensieri di suicidio[35]. La verità è che il cliché teologico esclude tutta la complessa trama dei rapporti ‘intermedi’ di cui abbondano i romanzi e i racconti di Kafka e non tiene neppure conto di Kafka ebreo e allo stesso tempo uomo universale, che si sente a casa nell’ascolto dei racconti chassidici, ma che poi ha bisogno di uscire e che di volta in volta si innamora di Spinoza, di Darwin, di Nietzsche, che legge le opere di Kierkegaard, si entusiasma per la prosa di Flaubert e si accende per i versi di Goethe, di Kafka che già in una lettera del 1903 dichiara ‘Dio non vuole che scriva, io però, io devo’ [36]. Quanto all’interpretazione di segno opposto, la naturale, cosiddetta, o psicoanalitica, mi sembra persino riduttivo il confutarla perché è talmente vera nell’‘uomo Kafka’, quanto è così poco credibile nel ‘Kafka scrittore’.

La lettura attenta del libro di Groezinger, mi convince sempre più che Kafka utilizzò a piene mani racconti chassidici e concezioni cabbalistiche. Questo è soprattutto vero per il Processo, dove il tema del giudizio richiama espressamente le opere della tradizione come lo Zohar [37] e il Reshit Chokmah (Il principio della saggezza) [38]del cabbalista Eliya de Vidas. Neppure è da escludere, come è propenso a credere il Groezinger, che il Processo debba essere inteso alla luce della teologia ebraica del Giudizio propria delle feste ebraiche d’autunno e culminanti nello Yom Kippur o giorno di espiazione e di purificazione [39]. Tutto vero e se qualcuno ne dubita gli basti confrontare i testi della tradizione con ampie parti della prosa di Kafka. Ciò detto, tuttavia, siamo sicuri che si tratti proprio della stessa cosa? O non è piuttosto vero che l’itinerario seguito per raggiungere il Castello deve essere abbandonato? E la difesa adottata durante il Processo, lasciata cadere?

C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo avvocato [40] per la trasposizione romanzesca del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di Luria[41], chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul?[42] Altri racconti, come Un incrocio,Una relazione accademica o Il cacciatore Gracco lo testimoniano espressamente. Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce per essere, fatalmente, la dimensione umana di vivere il sacro. E non solo il sacro, spesso ogni rapporto per noi importante. Dietro il sorriso, tuttavia, non c’è l’amara consapevolezza romantica, l’inadeguatezza della condizione terrena o il rimpianto per il paradiso perduto perché –osserva Kafka- ‘ciò che definiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione’ [43] e ancora: ‘noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perché se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere’ [44].

Poco importa allora sapere se il riso è il sigillo che Kafka appone sulla tradizione o se, come sostiene Walter Benjamin, ‘troverebbe la chiave per comprendere Kafka chi riuscisse a individuare gli aspetti comici della teologia ebraica’ [45]. Prendiamo i romanzi e si vedrà subito, come già si è visto a proposito del ghilghul, come siano rivisitate da Kafka alcune tradizionali dottrine della Qabalah. La fisiognomica, per esempio, o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra. Su ciò non mi soffermerò a lungo perché l’argomento è stato ampiamente trattato dal Groezinger [46]. Ma, ciò che mi preme sottolineare è il clima nel quale si svolge il colloquio: il lettore, anche quello meno distratto, non si sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabalah, egli è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato. Ecco una modalità kafkiana di ‘acchiappare’ insieme il visibile e l’invisibile. Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto Davanti alla legge, ripreso anche nelle ultime pagine del Processo, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “ Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo.’ [47].

Dove ha fallito l’uomo di campagna? La risposta è nel Talmud ci ricorda Groezinger [48]. ‘Uomo di campagna’ è definito nel Talmud chi non studia e non conosce la Torah. Ma c’è un’altra risposta. ‘E’ la solita storia –direbbe Kafka- quest’uomo s’è messo in fila, ha sperato, ha pregato, ha lottato sino all’ultimo cercando di passare con ogni mezzo, lecito e illecito, senza accorgersi che il posto cui aspirava gli era stato già riservato’.

Il cabbalista teurgo fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar e gran parte dei libri della tradizione assegnano simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Naturalmente, ciò non significa che ogni donna rappresenti la Shekinah. Al contrario, la donna nella tradizione ebraico-cabbalista è talora vista come immagine di Lilith [49]. Sulla scia di altri autori, Groezinger coglie la stessa ambivalenza nelle donne dei romanzi di Kafka, ma non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto ai protagonisti, anche se poi si dimostra poco propenso ad approfondire l’argomento.

Sappiamo già cosa Kafka pensi di questi aiuti[50]. Neppure l’avvocato Huld, che in ebraico significa grazia, con riferimento alla sephirah Chesed, sembra in grado di salvare Josef K. nel Processo. Sin dal primo approccio traspare qualche difficoltà. L’avvocato abita in una casa scura e ciò che fa subito dire è di essere ammalato. Quando finalmente appare a Josef K. e a suo zio, l’avvocato Huld giace sofferente di cuore in un letto e Leni, la segretaria-amante dice che egli, per le condizioni di salute, non può trattare nessun affare. La cosa in apparenza più paradossale è che l’avvocato quando si avvede della presenza di Josef K. e capisce che il vecchio amico non è venuto ‘per fare visita ad un malato, ma per affari’, si rianima come per incanto e, con grande sorpresa di Josef K., mostra di conoscere già tutto sul processo. Ma l’impressione più interessante che si ricava da questo primo incontro con Huld-grazia è che l’avvocato potrà fare ben poco per Josef K. e che se un aiuto verrà, questo sarà opera di Leni-Shekinah. Dunque l’aiuto femminile si rivela come un aiuto speciale che, se non conduce a salvezza, è tuttavia di gran conforto.

Il primo ‘aiuto’ di Leni è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio, l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo introduce nello studio dell’avvocato e gli procura la visione di ‘un uomo in veste di giudice, seduto su un’alta poltrona simile a un trono, la cui doratura spiccava molto nel quadro. La cosa strana era che il giudice non sedeva dignitoso e immobile, ma, mentre poggiava il braccio sinistro sulla spalliera, teneva il destro completamente libero, appoggiandosi solo colla mano al bracciuolo come se da un momento all’altro dovesse balzare su con un moto impetuoso e forse adirato, per dire qualcosa di decisivo o per pronunciare forse la sentenza. Si poteva immaginare l’accusato ai piedi della scala, i cui ultimi scalini, ricoperti di un tappeto giallo, si vedevano sul quadro.’ [51]. E’ ancora Leni a suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo: ‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore, non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ [52]. Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima, tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange. Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” [53]

Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’ invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo [54].

Da tutto ciò, una implicazione metafisica: la sephirah Chesed-grazia sembra essere inefficace in un mondo creato e mantenuto con Ghevurah, la sephirah del potere, del giudizio e del terrore. Ne sanno qualcosa i cabbalisti dello Zohar che nel commentare la risposta di Dio ad Abramo [55] concordano nel ritenere che la discendenza viene ad Abramo dal 'segreto del Nome', perché è dal fuoco di Ghevurah[56] che nel mondo nascono i frutti e ogni prodotto, non dall'orizzonte inferiore delle stelle e delle costellazioni. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un “tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte” [57]. In siffatto universo, dunque, la Grazia si rivela troppo distante e periferica per mitigare il Giudizio, questo compito sembra più adatto alla Shekinah che, in sembianze femminili, quando discende, centralmente, dell’Alto mantiene intatta la divina presenza.



[1] Cfr. F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, terzo quaderno, in Confessioni e immagini,cit., p.94. Il corsivo è mio.

[2] Cfr. F. Kafka, La metamorfosi, in Racconti, trad.it. di G. Zampa, Feltrinelli, VI Ediz., Milano 1965, p.75

[3] Cfr. F. Kafka, Terzo quaderno, in op.cit., p.98. Il corsivo è mio.

[4] Cfr. F. Kafka, America, trad.it. di A. Spaini, Oscar Mondadori, Milano 1972, pp.139-140

[5] Cfr. F. Kafka, Il processo, trad.it. di A. Spaini, Oscar Mondadori, II Rist., Milano 1974, pp.35-36

[6] Cfr. F. Kafka, Il castello, trad. it. di A. Rho, Medusa Mondadori, VI Ediz., Milano 1965, p.95

[7] Ibidem, p.202

[8] Nella già citata Lettera al Padre, Kafka scrive: ‘(…) Confrontiamoci l’un l’altro: io, in breve, sono un Lowy con un certo fondo kafkiano, che però non è mosso dalla volontà di vita, di attività, di conquista dei Kafka, bensì da un aculeo lowyano che agisce più segreto e più pavido in altre direzioni, e sovente s’arresta. Tu invece sei un vero Kafka per robustezza, salute, appetito, sonorità di voce, facondia, soddisfazione di Te, superiorità verso il mondo, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, una certa generosità. E naturalmente con tutte le pecche e le debolezze, inerenti a tali doti, verso le quali T’induce il Tuo temperamento e talvolta la Tua irascibilità.’ (op.cit., p.183)

[9] Cfr. K. Wagenbach, op.cit., pp. 9-10

[10] Cfr. F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, Ottavo quaderno, in Confessioni e immagini, cit., p.171

[11] Purim: festività ebraica a ricordo dello scampato sterminio degli ebrei sotto il regno del persiano Assuero, identificato con Serse I, come si racconta nel libro di Ester: ‘Aman, figlio di Ammedata l’Agaghita, nemico degli Ebrei, aveva progettato di sterminarli. Aveva usato il pur cioè il sorteggio per fissare la data del massacro. Ma Ester supplicò il re, e questi diede ordini scritti, per cui il male che Aman voleva fare agli Ebrei è ricaduto su di lui. Lui e i suoi figli sono finiti sulla forca. Quei giorni si chiamano Purim perché vuol dire sorteggio… (Ester, IX: 24-26)’. Purim si celebra il 14 e il 15 del mese ebraico di Adar (febbraio-marzo) ed è la festa più gioiosa dell’anno ebraico in cui ci si maschera, si fanno scherzi e si beve vino perfino in sinagoga.

[12] Cfr. F. Kafka, Ottavo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., pp.170-171

[13] Ibidem, p.174

[14] Ancora nella Lettera al Padre, Kafka così ricorda l’atteggiamento paterno verso l’attore ebreo Lowy (in op. cit., pp.188-189): “ (…) Bastava che io mi interessassi un po’ a qualcuno –data la mia natura, non accadeva sovente- perché Tu subito senza riguardo al mio sentimento e senza rispetto per il mio giudizio, intervenissi con insulti, calunnie, profanazioni. Gente innocente e ingenua come per esempio l’attore ebreo Lowy dovettero subire questo trattamento. Senza conoscerlo Tu lo confrontasti, con parole terribili, che ho già dimenticate, a un insetto ripugnante (…) Dell’attore ho un ricordo più vivo perché allora annotai le tue critiche a suo riguardo con le parole: ‘Così parla mio padre del mio amico (che non conosce) solo perché è mio amico. Potrò sempre rinfacciarglielo quando lui mi rimprovererà mancanza di amore filiale e di gratitudine’. Mi è sempre stata incomprensibile la Tua mancanza di sensibilità per la sofferenza e l’onta che sapevi infliggermi con le Tue parole e giudizi; era come se Tu non avessi idea del Tuo potere…”. Come non ricordare Gregorio Samsa, il commesso viaggiatore (La metamorfosi 1915-1916) destinato a portare il padre sulle spalle come un enorme parassita e trasformato in insetto?

[15] Cfr. in K. Wagenbach, op. cit., pp.180-181

[16]Nessuno è giusto davanti a Dio, nessuno è puro davanti al suo creatore./ Dio non conta neppure sui suoi servitori celesti, trova difetti anche nei suoi angeli;/ tanto più ne trova negli uomini che abitano in case d’argilla, con le fondamenta nella polvere.’ (Giobbe, cap.4, vv.17-19).

[17] Cfr. R. Cantoni, in Prefazione a F. Kafka, Lettere a Milena, trad. it.,Mondadori, IV Ediz., Milano 1966, pp. 25-26. Forse l’ esitenzialista Remo Cantoni scambia Marcione e i marcioniti per gnostici. In realtà, Marcione (Sinope, Ponto 85 ca.-Roma 160 ca.) fu un eretico di formazione cristiana che nel 140 giunse a Roma dove fu discepolo dello gnostico siriaco Cerdo. La sua dottrina, espressa nel commento alla Sacra Scrittura Anthitesis, di cui possediamo solo pochi frammenti, contrappone il Dio dell’Antico Testamento, autoritario e vendicativo, al Dio del Nuovo Testamento, buono e misericordioso, rivelato da Cristo. Questo dualismo avvicina Marcione allo gnosticismo da cui però si differenzia per l’assenza delle più complesse speculazioni caratteristiche della gnosi. Redasse un proprio canone di libri sacri, respingendo l’Antico Testamento e accettando del Nuovo solo il Vangelo di Luca e dieci lettere di Paolo, espurgate dei passi ritenuti troppo giudaizzanti. Nel 144 si separò dalla Chiesa di Roma costituendo una propria comunità solidamente organizzata con vescovi e presbiteri.

[18] Cfr. F. Kafka, Il Giudizio, in I racconti di Kafka, trad.it. di H. Furst, Longanesi, Milano 1965, p.36

[19] Scrive J. Hillman: “ Fiducia e tradimento non costituivano un problema per Adamo, quando passeggiava in compagnia di Dio al crepuscolo. L’immagine del giardino come inizio della condizione umana esemplifica quella che si potrebbe chiamare la ‘fiducia originale’ (…) Questa situazione di fiducia originale, espressa nell’immagine archetipica dell’Eden, si riproduce nella vita individuale di ciascun bambino e genitore. Come nel principio Adamo, con la sua fede animale, si fida di Dio, così il ragazzino nel principio si fida di suo padre (…) Ma non siamo più nell’Eden. Eva ha posto fine a quella nuda dignità. Dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, la Bibbia registra una storia infinita di tradimenti di ogni genere (…) per culminare con il mito centrale della nostra cultura: il tradimento di Gesù (…) quella nostalgia della fiducia originale, la nostalgia dell’unità con il vecchio Sé saggio, dove io e il Padre siamo una cosa sola, senza l’interferenza di Anima, è tipica del Puer aeternus, colui che sta dietro a tutti gli atteggiamenti adolescenziali. Il Puer non vuole mai essere cacciato dall’Eden…” (Cfr. J. Hillman, Puer aeternus, trad. it. di A. Bottini, Adelphi, III Ediz., Milano 1999, pp.14 e ss.

[20] La Teurgia ebraica si distingue dalla Magia, pure praticata in ambiente giudaico, perché il suo quadro di riferimento è la religione biblica e il rispetto di un rituale predeterminato, inoltre la Teurgia, a differenza della magia, non opera a vantaggio personale ma per il bene del cosmo e dell’umanità. Mopsik individua cinque forme di azione teurgica negli scritti dei primi kabbalisti: 1)(azione) instauratrice (esempio: Genesi 28:20-22, Levitico 26:3-13, Esodo 29:42-46 ecc…) 2) restauratrice (Genesi 8:18-22 ecc…) 3) conservatrice (Le offerte dei sacrifici) 4) amplificatrice(“Benedetto il suo nome…”, la formula sembra in grado aumentare la potenza (Gevourah) di Dio. 5) attrattiva (attrazione della Shekinah, esempio: Esodo 25:8, La Lettera sulla santità ecc..). Un certo intento teurgico è anche presente nella tradizione rabbinica, infatti, oltre a coloro che ritengono impossibile per l’uomo aumentare la potenza divina, ci sono anche coloro che ammettono che un comportamento umano conforme alla Legge, lo studio della Torah ecc.. siano in grado di accrescere la presenza di Dio nel mondo. Sull’intera questione della teurgia nella Qabalah, cfr. C.Mopsik, Les Grands Textes de la Cabale, Verdier,1993, pp.18-71.

[21] Cfr. F. Kafka, Quarto quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.143

[22] Sugli aiutanti dei romanzi di Kafka così scrive Walter Benjamin (Angelus Novus, trad. it., Mondadori 1995, pp.280-281): ‘Questi aiuti appartengono a un ciclo di personaggi che attraversa tutta l’opera di Kafka. Della loro razza è l’acchiappagonzi che viene smascherato nella Contemplazione, come lo studente che appare la notte sul balcone vicino a quello di Karl Rossmann, come i pazzi che abitano in quella città del sud e non si stancano mai. La loro esistenza crepuscolare fa pensare alla luce incerta in cui appaiono i personaggi dei racconti brevi di Robert Walser: autore del romanzo L'aiutante, carissimo a Kafka. Le saghe indiane hanno i gandharva, creature incompiute, esseri allo stato nebuloso. Del loro tipo sono gli aiutanti di Kafka; che non appartengono, ma neppure sono estranei, a nessuno degli altri ambienti; messaggeri che comunicano fra un gruppo e l’altro’.

[23] “(…) e allora l’angoscia si trasformava in ilarità, come il Baal Shem e i suoi seguaci da atterriti perseguitati si trasformavano, grazie alla loro fede estratta dal nulla, in danzatori, onde si spiega che delle pagine sull’orrore puro all’inizio del Processo fosse possibile la lettura di cui parla Thomas Mann: ‘La biografia ci dice che mentre Kafka leggeva ad alcuni amici l’inizio del Processo, gli astanti risero sino alle lacrime, particolarmente dove è questione della Grazia; e l’autore stesso rise fino alle lacrime. Profonda complicata ilarità’.” (E. Zolla, Prefazione a Confessioni e immagini, cit., p.23). A Zolla e Thomas Mann fa eco Klaus Wagenbach (op.cit., p.153): ‘L’ironia kafkiana, di cui riferiscono molti dei suoi amici, discendeva, in modo tutto naturale, dal suo atteggiamento distaccato di fronte al mondo’.

[24] Cfr. K.E. Groezinger, op. cit., p.19

[25] Cfr. in W. Benjamin, op.cit., p. 292

[26] Cfr. F.Kafka, Terzo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.112. il corsivo è mio.

[27] Cfr. E. Zolla, in Prefazione a Confessioni e immagini, cit., p.19

[28] Cfr. F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Confessioni e immagini, cit., p.59

[29] Ibidem, p.62

[30] Ibid., p.118. A tale proposito Groezinger (op.cit., p.176) sostiene che Kafka, sulla scia del Maggid di Mesritsch (1710-1772) grande figura della mistica chassidica, ritenga impossibile cibarsi dell’albero della vita fintanto che si sia dotati di individualità corporea, cioè di ‘io’. E’ appena il caso di osservare che coloro che si dicono convinti di cibarsi dell’albero della vita, stanno in realtà continuando a cibarsi dell’albero della conoscenza del bene e del male, rinnovando così costantemente il peccato di Adamo.

[31] Ibid., p.122

[32] Cfr. E. Zolla, op. cit., p.15

[33] Cfr. W. Benjamin, op.cit., p.292

[34] Isacco il Cieco (1160-1235) fu il primo grande maestro delle scuole storiche di Qabalah che operarono in Provenza e in Catalogna, in un clima di grande sviluppo culturale delle comunità ebraiche. Fu detto il Chassid (il pietoso) o il Cieco (possedeva un ‘eccesso’ di luce) o il Parush o il sagghì-nahòr (ricco di luce) e fu uno tra i maggiori peruschim. I perushim provenzali studiavano quasi senza interruzione, praticando digiuni e astenendosi dalla carne e dall’alcool. Si reclutavano tra i primogeniti e preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi. Huqe ha-Torah, un documento provenzale, descrive la vita che si svolgeva in questi centri (devozione al maestro, piccoli gruppi di studio, diversificazione dei livelli di apprendimento, massima stimolazione per facilitare la libera espressione e il dibattito tra i discepoli, ecc…).

Una delle prime indagini di Isacco sembra riguardasse il nome divino: “Il giorno in cui YHWH Elohim fece il cielo e la terra, il nome non era intero, finché l’uomo non fu creato a immagine di Dio e il Sigillo non fu completo.” (Genesi 2:4). A questa speculazione si collega quella sul male, introdotto con la frattura del Nome, che torna ad essere incompleto com’era prima della creazione dell’uomo. Il riferimento è in Esodo,17:7: ‘Vedremo se il Signore è con noi o no’. Dopo l’uscita dall’Egitto venne Amalek, capo degli Amaleciti, beduini del sud di Canaan: ‘la mano di Amalek si levò sopra il trono di Y(a)h’ e Isacco descrive la lotta di Mosé contro l’Arcangelo di Amalek: ‘Mosé. dovette ricorrere all’elevazione delle mani per lottare contro l’Arcangelo e respingere le sue mani dalla sephirah Ghevourah’. Aron e Chur sostengono le mani di Mosé e Israele può vincere, ma il male si è generato e l’inevitabile conseguenza è la distruzione del Tempio e l’esilio. Il Nome non potrà più essere pronunciato. Un’altra conseguenza è il ritrarsi delle Sephiroth superiori ‘in Alto’. La lettera di Isacco il Cieco ai rabbini di Girona ( per il testo integrale cfr. G.G.Scholem, Le Origini della Kabbalà, Bologna 1990, pp.488-489) attesta del carattere esoterico della scuole da lui ispirate. Egli si occupò ancora di preghiere, di luce e di tenebra, delle Sephiroth dell’Albero della vita e dei 32 Sentieri, di Kavanah (meditazione) e di Deveqùth (communio), della catena degli esseri, di simpatia universale. Assai prima della Qabbalah luriana, parlò della trasmigrazione delle anime, limitandola a tre ritorni, come si annuncia in Giobbe 33:29: ‘Tutto ciò Dio la fa tre volte in un uomo:ricondurre l’anima dalla sua putrefazione, affinché essa brilli nella luce della vita’. Isacco anticipò inoltre il tema dei cicli cosmici o shemittoth del Sepher Temunà (con riferimento anche alla trasmigrazione animale) e il tema della luce del Sepher Iyyùn (luce e tenebre scaturiscono dall’Oscurità primordiale, cfr. Luz n.1, pp.3-12). Tra le sue opere: un commento del Sepher Yetzirah, circa 70 frammenti sulla mistica della luce e sui segreti (sodot) della Torah, e qualcuno gli attribuì anche il Sepher Bahir. Testo fondamentale della Qabbalah, il Bahir appare in Provenza tra il 1150 e il 1200 proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Le sue fonti riconducono al Sepher Yetzirah, alle opere dei Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo, al misticismo della Merkavà e in particolare al libro,andato perduto, ma ripetutamente citato soprattutto da autori caraiti, il Razà Rabbà o Il Grande Mistero, composto tra il V secolo e il secolo VIII e che rappresenta una fase più tardiva di quella dei testi più importanti della Merkavà. Il contenuto magico e angelologico di questo libro è attestato da tutti e sarebbe parte di quella Gnosi ebraica che –a giudizio dello Scholem (cfr.G.G. Scholem, Le Grandi Correnti della Mistica Ebraica, il melangolo, Genova, 1990)- deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Analizzando il Sepher Bahir, si può osservare come il giudizio dello Scholem possa essere addirittura rovesciato e portare alla conclusione, sostenuta da più di uno studioso, di una derivazione dello Gnosticismo dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette ebree’(Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.

Sotto la spinta di Isacco il cieco, nel 1230 sorge il gruppo cabbalistico di Girona: la Chaburah qedoshah o Associazione Sacra, vero e proprio punto di riferimento per la diffusione dell’ebraismo e della Qabalah in tutto il Mediterraneo. A quanto pare, Isacco il cieco soleva affermare che la ‘diversità ebraica’ consisteva nella pratica di una ‘filosofia esoterica’ basata sullo studio e sulla conoscenza e non su una religione unicamente ispirata dalla fede e dal sentimento.

[35] Cfr., in W. Benjamin, op. cit., p.280, che riferisce di un colloqio tra Kafka e Max Brod narrato da quest’ultimo. “Ciò –aveva osservato Max Brod- dapprima mi fece pensare alla visione del mondo della gnosi: Dio come cattivo demiurgo, il mondo il suo peccato originale. ‘Oh no’, egli disse, ‘il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una cattiva giornata’.” Ciò che esclude ampiamente l’ipotesi di Kafka ‘marcionita’ proposta, come si diceva sopra, da Remo Cantoni.

[36] Cfr.in K. Wagenbach, op.cit., p.185

[37] Cfr. Luz n.1, p.4, nota 3

[38] Il citato libro Kafka e la Cabbalah riporta ampi brani del Reshit Chokmah.

[39] Cfr. K.E. Groezinger, op.cit., pp.43 e ss.

[40] “Abbiamo un nuovo avvocato, il dottor Bucefalo. Esteriormente poco rammenta il tempo in cui era ancora cavallo di battaglia di Alessandro di Macedonia. Certo chi conosce bene le circostanze, nota alcuni particolari. Eppure vidi ultimamente sulla scalinata esterna persino un semplicissimo usciere del Tribunale ammirare l’avvocato con lo sguardo professionale del piccolo frequentatore delle corse, mentre costui, tirando su i piedi con un passo che risonava sul marmo, saliva di gradino in gradino”. (F. Kafka, I Racconti di Kafka, cit., p.145)

[41] Su Ytzchàq Luria Ashkenazi (1534-1572), figura centrale della nuova Qabalah, cfr.G.G.Scholem, La Cabala, trad.it., Roma 1989, pp.80-86 e dello stesso autore, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il saggiatore, Mondadori, Milano 1965, cap.VII.

[42] Ghilghul l w g l g = 72, come i nomi di Dio e come Chesed d s j grazia, quarta sephirah dell’Albero. Il Ghilghul è insieme lo strumento divino della misericordia e del giudizio. Essere nel Ghilghul significa aver subito la condanna del tribunale celeste ma trovarsi anche nella condizione di poter emendare le proprie colpe. Per tale scopo, uno spirito può incarnarsi di nuovo nei figli o nei familiari, ma anche in corpi di esseri a lui estranei, umani o di animali. Con una differenza rispetto alla tradizionale concezione della reincarnazione: qui lo spirito non si dà necessariamente un corpo nuovo ma può coabitare con altri spiriti in corpi che spesso gli sono congeniali per affinità genetica.

[43] Cfr. F. Kafka, Considerazione cinquantaquattresima, in Confessioni e immagini, cit., p.64. Il corsivo è mio.

[44] Cfr. F. Kafka, Terzo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.118. Il corsivo è mio.

[45] Cfr. W. Benjamin, Lettere 1913-1940, trad. it., Milano 1978, p.380

[46] Cfr. K.E. Groezinger, op.cit., pp.64 e ss.

[47] Cfr. F. Kafka, Racconti, trad. it., di G. Zampa, Feltrinelli, VI Ediz., Milano 1965, pp. 137-139.

[48] Cfr. K. E. Groezinger, op.cit., p.59

[49] Secondo la tradizione, Lilith fu creata da Dio per far compagnia ad Adamo, prima ancora di Eva. Senonché “Adamo e Lilith non ebbero mai pace insieme, perché quando egli voleva giacere con lei, la donna si offendeva per la posizione impostale: ‘Perché mai devo stendermi sotto di te?’ chiese. ‘Anch’io sono stata fatta di polvere e quindi sono tua uguale’. Poiché Adamo voleva ottenere la sua ubbidienza con la forza, Lilith irata mormorò il sacro nome di Dio, si librò nell’aria e lo abbandonò” (Cfr. R. Graves – R. Patai, I miti ebraici, trad. it., TEA, Milano 1998, p. 79). Da Lilith, divenuta prostituta del diavolo, nacquero i lilim. Sull’intera tradizione di Lilith e sulle fonti che la ispirano cfr., op.cit., pp. 11, 78-84, 124, 127; e inoltre G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp.145-149. Si osservi che una ghematria di Lilith t y l y l è Pot t p con lo stesso valore numerico di 480 e che in ebraico è l’organo sessuale femminile, quasi a indicare l’alienazione demoniaca del rappresentare la donna come vagina.

[50] Cfr. supra

[51] Cfr. F. Kafka, Il processo, cit., p.103

[52] Ibidem, p.104

[53] Ibidem, pp.105-106

[54] “Così passarono ore, ore di palpito comune e di comune respiro; ore durante le quali K. ebbe l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato. In una terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva fare altro in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi (…) era troppo felice di tenere Frida tra le mani, troppo ansiosamente felice anche perché gli sembrava che se Frida lo abbandonava, tutto quello che possedeva al mondo l’avrebbe abbandonato (…) ma K. si alzò, si inginocchiò accanto a Frida e si guardò intorno nella mezza luce grigiastra che precedeva l’alba. Che cosa era accaduto? Dov’erano le sue speranze? Che cosa poteva aspettarsi da Frida, poiché tutto era svelato?” (cfr. F. Kafka, Il castello, cit., pp.73-74)

[55] Abramo aveva visto sul proprio zodiaco che non avrebbe avuto figli. Venne il Signore e disse: ‘Guarda verso il cielo e conta le stelle, se pure riesci a contarle tutte, così sarà la tua progenie’ (Genesi XV, 5)

[56] Ghevurah o Din o Pachad (Potenza, Giudizio e Terrore) sono gli attributi della quinta sephirah dell’Albero

[57] Cfr. in K.E. Groezinger, op. cit., p.28. In proposito e per ciò che si riferisce alla nota precedente, si veda ancora il libro di Giobbe: ‘Dio onnipotente mi ha colpito con le sue frecce, e io sono pieno del loro veleno. Egli mi assale e mi terrorizza’(6:4) e ancora: ‘Tu, o Dio, mi terrorizzi con gli incubi e mi spaventi con le visioni’ (7:14) e infine: ‘Signore, perché dai importanza all’uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova?’ (7:17-18)