SEGUE
da:
Perché IL PARTITO DEMOCRATICO PROGRESSISTA?A quale domanda sociale e politica intende rispondere? [Prima parte]
Quali le
ragioni del fallimento dei governi di centrodestra e di centrosinistra che
hanno governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo, trascinandola sull’orlo
dell’abisso, e che rendono impensabile per i cittadini affidarsi nuovamente a
loro? Un identico modo di gestire il potere: clientelismo, corporativismo,
spreco, incompetenza, corruzione generalizzata e un’identica propensione,
nonostante le tante promesse elettorali, a non
risolvere i problemi della gente, limitandosi alla mala gestione
dell’ordinario e alla cura individuale del carrierismo politico. Ciò che ha
reso impalpabile agli occhi di molti la differenza tra destra, sinistra e
centro che pure storicamente e idealmente esiste e non può non esistere! Ma la
notte della politica italiana, in cui “tutte le vacche sono nere” e i partiti
intercambiabili fra loro, ha radici sociologiche ben precise, determinate dal
reclutamento delle classi dirigenti negli ultimi decenni, accomunate non solo e
non tanto dalla stessa estrazione sociale, quanto piuttosto da formazione politica
inadeguata, scarsa onestà e mancanza di immaginazione.
E ancora: non è che destra e sinistra siano la
stessa cosa, ma ciò che ha accomunato centrodestra e centrosinistra nei governi
degli ultimi decenni è stata l’identica sostanziale accettazione del modello di sviluppo
imposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le uniche differenze sono state
le misure effimere adottate per rendere tale modello più digeribile al proprio
elettorato di riferimento. Così è stato e così sarà per il futuro, se i
cittadini non prenderanno coscienza di essere i soli titolari della sovranità
che legittima lo stato democratico. Pur tra conclamati obiettivi diversi, le
coalizioni che hanno governato il Paese negli ultimi decenni, hanno finito per
adottare le stesse politiche e oggi le ripropongono anche per il futuro: il
centrodestra attraverso l’amalgama tra i sedicenti moderati e i cosiddetti populisti
e con l’unico scopo di mantenere i privilegi dello status quo, il centrosinistra mediante un contenitore più
disinvolto che ha finito con alimentare il frazionismo, il velleitarismo e
l’impotenza. Quanto al Movimento Cinque Stelle valga quanto già osservavo nel
post sopra citato:
”Infine, il
Movimento Cinque Stelle – al quale occorre riconoscere il merito di aver
cercato di opporsi alla deriva del centrosinistra e del centrodestra – denuncia
sempre più la mancanza di una classe politica all’altezza della situazione,
l’isolamento e la vaghezza di un progetto politico che si limita ad alcune
rivendicazioni sociali, senza tuttavia affrontare alla radice il problema del
modello di sviluppo che si intende perseguire. Con in più il rischio
dell’accerchiamento, come dimostra la nuova legge elettorale, per aver lasciato
cadere il cosiddetto modello tedesco e prima ancora per non aver avuto la
lungimiranza politica di prevedere, a suo tempo, ciò che era abbastanza
prevedibile e cioè che una volta cancellato l’italicum – la legge
elettorale maggioritaria che avrebbe favorito il governo del partito più votato
e dunque con ogni probabilità il Movimento Cinque Stelle – le forze concorrenti
di centrodestra e di centrosinistra avrebbero fatto di tutto per vedere
assottigliata, nelle prossime elezioni politiche generali, la rappresentanza
parlamentare del Movimento”.
Al netto di
queste considerazioni, l’attenzione con cui i Cinque Stelle hanno riguardato i cittadini emarginati dalle
scelte che li riguardano, creando nel Paese le condizioni di un massiccio voto
di opinione in loro favore, non deve essere trascurata e induce a riconoscere –
finalmente senza pregiudizi di bandiera – la bontà di molte intuizioni alle
quali purtroppo è mancata la concretezza dell’azione politica. Il fenomeno fa
anche riflettere sull’esistenza di uno spazio che può essere colmato da un
soggetto politico nuovo, capace non tanto di cavalcare lo scontento, ma di
preparare una classe dirigente che si dimostri all’altezza di coniugare insieme
la domanda di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica
con la progettazione di autentiche misure di riscatto e di trasformazione
sociale.
Al Partito Democratico va invece riconosciuto di
essere nato con ben altre aspirazioni, come si legge nella relazione con la
quale Piero Fassino introdusse il processo costituente:
“Diamo vita al Partito Democratico non per un'esigenza dei DS o
della Margherita o di un ceto politico. No. Il Partito Democratico è una
necessità del Paese, serve all'Italia. Vogliamo dare vita ad un soggetto
politico non moderato o centrista, bensì progressista, riformista e
riformatore. Un partito che faccia incontrare i valori storici per cui la
sinistra è nata e vive - libertà, democrazia, giustizia, uguaglianza,
solidarietà, lavoro - con l'alfabeto del nuovo secolo: cittadinanza, diritti,
laicità, innovazione, integrazione, merito, multi-culturalità, pari
opportunità, sicurezza, sostenibilità, sopranazionalità. E per questo dovrà
essere un partito del lavoro, dello sviluppo sostenibile, della cittadinanza e
dei diritti, dell'innovazione e del merito, del sapere e della conoscenza,
della persona e della laicità, della democrazia e dell'autogoverno locale,
dell'Europa e dell'integrazione sopranazionale, della pace e della sicurezza”.
Belle
parole, ma destinate subito a restare sulla carta, perché già il Manifesto del PD, approvato il 16
febbraio del 2008, rende evidente il carattere astratto e velleitario di
formulazioni generiche – fatte più per la coesistenza e il compromesso tra
ceppi antichi e diversi [che il Manifesto chiama “grandi tradizioni”], in
passato spesso ostili tra loro – che per essere effettivamente realizzate. Il Manifesto
si articola in sette punti:
“1.
Le ragioni del Partito Democratico”, individuate:
a) nella necessità di fare un “Italia nuova” ricollocandola “negli inediti
scenari aperti dalla globalizzazione del mondo”, b) nell’obiettivo di un
“profondo rinnovamento della società italiana” e nella “formazione di una nuova
classe dirigente”, c) nella volontà di “dare adeguate risposte ai grandi problemi
del presente e del futuro”.
“2. Un partito
aperto nel mondo globalizzato”, che dichiara
solennemente: a) di battersi per l’universalità del sapere, considerata come “un
grande progetto di democrazia della conoscenza“, b) di riconoscere “la
centralità e l’universalità dei diritti umani”.
“3. Nel solco della Costituzione:
etica pubblica e laicità”, dove si ribadisce il valore della Costituzione repubblicana, nata dalla
Resistenza antifascista, e la necessità di realizzarne la piena attuazione e
l’aggiornamento “nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con
riforme condivise”.
“4. Un’Italia più libera, più
giusta e più prospera”, con il quale si annuncia tra l’altro di volere “un’Italia più libera, più giusta e
più prospera […] una società aperta che consideri le persone in base alle loro
qualità, rimuovendo gli ostacoli economici e sociali, e premiando il merito e
non i privilegi. Vogliamo che a ciascuno sia garantita la libertà di
realizzarsi secondo i suoi talenti e le sue inclinazioni”.
“5. Il pluralismo
sociale, per una comunità forte e solidale”, dove, a tutela della
famiglia, si annuncia il “bonus bebè”, si considera l’accoglienza dei migranti
più un’opportunità che un problema e si proclama la valorizzazione e la
promozione delle autonomie locali, “la cultura della sicurezza e della
legalità”, la lotta contro “il degrado urbano e sociale […], la corruzione e la
criminalità organizzata”.
“6. L’educazione, la formazione, la
ricerca scientifica”, con la
proclamata centralità della scuola dove – è detto – “si pongono le premesse della
cultura democratica indispensabile alla convivenza in una società sempre più
plurale e multiculturale”, con “un sistema scolastico pubblico, imperniato sulla valorizzazione
del ruolo educativo degli insegnanti” e il pieno sostegno “della libertà della
ricerca scientifica”.
“7. La speranza della pace: la storia non è finita”,
dove si enfatizza l’aver tratteggiato “il profilo di un partito nuovo” e si
prospetta l’elaborazione di “una nuova idea di progresso”.
Come si vede, il cosiddetto Manifesto dei valori del Partito
Democratico contiene già in nuce i
segni della retorica, del velleitarismo e dell’ impotenza. Se si eccettua il
riferimento al noto “bonus bebè”, una sorta di mancia elettorale che non ha
certo risolto i problemi delle famiglie italiane, tutti i solenni propositi contenuti nei sette punti in cui il Manifesto
si articola non sono sostenuti dall’indicazione, non dico di misure, ma almeno
di proposte per la loro effettiva sostenibilità e realizzazione. A guardar
bene, anzi, si direbbe che la società vagheggiata astrattamente dai fondatori
del Partito Democratico, sia venuta evolvendosi proprio in senso contrario alle
grandi affermazioni di principio contenute nel citato Manifesto. E
l’astrattezza dei valori non è soltanto imputabile all’opportunismo politico
che determinò la nascita di questo partito, ma al fatto che il Partito
Democratico fu soprattutto un’unione di vecchie sigle e vecchie nomenklature,
poco di cittadini intenzionati a dar vita ad una nuova e diversa formazione
politica e animati dal desiderio di cambiare davvero le cattive abitudini di cui
la classe dirigente, già nel passato, aveva fornito prove eloquenti.
In
conclusione, dunque, perché il PDP?
Alla generica idea di progresso presente nel Manifesto dei valori del Partito
Democratico, alla sua corruzione e inconcludenza nell’azione politica, al
velleitarismo dei cosiddetti movimenti e campi che rivendicano la patente di
progressisti, unicamente perché si collocano alla sinistra del PD, dopo averne
sempre condiviso le peggiori scelte politiche ed economiche, al frazionismo
dilagante delle formazioni che si richiamano ai valori della sinistra “dura e
pura”, alle promesse di risanamento sociale e nazionale, mai mantenute, dei
sedicenti moderati del centrodestra, alle lusinghe antieuropeistiche dei loro
alleati, destinate ad emarginare il Paese dal processo produttivo mondiale e a
far girare al contrario la ruota della Storia, ai pronunciamenti rivoluzionari
del Movimento Cinque Stelle, non suffragati nella realtà dal governo di alcune
città metropolitane, allo splendido isolamento che ne rappresenta insieme il
punto di forza e il limite, alla vaghezza di una proposta politica, ad una
classe dirigente impreparata a gestire
l’ampio consenso ricevuto da milioni di cittadini, il costituendo Partito
Democratico Progressista oppone un progetto di un’autentica trasformazione
sociale, basato su un’idea di progresso, né generico né velleitario, ma orientato
su alcuni temi specifici che si riferiscono:
1) Al concetto di democrazia: l’istituto della
democrazia rappresentativa e quello della democrazia diretta, limitati alla
delega, al referendum abrogativo e
alle leggi di iniziativa popolare con procedure complesse e farraginose che ne
scoraggiano l’utilizzo e che per di più non sono ammesse per alcune materie
fondamentali, va rivisto nella direzione di un progressivo allargamento che contempli: a) forme più snelle di
partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica da parte dei
cittadini, b) l’introduzione della democrazia
stocastica qualificata [sorteggio
qualificato per l’elezione dei deputati], c) le primarie stabilite per legge e
limitate agli iscritti per scegliere le cariche interne dei partiti e i
relativi candidati per ogni tipo di elezione, dove sia in gioco la
rappresentanza politica dei cittadini.
2) Alla manifestazione della sovranità popolare
che progressivamente abbandoni ogni
riferimento astratto, e si concretizzi sempre più in forme reali ed efficaci.
3) Alla pratica della delega in bianco, quale
si manifesta attualmente per ogni tipo di elezione, e che una visione progressista non può che rimuovere,
perché fa dei membri del Parlamento i rappresentanti della nazione e non dei
cittadini, praticamente inamovibili – se non per reati comuni e attraverso
complesse procedure – e che dunque rende gli eletti disponibili per ogni genere
di trasformismo.
4) Alla piena, progressiva attuazione dei diritti civili, politici e sociali contenuti nella Costituzione
Italiana e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
5) Alla riaffermazione della sovranità
monetaria dello Stato per rendere progressivamente
ed effettivamente possibile la
pratica attuazione del 2° comma del 3° articolo della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”.
6) Al progressivo raggiungimento della piena
occupazione, sancito ma sempre disatteso dalle attuali politiche, volte a
perseguire l’austerità e il pareggio di bilancio e non già il dettato del 4° Principio
Fondamentale della Costituzione Italiana, il quale recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro
e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino
ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società”.
7) Ad un benessere sociale, non più pensato
come esclusivo appannaggio di ristrette oligarchie e/o di determinate classi,
ma destinato progressivamente ad includere il maggior numero possibile di
cittadini.
Mi sembra di
poter dire che gli obiettivi del PDP siano concreti, perché indicano dei
percorsi effettivi per la loro realizzazione. Ciò non significa che il cammino sia
semplice. Occorre, innanzi tutto, sciogliere i nodi contenuti in alcuni dei
principi fondativi da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente,
primi fra tutti quelli che segnalavo altrove [Che cos’è il Partito Democratico Progressista, cosa vuole essere? Clicca sul
titolo per leggere]:
“Restano tuttavia diversi
interrogativi: come si può essere certi che “politiche economiche di carattere
fortemente espansivo” siano in grado di dare i risultati auspicati e cioè la
crescita economica e la progressiva realizzazione della piena occupazione? E
ancora: dando per scontata la bontà di queste teorie, sulla base di precedenti
storici e di politiche simili messe in campo nel presente e con successo da
paesi a sovranità monetaria, come sarebbe possibile introdurre i principi del
keynesismo, sia pure aggiornato, in un paese che fa parte di un’Europa dominata
dalla moneta unica, dalla Germania e dalle teorie neoliberiste? Il rischio
dell’isolamento e del boicottaggio economico sarebbe dietro l’angolo. E se
anche fosse possibile esportare tale modello di sviluppo in altri paesi
dell’Unione Europea, per quale motivo le élite finanziare internazionali dovrebbero
stare a guardare, rinunciando ad un progetto di egemonia a lungo coltivato e
realizzato con scientifica determinazione? È auspicabile che l’Assemblea
Costituente del nuovo partito sciolga questi nodi, ma intanto occorre
sottolineare il coraggio di una costituenda forza politica che invita i
cittadini a passare all’azione per evitare che il cerchio si chiuda in una
sorta di neofeudalesimo sociale”.
Non basta. Bisognerà poi risvegliare molte
coscienze addormentate o ancora assopite e preparare una nuova classe dirigente.
In questa prospettiva il Movimento Roosevelt - che resta una realtà politica ma
non partitica – è chiamata a svolgere una funzione determinante in fatto di
informazione, cultura e pedagogia. Perché è abbastanza evidente che nulla potrà
mai cambiare veramente se i tanti delusi dal linguaggio e dall’agire della
politica non coglieranno l’opportunità di una rivoluzione copernicana che
rovesci il tradizionale rapporto stato-cittadini: lo stato non più concepito
come un’entità astratta che impone i propri comandamenti, attraverso
inamovibili oligarchie, ma finalmente inteso come il risultato di un patto
sociale nel quale i cittadini si possano riconoscere.
sergio
magaldi