martedì 21 dicembre 2010

Narrativa e Qabalah : KAFKA

'Tutto è fantasia: la famiglia, l'ufficio, gli amici, la strada: fantasia, lontana o vicina, la donna; ma la verità più prossima è che tu premi la testa contro il muro di una cella senza finestre e senza porte”.

Così Franz Kafka annota nei Diari e meglio non potrebbe descrivere il proprio modo di vedere la realtà e di rappresentarla nell'unico universo possibile: quello letterario. Già, perché -a pensarci bene- gli altri e le cose non sono altro che le rappresentazioni che ne abbiamo: opere di fantasia di un prigioniero solitario. Fantasmi che sono reali e che per questo si propongono a noi con angoscia e senso del grottesco. ‘La disgrazia di Don Chisciotte -scrive Kafka- non è la sua fantasia, è Sancio Pancia [1]. La vera disgrazia di ogni uomo è il sacrificio della fantasia a vantaggio di una realtà impermanente.

Il male radicale e universale che ispira l'opera kafkiana è in quella deiezione o caduta originaria che estranea l'uomo dall'Uno-Tutto e che gli lascia solo la speranza di una improbabile risalita. L’estraneità dell'uomo nel mondo si riflette già all'interno del nucleo familiare, come Kafka stesso confessa e come capita a Gregorio Samsa, il commesso viaggiatore che nel racconto Metamorfosi diventa insetto: “Nel destarsi, un mattino, da sogni inquieti, Gregorio Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto. Giaceva sul dorso duro come una corrazza e, appena alzato il capo, scorse un addome carenato, scuro, traversato da numerose nervature...” [2]

Il cammino a ritroso è votato allo scacco, come ci mostrano gli inutili tentativi del protagonista, sia nel Processo che nel Castello. La soluzione è forse nella comprensione del reale significato del motto delfico. Kafka scrive: “Conosci te stesso non significa: osservati. Osservati è la parola del serpente. Significa: fatti padrone delle tue azioni. Ma tu lo sei già, sei padrone delle tue azioni. Questa frase, pertanto, significa: ignòrati! Distruggiti! Dunque una cosa cattiva. E solo chi si china profondamente ne ode anche il messaggio buono, che dice: Per fare di te stesso quello che sei[3]

Nel romanzo America scritto tra il 1912 e il 1914 e lasciato incompiuto, colpa e responsabilità del protagonista sembrano avere una base oggettiva ancorché paradossale. Karl Rossmann è un ragazzo tedesco di sedici anni che i genitori condannano all'esilio negli Stati Uniti per essersi lasciato sedurre da una cameriera e averne avuto un figlio. Inaspettatamente, al suo arrivo a New York, egli trova ad attenderlo uno ‘zio d'America’, un ricco senatore che lo sottrae così alla povertà e al vagabondaggio. Ad avvertire lo zio Jakob non sono stati i genitori -come ci si attenderebbe- bensì la cameriera che l'ha sedotto. Come Leni del Processo e Frida del Castello, la donna è la presenza soccorritrice e l'intermediaria di un potere sfuggente e incomprensibile, come incomprensibile è la decisione che lo zio Jakob annuncia tempo dopo al nipote in una lettera: “Caro nipote! Come avrai avuto occasione di accorgerti durante la nostra vita in comune, purtroppo così breve, io sono anzitutto un uomo di princìpi. Quest'è una cosa difficile e penosa non solo per coloro che mi stanno vicino, ma anche per me. Ma io devo ai miei princìpi tutto quello che sono, e nessuno può pretendere che io rinneghi la mia stessa esistenza a questo mondo (...) bisogna assolutamente che io ti allontani da me dopo quello che è successo oggi e ti prego insistentemente di non venirmi a cercare direttamente e di non tentare di metterti in rapporto con me, né per lettera né per mezzo di intermediari” [4]

Karl è in realtà innocente, come innocenti sono Gregorio Samsa, Josef K. nel Processo o l'agrimensore K. nel Castello. Pure, se c'è una colpa che li accomuna, è la loro ‘rigidità’, la loro incapacità di abbandonarsi totalmente alla Shekinah, questa misteriosa e femminile presenza dell'Alto che inutilmente li soccorre.

Scritto tra il 1912 e il 1917, riordinato per la stampa da Max Brod un anno dopo la morte di Kafka, Il Processo inizia con l'arresto di Josef K. senza motivo apparente di colpa. Per la verità, si tratta di uno strano arresto che gli consente di continuare nel suo lavoro di procuratore di una grande banca. La prima udienza è fissata di domenica e senza orario in un grande caseggiato dei sobborghi. Arrivando, Josef K. scorge all'ingresso dell'edificio, seduto su una cesta, un uomo scalzo che legge un giornale. Nel cortile interno due ragazzetti fanno l'altalena su un carrettino mentre alcune persone si danno da fare per fissare tra due finestre una corda con biancheria da asciugare:

“K. si diresse verso la scala per raggiungere la stanza della commissione d'inchiesta, ma subito si fermò, perché oltre a quella scala ce n'erano nella corte altre tre, e per di più, in fondo alla corte, si vedeva un piccolo passaggio che doveva condurre a un secondo cortile (...) Alla fine si decise a imboccare la prima scala, e nel suo pensiero si risvegliava il ricordo delle parole del guardiano Willem che la legge è attirata dalla colpa, per cui si poteva concludere che anche la stanza della commissione d'inchiesta doveva trovarsi sulla scala che K. aveva scelto a caso.” [5]

In quel labirinto e prima di trovare la stanza giusta, Josef K. vede ragazzetti con visi di furfanti che lo trattengono per i calzoni, donne con lattanti in braccio, ragazzette mezze svestite, malati e ogni genere d'umanità. Tutto l'intreccio del romanzo si svolge in un'atmosfera insieme di angoscia e di sottile ironia. Non a caso Thomas Mann ricorda il riso sfrenato degli amici di Kafka subito dopo aver ascoltato la lettura del primo capitolo del romanzo. Né minore ilarità suscita la filosofia che ispira le decisioni del Tribunale e che Kafka, laureato in Legge, ben doveva conoscere.

Più complessa e strutturata è la storia dell'agrimensore K. nel Castello. Qui, la colpa si manifesta nell'impossibilità radicale di raggiungere sia il Castello sia il signore che lo abita. L'angoscia è la stessa ma avvolge il lettore con minore intensità rispetto al Processo. Il labirinto che impedisce la comunicazione non è più il mondo tentacolare del tribunale, ma quello ben più esilarante e ineffabile della burocrazia dove si apprende che ‘Uno dei princìpi che regolano il lavoro dell’amministrazione è che non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio’[6]e che ‘le decisioni dell'amministrazione sono timide come ragazzine’ [7]

La radice ebraica di cui maggiormente sembra compiacersi Kafka è quella che risale all’albero genealogico di sua madre Julie Lowy [8] e in particolare al trisavolo Isaak Porias di cui lo scrittore praghese racconta nei Diari che fu uomo dotto e pio, ugualmente stimato da ebrei e cristiani, per la sua devozione miracolosamente scampato a un incendio. Esemplare per devozione, dottrina e fedeltà alla Torah fu anche il bisnonno Adam Porias, rabbino e circoncisore della comunità ebraica nonché stimato commerciante di stoffe [9]. E’ certo, tuttavia, che l’ebraismo in Kafka restò per anni come ‘assopito’ se non addirittura vissuto nella noia di tradizioni che egli giudicava formali e quasi meccaniche, ma il suo ‘cuore ebraico’ si destò improvvisamente nei due anni (1910-1911) in cui gli capitò di vedere le rappresentazioni di un teatro yiddish al Savoy di Praga. Per un paradosso che fa di Kafka a un tempo lo scrittore ebreo, più radicato nella tradizione di quanto non si creda e insieme l’uomo universale, fu proprio il teatro a scuoterlo dalla pigrizia con cui aveva sempre riguardato i fenomeni religiosi. Come Kafka stesso ricorda nell’ultimo degli Otto quaderni in ottavo, ‘un bambino ebreo non deve nemmeno sapere che esista un teatro’ [10], perché il teatro è cosa proibita e da lasciare ai cristiani e ai peccatori. L’unica rappresentazione teatrale ammessa era quella del giorno di Purim [11], ‘quando –osserva ancora Kafka nei Quaderni tra realtà e finzione letteraria- mio cugino Chaskel s’incollava una lunga barba nera sulla sua esile barbetta bionda, si metteva il caffettano alla rovescia e recitava la parte di un allegro mercante ebreo’ [12]. La vista del teatro yiddish ha su di lui l’effetto quasi di una rivelazione: “Tutto sommato, quello spettacolo mi piacque più che l’opera, il teatro di prosa e l’operetta messi insieme. Innanzi tutto vi si parlava yiddish, uno yiddish germanizzato ma pur sempre yiddish, uno yiddish migliore, più bello; e poi qui c’era tutto insieme: dramma, tragedia, canto, commedia, danza, tutto insieme, la vita! Tutta la notte non potei dormire per l’eccitazione, il cuore mi diceva che anch’io, un giorno, avrei servito nel tempio dell’arte ebraica, sarei diventato un attore ebraico” [13]. Ciò è tanto più sorprendente perché egli conosceva appena lo yiddish anche se una volta per tranquillizzare gli spettatori di una recita serale in yiddish in onore dell’attore e amico Jizschak Lowy,[14] egli affermò che nella comprensione ‘oltre alle conoscenze agivano anche delle forze e delle connessioni con forze che rendono capaci di sentire il significato del gergo’[15].

Lo spazio limitato non mi permette di seguire le tappe di questa progressiva ‘evoluzione ebraica’ di Kafka e, del resto, quel che mi preme sottolineare è piuttosto che l’intero universo letterario di Kafka si disegna tra la speranza teurgica propria della Qabalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere finalmente il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla Sua ‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per Giobbe [16], non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti. Scrive in proposito Remo Cantoni: “ Nella sua opera descrisse l’odissea illogica di un uomo estraneo dal mondo e dalla speranza. E questo uomo era lui stesso. Ma in questa immagine della coscienza angosciata e nullificante milioni di uomini videro la propria immagine e sentirono narrare la propria storia. Kafka è il testimone di ciò che il mondo non deve essere. Come Marcione e i marcioniti Kafka non accettava l’ottimismo della teodicea comune. Il suo Dio –se un Dio aveva- era assai simile al Dio vendicativo e crudele dell’Antico Testamento, a quella potenza inferiore che, per Marcione, ha creato il mondo limitato, pieno di miserie e controsensi in cui dobbiamo vivere. Per Marcione vi era un Dio infinitamente più alto del Dio creatore. Questo Deus superior et sublimior è il Dio ignoto al mondo, il Dio straniero. Forse anche per Kafka vi era un Dio redentore sconosciuto. Qualche raro barlume di questa redenzione irradia dal mistero. Ma la sola cantica che Kafka ha scritto è l’inferno” [17]. Non condivido neppure una riga di questa analisi che pure ebbe fortuna nella critica kafkiana, alimentata anche dal facile accostamento tra Dio e il Padre. E il padre nell’universo letterario di Kafka come nella realtà è sempre colui che punisce. Nel racconto breve del 1913, Il Giudizio, Georg Bendeman è spinto dalla maledizione paterna: ‘io ti condanno ora alla morte per annegamento!’ [18]a cercare l’improbabile ‘salvezza’ nei gorghi di un fiume. Che cosa esattamente punisce il padre nel figlio? La vita che è fuori di lui. E il figlio risponde col tradimento[19]. E’ questo l’anello della catena che si perpetua dalla ‘caduta’ di Adamo ed è questo anello che Kafka ci invita a spezzare.

La Qabalah nello svelarci il progetto divino del mondo, individua nella teurgia[20] lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia [21] E questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento, come ha giustamente osservato Groezinger in Kafka e la Cabbalà, è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo dove è il Rebbe, lo Tzadik ad intercedere per la comunità. L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio del Castello si rivela illusorio quando non addirittura fuorviante[22]. Eppure, ciò che Groezinger non dice nella sua pur pregevole opera, è che questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo né è vissuto da Kafka con particolare angoscia, ché, piuttosto, si converte in ironia e in ilarità[23], perché l’angoscia intollerabile di cui parlò André Gide s’impadronisce solo dei lettori e deve servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su… come osserva Groezinger[24], bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang: “Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto –in termini teologici- che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”[25]. A sostegno di tale interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka contenuti negli Otto quaderni in ottavo, a cominciare dal più breve di tutti: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato[26] che Elémire Zolla riconduce al chassid Rabbi Pinchas citato da Martin Buber: “Ciò che si caccia non si ottiene: ma ciò che si lascia avvenire e divenire, questo corre a noi”[27]. E se ciò non bastasse si veda la Considerazione terza: ‘Esistono due peccati capitali, nell’uomo, dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. E’ l’impazienza che li ha fatti cacciare dal paradiso, è per colpa dell’ignavia che non ci tornano. Ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. E’ a causa dell’impazienza che sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non tornano’[28]. Oppure la Considerazione trentottesima: ‘Un tale si stupiva della facilità con cui percorreva la via dell’eternità; in effetti, la stava volando giù in discesa’[29]. E tornando ai Quaderni in ottavo: ‘Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa’[30]. E ancora: ‘Prima di entrare nel Sancta Santorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe soltanto, bensì tutto, abito da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quanto c’è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di essa, e poi il midollo e il midollo del midollo, e poi il rimanente e poi il resto e poi ancora il riflesso del fuoco eterno. Solo il fuoco stesso verrà risucchiato dal Santissimo e si lascia da lui risucchiare, a nessuno dei due si può resistere’[31].

Che Kafka sia ‘l’ultimo grande scrittore chassidico e cabbalistico’ [32] è giudizio, tuttavia, che non mi sento di condividere in pieno con Zolla, perché Kafka non fu cabbalista né chassid e perché ritengo fondata l’analisi di Walter Benjamin per il quale ci sono ‘due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka. Uno è l’interpretazione naturale, l’altro è quello soprannaturale: l’una e l’altra –l’interpretazione psicanalitica come quella teologica- trascurano del pari l’essenziale’ [33]. E l’essenziale è che Kafka fu troppo poco devoto per essere un chassid e assai poco filosofo e teurgo per essere un cabbalista. L’En Soph, il Nulla che fa ‘tribolare’ i discepoli di Isacco il Cieco[34] perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano pensieri nichilistici, pensieri di suicidio[35]. La verità è che il cliché teologico esclude tutta la complessa trama dei rapporti ‘intermedi’ di cui abbondano i romanzi e i racconti di Kafka e non tiene neppure conto di Kafka ebreo e allo stesso tempo uomo universale, che si sente a casa nell’ascolto dei racconti chassidici, ma che poi ha bisogno di uscire e che di volta in volta si innamora di Spinoza, di Darwin, di Nietzsche, che legge le opere di Kierkegaard, si entusiasma per la prosa di Flaubert e si accende per i versi di Goethe, di Kafka che già in una lettera del 1903 dichiara ‘Dio non vuole che scriva, io però, io devo’ [36]. Quanto all’interpretazione di segno opposto, la naturale, cosiddetta, o psicoanalitica, mi sembra persino riduttivo il confutarla perché è talmente vera nell’‘uomo Kafka’, quanto è così poco credibile nel ‘Kafka scrittore’.

La lettura attenta del libro di Groezinger, mi convince sempre più che Kafka utilizzò a piene mani racconti chassidici e concezioni cabbalistiche. Questo è soprattutto vero per il Processo, dove il tema del giudizio richiama espressamente le opere della tradizione come lo Zohar [37] e il Reshit Chokmah (Il principio della saggezza) [38]del cabbalista Eliya de Vidas. Neppure è da escludere, come è propenso a credere il Groezinger, che il Processo debba essere inteso alla luce della teologia ebraica del Giudizio propria delle feste ebraiche d’autunno e culminanti nello Yom Kippur o giorno di espiazione e di purificazione [39]. Tutto vero e se qualcuno ne dubita gli basti confrontare i testi della tradizione con ampie parti della prosa di Kafka. Ciò detto, tuttavia, siamo sicuri che si tratti proprio della stessa cosa? O non è piuttosto vero che l’itinerario seguito per raggiungere il Castello deve essere abbandonato? E la difesa adottata durante il Processo, lasciata cadere?

C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo avvocato [40] per la trasposizione romanzesca del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di Luria[41], chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul?[42] Altri racconti, come Un incrocio,Una relazione accademica o Il cacciatore Gracco lo testimoniano espressamente. Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce per essere, fatalmente, la dimensione umana di vivere il sacro. E non solo il sacro, spesso ogni rapporto per noi importante. Dietro il sorriso, tuttavia, non c’è l’amara consapevolezza romantica, l’inadeguatezza della condizione terrena o il rimpianto per il paradiso perduto perché –osserva Kafka- ‘ciò che definiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione’ [43] e ancora: ‘noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perché se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere’ [44].

Poco importa allora sapere se il riso è il sigillo che Kafka appone sulla tradizione o se, come sostiene Walter Benjamin, ‘troverebbe la chiave per comprendere Kafka chi riuscisse a individuare gli aspetti comici della teologia ebraica’ [45]. Prendiamo i romanzi e si vedrà subito, come già si è visto a proposito del ghilghul, come siano rivisitate da Kafka alcune tradizionali dottrine della Qabalah. La fisiognomica, per esempio, o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra. Su ciò non mi soffermerò a lungo perché l’argomento è stato ampiamente trattato dal Groezinger [46]. Ma, ciò che mi preme sottolineare è il clima nel quale si svolge il colloquio: il lettore, anche quello meno distratto, non si sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabalah, egli è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato. Ecco una modalità kafkiana di ‘acchiappare’ insieme il visibile e l’invisibile. Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto Davanti alla legge, ripreso anche nelle ultime pagine del Processo, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “ Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo.’ [47].

Dove ha fallito l’uomo di campagna? La risposta è nel Talmud ci ricorda Groezinger [48]. ‘Uomo di campagna’ è definito nel Talmud chi non studia e non conosce la Torah. Ma c’è un’altra risposta. ‘E’ la solita storia –direbbe Kafka- quest’uomo s’è messo in fila, ha sperato, ha pregato, ha lottato sino all’ultimo cercando di passare con ogni mezzo, lecito e illecito, senza accorgersi che il posto cui aspirava gli era stato già riservato’.

Il cabbalista teurgo fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar e gran parte dei libri della tradizione assegnano simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Naturalmente, ciò non significa che ogni donna rappresenti la Shekinah. Al contrario, la donna nella tradizione ebraico-cabbalista è talora vista come immagine di Lilith [49]. Sulla scia di altri autori, Groezinger coglie la stessa ambivalenza nelle donne dei romanzi di Kafka, ma non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto ai protagonisti, anche se poi si dimostra poco propenso ad approfondire l’argomento.

Sappiamo già cosa Kafka pensi di questi aiuti[50]. Neppure l’avvocato Huld, che in ebraico significa grazia, con riferimento alla sephirah Chesed, sembra in grado di salvare Josef K. nel Processo. Sin dal primo approccio traspare qualche difficoltà. L’avvocato abita in una casa scura e ciò che fa subito dire è di essere ammalato. Quando finalmente appare a Josef K. e a suo zio, l’avvocato Huld giace sofferente di cuore in un letto e Leni, la segretaria-amante dice che egli, per le condizioni di salute, non può trattare nessun affare. La cosa in apparenza più paradossale è che l’avvocato quando si avvede della presenza di Josef K. e capisce che il vecchio amico non è venuto ‘per fare visita ad un malato, ma per affari’, si rianima come per incanto e, con grande sorpresa di Josef K., mostra di conoscere già tutto sul processo. Ma l’impressione più interessante che si ricava da questo primo incontro con Huld-grazia è che l’avvocato potrà fare ben poco per Josef K. e che se un aiuto verrà, questo sarà opera di Leni-Shekinah. Dunque l’aiuto femminile si rivela come un aiuto speciale che, se non conduce a salvezza, è tuttavia di gran conforto.

Il primo ‘aiuto’ di Leni è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio, l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo introduce nello studio dell’avvocato e gli procura la visione di ‘un uomo in veste di giudice, seduto su un’alta poltrona simile a un trono, la cui doratura spiccava molto nel quadro. La cosa strana era che il giudice non sedeva dignitoso e immobile, ma, mentre poggiava il braccio sinistro sulla spalliera, teneva il destro completamente libero, appoggiandosi solo colla mano al bracciuolo come se da un momento all’altro dovesse balzare su con un moto impetuoso e forse adirato, per dire qualcosa di decisivo o per pronunciare forse la sentenza. Si poteva immaginare l’accusato ai piedi della scala, i cui ultimi scalini, ricoperti di un tappeto giallo, si vedevano sul quadro.’ [51]. E’ ancora Leni a suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo: ‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore, non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ [52]. Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima, tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange. Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” [53]

Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’ invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo [54].

Da tutto ciò, una implicazione metafisica: la sephirah Chesed-grazia sembra essere inefficace in un mondo creato e mantenuto con Ghevurah, la sephirah del potere, del giudizio e del terrore. Ne sanno qualcosa i cabbalisti dello Zohar che nel commentare la risposta di Dio ad Abramo [55] concordano nel ritenere che la discendenza viene ad Abramo dal 'segreto del Nome', perché è dal fuoco di Ghevurah[56] che nel mondo nascono i frutti e ogni prodotto, non dall'orizzonte inferiore delle stelle e delle costellazioni. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un “tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte” [57]. In siffatto universo, dunque, la Grazia si rivela troppo distante e periferica per mitigare il Giudizio, questo compito sembra più adatto alla Shekinah che, in sembianze femminili, quando discende, centralmente, dell’Alto mantiene intatta la divina presenza.



[1] Cfr. F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, terzo quaderno, in Confessioni e immagini,cit., p.94. Il corsivo è mio.

[2] Cfr. F. Kafka, La metamorfosi, in Racconti, trad.it. di G. Zampa, Feltrinelli, VI Ediz., Milano 1965, p.75

[3] Cfr. F. Kafka, Terzo quaderno, in op.cit., p.98. Il corsivo è mio.

[4] Cfr. F. Kafka, America, trad.it. di A. Spaini, Oscar Mondadori, Milano 1972, pp.139-140

[5] Cfr. F. Kafka, Il processo, trad.it. di A. Spaini, Oscar Mondadori, II Rist., Milano 1974, pp.35-36

[6] Cfr. F. Kafka, Il castello, trad. it. di A. Rho, Medusa Mondadori, VI Ediz., Milano 1965, p.95

[7] Ibidem, p.202

[8] Nella già citata Lettera al Padre, Kafka scrive: ‘(…) Confrontiamoci l’un l’altro: io, in breve, sono un Lowy con un certo fondo kafkiano, che però non è mosso dalla volontà di vita, di attività, di conquista dei Kafka, bensì da un aculeo lowyano che agisce più segreto e più pavido in altre direzioni, e sovente s’arresta. Tu invece sei un vero Kafka per robustezza, salute, appetito, sonorità di voce, facondia, soddisfazione di Te, superiorità verso il mondo, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, una certa generosità. E naturalmente con tutte le pecche e le debolezze, inerenti a tali doti, verso le quali T’induce il Tuo temperamento e talvolta la Tua irascibilità.’ (op.cit., p.183)

[9] Cfr. K. Wagenbach, op.cit., pp. 9-10

[10] Cfr. F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, Ottavo quaderno, in Confessioni e immagini, cit., p.171

[11] Purim: festività ebraica a ricordo dello scampato sterminio degli ebrei sotto il regno del persiano Assuero, identificato con Serse I, come si racconta nel libro di Ester: ‘Aman, figlio di Ammedata l’Agaghita, nemico degli Ebrei, aveva progettato di sterminarli. Aveva usato il pur cioè il sorteggio per fissare la data del massacro. Ma Ester supplicò il re, e questi diede ordini scritti, per cui il male che Aman voleva fare agli Ebrei è ricaduto su di lui. Lui e i suoi figli sono finiti sulla forca. Quei giorni si chiamano Purim perché vuol dire sorteggio… (Ester, IX: 24-26)’. Purim si celebra il 14 e il 15 del mese ebraico di Adar (febbraio-marzo) ed è la festa più gioiosa dell’anno ebraico in cui ci si maschera, si fanno scherzi e si beve vino perfino in sinagoga.

[12] Cfr. F. Kafka, Ottavo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., pp.170-171

[13] Ibidem, p.174

[14] Ancora nella Lettera al Padre, Kafka così ricorda l’atteggiamento paterno verso l’attore ebreo Lowy (in op. cit., pp.188-189): “ (…) Bastava che io mi interessassi un po’ a qualcuno –data la mia natura, non accadeva sovente- perché Tu subito senza riguardo al mio sentimento e senza rispetto per il mio giudizio, intervenissi con insulti, calunnie, profanazioni. Gente innocente e ingenua come per esempio l’attore ebreo Lowy dovettero subire questo trattamento. Senza conoscerlo Tu lo confrontasti, con parole terribili, che ho già dimenticate, a un insetto ripugnante (…) Dell’attore ho un ricordo più vivo perché allora annotai le tue critiche a suo riguardo con le parole: ‘Così parla mio padre del mio amico (che non conosce) solo perché è mio amico. Potrò sempre rinfacciarglielo quando lui mi rimprovererà mancanza di amore filiale e di gratitudine’. Mi è sempre stata incomprensibile la Tua mancanza di sensibilità per la sofferenza e l’onta che sapevi infliggermi con le Tue parole e giudizi; era come se Tu non avessi idea del Tuo potere…”. Come non ricordare Gregorio Samsa, il commesso viaggiatore (La metamorfosi 1915-1916) destinato a portare il padre sulle spalle come un enorme parassita e trasformato in insetto?

[15] Cfr. in K. Wagenbach, op. cit., pp.180-181

[16]Nessuno è giusto davanti a Dio, nessuno è puro davanti al suo creatore./ Dio non conta neppure sui suoi servitori celesti, trova difetti anche nei suoi angeli;/ tanto più ne trova negli uomini che abitano in case d’argilla, con le fondamenta nella polvere.’ (Giobbe, cap.4, vv.17-19).

[17] Cfr. R. Cantoni, in Prefazione a F. Kafka, Lettere a Milena, trad. it.,Mondadori, IV Ediz., Milano 1966, pp. 25-26. Forse l’ esitenzialista Remo Cantoni scambia Marcione e i marcioniti per gnostici. In realtà, Marcione (Sinope, Ponto 85 ca.-Roma 160 ca.) fu un eretico di formazione cristiana che nel 140 giunse a Roma dove fu discepolo dello gnostico siriaco Cerdo. La sua dottrina, espressa nel commento alla Sacra Scrittura Anthitesis, di cui possediamo solo pochi frammenti, contrappone il Dio dell’Antico Testamento, autoritario e vendicativo, al Dio del Nuovo Testamento, buono e misericordioso, rivelato da Cristo. Questo dualismo avvicina Marcione allo gnosticismo da cui però si differenzia per l’assenza delle più complesse speculazioni caratteristiche della gnosi. Redasse un proprio canone di libri sacri, respingendo l’Antico Testamento e accettando del Nuovo solo il Vangelo di Luca e dieci lettere di Paolo, espurgate dei passi ritenuti troppo giudaizzanti. Nel 144 si separò dalla Chiesa di Roma costituendo una propria comunità solidamente organizzata con vescovi e presbiteri.

[18] Cfr. F. Kafka, Il Giudizio, in I racconti di Kafka, trad.it. di H. Furst, Longanesi, Milano 1965, p.36

[19] Scrive J. Hillman: “ Fiducia e tradimento non costituivano un problema per Adamo, quando passeggiava in compagnia di Dio al crepuscolo. L’immagine del giardino come inizio della condizione umana esemplifica quella che si potrebbe chiamare la ‘fiducia originale’ (…) Questa situazione di fiducia originale, espressa nell’immagine archetipica dell’Eden, si riproduce nella vita individuale di ciascun bambino e genitore. Come nel principio Adamo, con la sua fede animale, si fida di Dio, così il ragazzino nel principio si fida di suo padre (…) Ma non siamo più nell’Eden. Eva ha posto fine a quella nuda dignità. Dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, la Bibbia registra una storia infinita di tradimenti di ogni genere (…) per culminare con il mito centrale della nostra cultura: il tradimento di Gesù (…) quella nostalgia della fiducia originale, la nostalgia dell’unità con il vecchio Sé saggio, dove io e il Padre siamo una cosa sola, senza l’interferenza di Anima, è tipica del Puer aeternus, colui che sta dietro a tutti gli atteggiamenti adolescenziali. Il Puer non vuole mai essere cacciato dall’Eden…” (Cfr. J. Hillman, Puer aeternus, trad. it. di A. Bottini, Adelphi, III Ediz., Milano 1999, pp.14 e ss.

[20] La Teurgia ebraica si distingue dalla Magia, pure praticata in ambiente giudaico, perché il suo quadro di riferimento è la religione biblica e il rispetto di un rituale predeterminato, inoltre la Teurgia, a differenza della magia, non opera a vantaggio personale ma per il bene del cosmo e dell’umanità. Mopsik individua cinque forme di azione teurgica negli scritti dei primi kabbalisti: 1)(azione) instauratrice (esempio: Genesi 28:20-22, Levitico 26:3-13, Esodo 29:42-46 ecc…) 2) restauratrice (Genesi 8:18-22 ecc…) 3) conservatrice (Le offerte dei sacrifici) 4) amplificatrice(“Benedetto il suo nome…”, la formula sembra in grado aumentare la potenza (Gevourah) di Dio. 5) attrattiva (attrazione della Shekinah, esempio: Esodo 25:8, La Lettera sulla santità ecc..). Un certo intento teurgico è anche presente nella tradizione rabbinica, infatti, oltre a coloro che ritengono impossibile per l’uomo aumentare la potenza divina, ci sono anche coloro che ammettono che un comportamento umano conforme alla Legge, lo studio della Torah ecc.. siano in grado di accrescere la presenza di Dio nel mondo. Sull’intera questione della teurgia nella Qabalah, cfr. C.Mopsik, Les Grands Textes de la Cabale, Verdier,1993, pp.18-71.

[21] Cfr. F. Kafka, Quarto quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.143

[22] Sugli aiutanti dei romanzi di Kafka così scrive Walter Benjamin (Angelus Novus, trad. it., Mondadori 1995, pp.280-281): ‘Questi aiuti appartengono a un ciclo di personaggi che attraversa tutta l’opera di Kafka. Della loro razza è l’acchiappagonzi che viene smascherato nella Contemplazione, come lo studente che appare la notte sul balcone vicino a quello di Karl Rossmann, come i pazzi che abitano in quella città del sud e non si stancano mai. La loro esistenza crepuscolare fa pensare alla luce incerta in cui appaiono i personaggi dei racconti brevi di Robert Walser: autore del romanzo L'aiutante, carissimo a Kafka. Le saghe indiane hanno i gandharva, creature incompiute, esseri allo stato nebuloso. Del loro tipo sono gli aiutanti di Kafka; che non appartengono, ma neppure sono estranei, a nessuno degli altri ambienti; messaggeri che comunicano fra un gruppo e l’altro’.

[23] “(…) e allora l’angoscia si trasformava in ilarità, come il Baal Shem e i suoi seguaci da atterriti perseguitati si trasformavano, grazie alla loro fede estratta dal nulla, in danzatori, onde si spiega che delle pagine sull’orrore puro all’inizio del Processo fosse possibile la lettura di cui parla Thomas Mann: ‘La biografia ci dice che mentre Kafka leggeva ad alcuni amici l’inizio del Processo, gli astanti risero sino alle lacrime, particolarmente dove è questione della Grazia; e l’autore stesso rise fino alle lacrime. Profonda complicata ilarità’.” (E. Zolla, Prefazione a Confessioni e immagini, cit., p.23). A Zolla e Thomas Mann fa eco Klaus Wagenbach (op.cit., p.153): ‘L’ironia kafkiana, di cui riferiscono molti dei suoi amici, discendeva, in modo tutto naturale, dal suo atteggiamento distaccato di fronte al mondo’.

[24] Cfr. K.E. Groezinger, op. cit., p.19

[25] Cfr. in W. Benjamin, op.cit., p. 292

[26] Cfr. F.Kafka, Terzo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.112. il corsivo è mio.

[27] Cfr. E. Zolla, in Prefazione a Confessioni e immagini, cit., p.19

[28] Cfr. F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Confessioni e immagini, cit., p.59

[29] Ibidem, p.62

[30] Ibid., p.118. A tale proposito Groezinger (op.cit., p.176) sostiene che Kafka, sulla scia del Maggid di Mesritsch (1710-1772) grande figura della mistica chassidica, ritenga impossibile cibarsi dell’albero della vita fintanto che si sia dotati di individualità corporea, cioè di ‘io’. E’ appena il caso di osservare che coloro che si dicono convinti di cibarsi dell’albero della vita, stanno in realtà continuando a cibarsi dell’albero della conoscenza del bene e del male, rinnovando così costantemente il peccato di Adamo.

[31] Ibid., p.122

[32] Cfr. E. Zolla, op. cit., p.15

[33] Cfr. W. Benjamin, op.cit., p.292

[34] Isacco il Cieco (1160-1235) fu il primo grande maestro delle scuole storiche di Qabalah che operarono in Provenza e in Catalogna, in un clima di grande sviluppo culturale delle comunità ebraiche. Fu detto il Chassid (il pietoso) o il Cieco (possedeva un ‘eccesso’ di luce) o il Parush o il sagghì-nahòr (ricco di luce) e fu uno tra i maggiori peruschim. I perushim provenzali studiavano quasi senza interruzione, praticando digiuni e astenendosi dalla carne e dall’alcool. Si reclutavano tra i primogeniti e preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi. Huqe ha-Torah, un documento provenzale, descrive la vita che si svolgeva in questi centri (devozione al maestro, piccoli gruppi di studio, diversificazione dei livelli di apprendimento, massima stimolazione per facilitare la libera espressione e il dibattito tra i discepoli, ecc…).

Una delle prime indagini di Isacco sembra riguardasse il nome divino: “Il giorno in cui YHWH Elohim fece il cielo e la terra, il nome non era intero, finché l’uomo non fu creato a immagine di Dio e il Sigillo non fu completo.” (Genesi 2:4). A questa speculazione si collega quella sul male, introdotto con la frattura del Nome, che torna ad essere incompleto com’era prima della creazione dell’uomo. Il riferimento è in Esodo,17:7: ‘Vedremo se il Signore è con noi o no’. Dopo l’uscita dall’Egitto venne Amalek, capo degli Amaleciti, beduini del sud di Canaan: ‘la mano di Amalek si levò sopra il trono di Y(a)h’ e Isacco descrive la lotta di Mosé contro l’Arcangelo di Amalek: ‘Mosé. dovette ricorrere all’elevazione delle mani per lottare contro l’Arcangelo e respingere le sue mani dalla sephirah Ghevourah’. Aron e Chur sostengono le mani di Mosé e Israele può vincere, ma il male si è generato e l’inevitabile conseguenza è la distruzione del Tempio e l’esilio. Il Nome non potrà più essere pronunciato. Un’altra conseguenza è il ritrarsi delle Sephiroth superiori ‘in Alto’. La lettera di Isacco il Cieco ai rabbini di Girona ( per il testo integrale cfr. G.G.Scholem, Le Origini della Kabbalà, Bologna 1990, pp.488-489) attesta del carattere esoterico della scuole da lui ispirate. Egli si occupò ancora di preghiere, di luce e di tenebra, delle Sephiroth dell’Albero della vita e dei 32 Sentieri, di Kavanah (meditazione) e di Deveqùth (communio), della catena degli esseri, di simpatia universale. Assai prima della Qabbalah luriana, parlò della trasmigrazione delle anime, limitandola a tre ritorni, come si annuncia in Giobbe 33:29: ‘Tutto ciò Dio la fa tre volte in un uomo:ricondurre l’anima dalla sua putrefazione, affinché essa brilli nella luce della vita’. Isacco anticipò inoltre il tema dei cicli cosmici o shemittoth del Sepher Temunà (con riferimento anche alla trasmigrazione animale) e il tema della luce del Sepher Iyyùn (luce e tenebre scaturiscono dall’Oscurità primordiale, cfr. Luz n.1, pp.3-12). Tra le sue opere: un commento del Sepher Yetzirah, circa 70 frammenti sulla mistica della luce e sui segreti (sodot) della Torah, e qualcuno gli attribuì anche il Sepher Bahir. Testo fondamentale della Qabbalah, il Bahir appare in Provenza tra il 1150 e il 1200 proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Le sue fonti riconducono al Sepher Yetzirah, alle opere dei Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo, al misticismo della Merkavà e in particolare al libro,andato perduto, ma ripetutamente citato soprattutto da autori caraiti, il Razà Rabbà o Il Grande Mistero, composto tra il V secolo e il secolo VIII e che rappresenta una fase più tardiva di quella dei testi più importanti della Merkavà. Il contenuto magico e angelologico di questo libro è attestato da tutti e sarebbe parte di quella Gnosi ebraica che –a giudizio dello Scholem (cfr.G.G. Scholem, Le Grandi Correnti della Mistica Ebraica, il melangolo, Genova, 1990)- deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Analizzando il Sepher Bahir, si può osservare come il giudizio dello Scholem possa essere addirittura rovesciato e portare alla conclusione, sostenuta da più di uno studioso, di una derivazione dello Gnosticismo dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette ebree’(Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.

Sotto la spinta di Isacco il cieco, nel 1230 sorge il gruppo cabbalistico di Girona: la Chaburah qedoshah o Associazione Sacra, vero e proprio punto di riferimento per la diffusione dell’ebraismo e della Qabalah in tutto il Mediterraneo. A quanto pare, Isacco il cieco soleva affermare che la ‘diversità ebraica’ consisteva nella pratica di una ‘filosofia esoterica’ basata sullo studio e sulla conoscenza e non su una religione unicamente ispirata dalla fede e dal sentimento.

[35] Cfr., in W. Benjamin, op. cit., p.280, che riferisce di un colloqio tra Kafka e Max Brod narrato da quest’ultimo. “Ciò –aveva osservato Max Brod- dapprima mi fece pensare alla visione del mondo della gnosi: Dio come cattivo demiurgo, il mondo il suo peccato originale. ‘Oh no’, egli disse, ‘il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una cattiva giornata’.” Ciò che esclude ampiamente l’ipotesi di Kafka ‘marcionita’ proposta, come si diceva sopra, da Remo Cantoni.

[36] Cfr.in K. Wagenbach, op.cit., p.185

[37] Cfr. Luz n.1, p.4, nota 3

[38] Il citato libro Kafka e la Cabbalah riporta ampi brani del Reshit Chokmah.

[39] Cfr. K.E. Groezinger, op.cit., pp.43 e ss.

[40] “Abbiamo un nuovo avvocato, il dottor Bucefalo. Esteriormente poco rammenta il tempo in cui era ancora cavallo di battaglia di Alessandro di Macedonia. Certo chi conosce bene le circostanze, nota alcuni particolari. Eppure vidi ultimamente sulla scalinata esterna persino un semplicissimo usciere del Tribunale ammirare l’avvocato con lo sguardo professionale del piccolo frequentatore delle corse, mentre costui, tirando su i piedi con un passo che risonava sul marmo, saliva di gradino in gradino”. (F. Kafka, I Racconti di Kafka, cit., p.145)

[41] Su Ytzchàq Luria Ashkenazi (1534-1572), figura centrale della nuova Qabalah, cfr.G.G.Scholem, La Cabala, trad.it., Roma 1989, pp.80-86 e dello stesso autore, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il saggiatore, Mondadori, Milano 1965, cap.VII.

[42] Ghilghul l w g l g = 72, come i nomi di Dio e come Chesed d s j grazia, quarta sephirah dell’Albero. Il Ghilghul è insieme lo strumento divino della misericordia e del giudizio. Essere nel Ghilghul significa aver subito la condanna del tribunale celeste ma trovarsi anche nella condizione di poter emendare le proprie colpe. Per tale scopo, uno spirito può incarnarsi di nuovo nei figli o nei familiari, ma anche in corpi di esseri a lui estranei, umani o di animali. Con una differenza rispetto alla tradizionale concezione della reincarnazione: qui lo spirito non si dà necessariamente un corpo nuovo ma può coabitare con altri spiriti in corpi che spesso gli sono congeniali per affinità genetica.

[43] Cfr. F. Kafka, Considerazione cinquantaquattresima, in Confessioni e immagini, cit., p.64. Il corsivo è mio.

[44] Cfr. F. Kafka, Terzo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.118. Il corsivo è mio.

[45] Cfr. W. Benjamin, Lettere 1913-1940, trad. it., Milano 1978, p.380

[46] Cfr. K.E. Groezinger, op.cit., pp.64 e ss.

[47] Cfr. F. Kafka, Racconti, trad. it., di G. Zampa, Feltrinelli, VI Ediz., Milano 1965, pp. 137-139.

[48] Cfr. K. E. Groezinger, op.cit., p.59

[49] Secondo la tradizione, Lilith fu creata da Dio per far compagnia ad Adamo, prima ancora di Eva. Senonché “Adamo e Lilith non ebbero mai pace insieme, perché quando egli voleva giacere con lei, la donna si offendeva per la posizione impostale: ‘Perché mai devo stendermi sotto di te?’ chiese. ‘Anch’io sono stata fatta di polvere e quindi sono tua uguale’. Poiché Adamo voleva ottenere la sua ubbidienza con la forza, Lilith irata mormorò il sacro nome di Dio, si librò nell’aria e lo abbandonò” (Cfr. R. Graves – R. Patai, I miti ebraici, trad. it., TEA, Milano 1998, p. 79). Da Lilith, divenuta prostituta del diavolo, nacquero i lilim. Sull’intera tradizione di Lilith e sulle fonti che la ispirano cfr., op.cit., pp. 11, 78-84, 124, 127; e inoltre G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp.145-149. Si osservi che una ghematria di Lilith t y l y l è Pot t p con lo stesso valore numerico di 480 e che in ebraico è l’organo sessuale femminile, quasi a indicare l’alienazione demoniaca del rappresentare la donna come vagina.

[50] Cfr. supra

[51] Cfr. F. Kafka, Il processo, cit., p.103

[52] Ibidem, p.104

[53] Ibidem, pp.105-106

[54] “Così passarono ore, ore di palpito comune e di comune respiro; ore durante le quali K. ebbe l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato. In una terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva fare altro in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi (…) era troppo felice di tenere Frida tra le mani, troppo ansiosamente felice anche perché gli sembrava che se Frida lo abbandonava, tutto quello che possedeva al mondo l’avrebbe abbandonato (…) ma K. si alzò, si inginocchiò accanto a Frida e si guardò intorno nella mezza luce grigiastra che precedeva l’alba. Che cosa era accaduto? Dov’erano le sue speranze? Che cosa poteva aspettarsi da Frida, poiché tutto era svelato?” (cfr. F. Kafka, Il castello, cit., pp.73-74)

[55] Abramo aveva visto sul proprio zodiaco che non avrebbe avuto figli. Venne il Signore e disse: ‘Guarda verso il cielo e conta le stelle, se pure riesci a contarle tutte, così sarà la tua progenie’ (Genesi XV, 5)

[56] Ghevurah o Din o Pachad (Potenza, Giudizio e Terrore) sono gli attributi della quinta sephirah dell’Albero

[57] Cfr. in K.E. Groezinger, op. cit., p.28. In proposito e per ciò che si riferisce alla nota precedente, si veda ancora il libro di Giobbe: ‘Dio onnipotente mi ha colpito con le sue frecce, e io sono pieno del loro veleno. Egli mi assale e mi terrorizza’(6:4) e ancora: ‘Tu, o Dio, mi terrorizzi con gli incubi e mi spaventi con le visioni’ (7:14) e infine: ‘Signore, perché dai importanza all’uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova?’ (7:17-18)

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