mercoledì 17 novembre 2010

Narrativa e Soprannaturale: P. COELHO







  Scrittore brasiliano della cosiddetta New Age, Paulo Coelho conosce il successo con L'Alchimista, il romanzo pubblicato nel 1988. La favola, che in realtà è una vera e propria metafora iniziatica, si annuncia con una prefazione dell'autore che ne spiega il senso e la ragione:

“Ho studiato Alchimia per undici anni. La semplice idea di trasformare i metalli in oro o di scoprire l'Elisir di Lunga Vita era già di per sé abbastanza affascinante da attrarre l'attenzione di qualunque apprendista nel campo della Magia. Confesso che l'Elisir di Lunga Vita era comunque ciò che esercitava su di me la maggior seduzione: ancor prima di capire e di sentire la presenza di Dio, l'idea che un giorno tutto sarebbe finito mi rendeva disperato. Così che, quando seppi della possibilità di ottenere un liquido in grado di prolungare per lunghi anni la mia esistenza, decisi di dedicarmi anima e corpo alla sua fabbricazione.” [1]

 Utilizzando discretamente gli aspetti esoterici di diverse tradizioni, anche religiose, Coelho costruisce una storia di delicata poesia in un linguaggio semplice e tuttavia denso di significati complessi. Il sogno ricorrente del pastorello andaluso, di trovare un tesoro, è in fondo il sogno ricorrente di ognuno di noi: si tratti dell' alchimista che cerca la pietra filosofale o l’oro dei filosofi, si tratti dell'uomo comune che, nel raggiungimento dell'amore e del benessere, spera di cogliere il fondamento della propria felicità.

 Santiago è un pastore di 23 anni che sa leggere e scrivere perché è stato in seminario e ha studiato latino, spagnolo e teologia. Il suo sogno ricorrente di trovare un tesoro è in realtà parte di un altro sogno che aveva sin da bambino, quello di viaggiare, di conoscere il mondo. Pensando che è proprio la possibilità di realizzare un sogno che rende la vita interessante, una sera si reca in città da una zingara:

 “Ho fatto lo stesso sogno due volte di seguito, disse. Ho sognato di trovarmi in un pascolo con le mie pecore ed ecco che appariva un bambino che cominciava a giocare con gli animali (...) E poi, all'improvviso, mi prendeva per la mano e mi conduceva fino alle Piramidi d'Egitto (…) mi diceva: ‘Se verrai fin qui -mi diceva- troverai un tesoro nascosto’ (…) La vecchia si mantenne silenziosa ancora per un pò di tempo. Poi afferrò di nuovo le mani del ragazzo per studiarle attentamente. Adesso non ti chiedo niente, gli disse. Ma voglio un decimo del tesoro, se lo troverai (...) E' un sogno che appartiene al linguaggio del Mondo, spiegò lei (…) devi andare fino alle Piramidi d'Egitto. Io non ne ho mai sentito parlare, ma se chi te le ha indicate è un bambino, allora esse esistono. Là troverai un tesoro che ti farà ricco.” [2]

 Dalla zingara, Santiago non riesce a sapere molto di più finché non si imbatte in un vecchio che dice di essere re di Salem e di chiamarsi Melchisedek. E’ qui evidente, anche nel nome del vecchio re, l’influenza della tradizione ebraica. Il re lo sollecita a compiere il viaggio sino alle Piramidi perché egli possa vivere la propria ‘Leggenda Personale’ e non consenta che la sua vita, come succede a molti, ad un certo punto si trasformi in destino [3]: “Il ragazzo non sapeva neppure che cosa fosse la Leggenda Personale. E' quello che hai sempre desiderato fare. Tutti, all'inizio della gioventù, sanno qual'è la propria leggenda personale. In quel periodo della vita tutto è chiaro, tutto è possibile, e gli uomini non hanno paura di sognare e di desiderare tutto quello che vorrebbero veder fare nella vita. Ma poi, a mano a mano che il tempo passa, una misteriosa forza comincia a tentare di dimostrare come sia impossibile realizzare la Leggenda Personale (...) esiste una grande verità su questo pianeta: chiunque tu sia o qualunque cosa tu faccia, quando desideri una cosa con volontà è perché questo desiderio è nato nell'anima dell'Universo. Quella cosa rappresenta la tua missione sulla Terra (...) Realizzare la propria Leggenda Personale è il solo dovere degli uomini. Tutto è una sola cosa. E quando tu desideri qualcosa, tutto l'Universo cospira affinché tu realizzi il tuo desiderio.” [4]

 Il vecchio re rivela al pastore che per arrivare al tesoro deve seguire i segnali che Dio ha scritto nel mondo per il cammino di ogni uomo; come viatico per il viaggio gli narra la storia del ragazzo che andò a trovare un saggio per conoscere il segreto della felicità: deve attendere, ma intanto faccia un giro per il magnifico castello badando a non far cadere due gocce d'olio contenute in un cucchiaino. Al ritorno, le gocce sono al loro posto ma il ragazzo non sa dire nulla su ciò che ha visto, viene dunque invitato a ripetere il giro: questa volta il ragazzo descrive tutto ciò che di bello c'è nel palazzo ma il cucchiaino torna vuoto. Il ragazzo comprende che il segreto della felicità è nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d'olio del cucchiaino. Infine, il vecchio re consegna un dono al pastore:

 “Il vecchio, poi, aprì il mantello che gli copriva il petto. Il ragazzo fu colpito da ciò che vide, e ripensò al bagliore che aveva notato il giorno prima. Il vecchio indossava un pettorale d'oro massiccio, tempestato di pietre preziose. Era davvero un re. Doveva essersi camuffato così per sfuggire agli assalti dei briganti.
Prendi, disse il vecchio, togliendo una pietra bianca e una pietra nera che erano incastonate nel centro del pettorale d'oro. Si chiamano Urim e Tumin. La pietra nera vuol dire si, la bianca vuol dire no. Quando non riuscirai a scorgere i segnali, loro ti saranno di aiuto. Fai sempre una domanda chiara. Ma cerca, in genere, di prendere tu le decisioni...” [5]

 Nella tradizione ebraica Urim e Tumim sono le sorti sacre, sino alla distruzione del Tempio unica forma consentita di divinazione, insieme ai sogni e alle parole dei profeti. Consistevano forse di due pietre dure incise o più probabilmente di gemme che riflettevano la luce, cristalli di rocca o addirittura diamanti, sui quali il Gran Sacerdote si concentrava prima di emettere il responso che non consisteva in un semplice si o no ma in sentenze più o meno lunghe. Il Gran Sacerdote, al quale soltanto era consentita la divinazione, le custodiva nella tasca interna del pettorale, anche se Giuseppe Flavio, al quale Coelho si ricollega, le dice al centro del pettorale tra le 12 pietre preziose rappresentative dei 12 segni dello zodiaco. E' certo che il loro potere derivasse dall'astrologia rappresentando il Sole e la Luna, come dicono alcuni o, come dicono altri, rispettivamente gli Urim i due luminari e i Tumim i cinque pianeti noti agli antichi. [6]

 La ricerca del tesoro continua tra mille avventure e il pastore andaluso accresce la propria conoscenza venendo in possesso di alcuni libri: “Erano libri strani. Parlavano di mercurio, sale, draghi e re, ma lui non riusciva a capire nulla. Eppure c'era un'idea che sembrava ripetersi in quasi tutti i libri: tutte le cose erano manifestazioni di una cosa sola. In un libro scoprì che il testo più importante dell'Alchimia conteneva solo poche righe, ed era stato scritto su un semplice smeraldo”[7]

 E' questa la Tavola di Smeraldo [8] di cui il pastore sente parlare dall'Alchimista, conosciuto dopo molte peripezie e quando ormai è sul punto di arrivare alle Piramidi. Con l’aiuto dell’Alchimista, il ragazzo apprende che la Grande Opera si compone di due parti: la ricerca dell’elisir di lunga vita, che cura tutte le malattie e impedisce all’alchimista di invecchiare, e la ricerca della pietra filosofale, di cui basta anche una piccola scheggia per trasformare in oro ogni metallo.

 ‘Dovrei comprendere la Tavola di Smeraldo?’Chiede il ragazzo all'Alchimista e quello gli risponde che è sufficiente ascoltare il suo cuore perché egli sta ormai vivendo la propria ‘Leggenda Personale’.

 Il tema della leggenda personale torna anche nell'altro romanzo di Paulo Coelho, “Monte Cinque”, del 1996, dove si narrano le vicende del profeta Elia coinvolto nelle guerre tra Fenici ed Assiri e dove Baal e gli altri dei del Monte Cinque sono visti in contrapposizione all'unico Dio di Israele. L’ispirazione biblica del romanzo è ben evidente per gli espliciti riferimenti al 1 Re, al Deuteronomio, al Levitico e al Genesi. Qui, a differenza che nell'Alchimista, leggenda personale e destino s'identificano: ciò che è scritto nel mio destino accadrà dice Elia e ogni ubris gli è vietata: egli deve solo imparare a riconoscere i segni di Dio:

 “Elia alzò di nuovo le braccia al cielo: ‘il mio popolo si è allontanato dal Signore a causa della bellezza di una donna. La Fenicia può essere distrutta perché un sacerdote è convinto che la scrittura sia una minaccia per gli dei. Perché Colui che ha creato il mondo preferisce servirsi della tragedia per scrivere il libro del destino?’
Le urla di Elia riecheggiarono nella valle e gli ritornarono alle orecchie.
‘Tu non sai quello che dici’ rispose l'angelo. ‘Non c'è nessuna tragedia, ma l'inevitabile. Tutto ha la sua ragione d'essere: devi solo saper distinguere fra ciò che è transitorio e ciò che è definitivo.’
‘Che cos'è transitorio?’ Domandò Elia.
‘L'inevitabile.’
‘E che cos'è definitivo?’
‘Le lezioni dell'inevitabile.’
E dicendo questo l’angelo si allontanò.” [9]

 Più che mai convinto di un unico disegno provvidenziale e divino che esclude ogni causalità e ogni dualismo, Coelho finisce implicitamente con l’affermare che bene e male sono soltanto momenti transitori e necessari del nostro cammino personale e collettivo.

 Nel romanzo che cronologicamente si colloca giusto in mezzo agli altri due: “Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto del 1994, si narra la storia d'amore tra una donna senza fede e un sacerdote-guaritore. Coelho si sforza qui di ricondurre ad unità un altro apparente dualismo: quello tra aspetto maschile e aspetto femminile della divinità.
Pur con qualche compiacimento descrittivo per antiche divinità femminili rappresentative della Grande Madre, l'autore, che si professa cattolico, rivendica l'ortodossia di una tesi che si richiama al noto versetto del Genesi: 'Dio creò l'uomo a Sua immagine e somiglianza, maschio e femmina lo creò'.

 “Nella Bibbia -scrive Gustav Dreifuss- gli opposti maschio-femmina trovano la loro espressione poetica nel cantico dei Cantici, ed è soprattutto al Cantico dei cantici che la Cabbalà attinge le immagini per elaborare la sua visione degli opposti.
La letteratura cabbalistica è ricca di simboli femminili, Nel Sefer Bahir Scholem ne ha individuati principalmente quattro: la Sposa, la Figlia del Re, la Shekinà e la Congregazione d’Isreale a cui si aggiungono i simboli della terra (che concepisce) e della luna, e quelli dell’etrog (il cedro), frutto dell’albero della bellezza, e del dattero, che è immagine del sesso femminile. [10]
Se la cultura cristiana ha elaborato la sua idea dell’unione degli opposti nella cornice dell’alchimia, la Cabbalà ha invece formulato le sue idee nel sistema delle Sefirot…” [11]

 L’esperienza unitiva dei due protagonisti del romanzo è descritta, proprio come nel Cantico dei Cantici, in linguaggio cabbalistico. E’ un’esperienza del cuore e dell’equilibrio, è l’unione delle sephiroth Gevurah (Rigore) e Hesed (Misericordia) in Tephereth (Armonia): “Abbiamo fatto l’amore (…) Ci siamo ubriacati tre volte. Siamo stati sulle montagne. Abbiamo trovato un equilibrio tra il Rigore e la Misericordia.” [12]

 L’unione del maschio e della femmina si era già annunciata nel simbolismo biblico e alchemico: “Abbiamo vagato per ore a digiuno, nella neve; lungo la strada, abbiamo preso il caffè del mattino in un piccolo paese di cui non saprò mai il nome: lì c'è una fontana con una scultura raffigurante un serpente e una colomba fusi in un'unica creatura.
Vedendola ha sorriso.

‘E' un segnale. Il maschile e il femminile uniti nella stessa figura’ ” [13]


sergio magaldi






[1] Cfr. P. Coelho, L’Alchimista, Mondadori, 1966, p.9
[2] Ibidem, pp.28-29
[3] Sul tema del destino e della leggenda personale, cfr. J. Hillman, Il codice dell’anima, trad. it. A.Bottini, Adelphi, Milano, 1997; in particolare le pp.241 e ss.
[4] Ibidem, pp.37-38
[5] Ibid., p.45
[6] Sul pettorale del Gran Sacerdote, sulle dodici pietre, su Urim e Tumim, crf. J. Halbronn, Le Monde Juif et l’Astrologie, Archè, Milano,1985, pp.207 e ss.
[7] Cfr. Op.Cit., p.93
[8] Tra le molte traduzioni della Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto, si vedano: La biblioteca alchemica, (che contiene diversi testi della tradizione alchemica) a cura di R. e S. Piccolini, Meb, Padova, 1990, p.29; F. Bonardel, La via ermetica, trad. it. M. Pasi, Atanòr, Roma, 1998, p. 25.
Per un’ampia analisi del libro della Bonardel, si veda la recensione, a cura dell’autore del presente articolo, su questo stesso numero di Luz (N.d.E.)
[9] Cfr. P.Coelho, Monte Cinque, trad.it. R.Desti, Bompiani, Milano, 1998, p.143
[10] L’unione del maschio e della femmina è rappresentata dal frutto della palma da dattero e nel Sefer Bahir si legge: ‘Il ramo di palma, il lulav, è maschile, mentre il frutto è maschile all’esterno e femminile all’interno. In che modo? Mediante il nocciolo della palma, che reca una fenditura, come la donna: a esso corrisponde in cielo la forza della luna…” Cfr. Sefer Ha-Bahir, 198, in Mistica Ebraica, Einaudi, Torino, 1995, pp.151-212
[11] Cfr. G. Dreifuss, Maschio e femmina li creò. L’amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, trad. it. M. Ventura, Giuntina, Firenze, 1996, p.54. Per il riferimento al simbolismo sefirotico e a quello dei Partzufim (volti) della Qabbalah luriana si vedano le pp. 55-70. Sull’intera questione si veda tutta la parte III, Sessualità e amore.
[12] Cfr. P. Coelho, Sulla sponda del fiume Pedra mi sono seduta e ho pianto, trad. it. R. Desti, Bompiani, Milano, 1996,
p.173
[13] Ibidem, p.91

Narrativa e soprannaturale: E.T.A. HOFFMANN

Hoffmann riempì le pagine dei suoi racconti di un particolare incantamento, creando personaggi e atmosfere come sospesi tra realtà e sogno. Il suo 'magismo' non è mai fuga dalla realtà perché proprio dalla realtà trae vigore. I suoi fantasmi -come ha ben osservato Heine- sono tanto più inquietanti perché 'vanno a spasso in pieno giorno sul mercato e si comportano come ognuno di noi'. Realismo magico quello di Hoffmann e che dopo di lui avrà solo un altro grande interprete in Kafka, in una dimensione, certo, non più romantica ma sottilmente metafisica ed esistenziale. L'abilità narrativa di Hoffmann è, appunto, in quel confondere di continuo i piani della realtà e del sogno lasciando al lettore il compito di riordinarli.

Nel L'uomo della sabbia che fa parte dei Notturni di Callot del 1817, Nataniele, il protagonista, ricorda in una lettera il terrore che, durante l'infanzia, ispirava in lui l'uomo della sabbia percepito come l'uomo cattivo, questo misterioso visitatore di suo padre che puntualmente alle nove della sera bussava alla porta della sua casa e faceva dire alla mamma: “Su, bambini, a letto, a letto! Viene l'uomo della sabbia, l'ho bell'e visto” e subito dopo aggiungere: “non c'è nessun Uomo cattivo piccolo mio (...) quando dico: viene l' Uomo della Sabbia, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tenere più gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato la sabbia in viso.” [1]

Una sera Nataniele si nasconde e riconosce nell'uomo della sabbia il vecchio avvocato Coppelius che talvolta era in casa sua a desinare. La descrizione di questa figura diabolica si colora nel finale di garbata ironia : “immaginati un uomo alto di statura e largo di spalle, con una grossa testa informe, il viso giallastro, due sopracciglia grigie e arruffate sotto le quali scintillano un paio di occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto, un grande naso che pende sopra il labbro. La bocca storta si spalanca spesso per una risata odiosa; e allora sulle guance gli si accendono due macchie rosse ed uno strano sibilo gli esce dai denti stretti. Coppelius arrivava sempre con una giacca di taglio antico, color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguali, calze nere e scarpe con una piccola fibbia; aveva un parrucchino che gli arrivava a malapena a metà testa; le ciocche appiccicate sopra due grandi orecchie rosse, ed un codino attorcigliato e spettinato che gli si alzava sopra la nuca scoprendo la fibbia d'argento che sosteneva la cravatta increspata...” [2]

Il racconto di Nataniele prosegue con la rivelazione di ciò che vede, finché, preso dallo spavento, non riesce più a celare la propria presenza. Nel brano che segue si nota il voluto intrecciarsi dei piani della realtà e del sogno secondo quanto si diceva prima e che costituisce una caratteristica pregevole e non secondaria nella tecnica narrativa di Hoffmann. Al racconto di Nataniele, infatti, tutto intriso di un realismo di cui nessun lettore dubiterebbe, lo scrittore fa seguire il risveglio del protagonista 'come da un sogno mortale': “Ero come incantato. Esponendomi al rischio di essere scoperto e, come m'immaginavo, severamente punito, rimasi dov'ero, spiando con la testa fuori della tenda. Mio padre accolse Coppelius con solennità. 'Su, al lavoro!' esclamò questi con la sua voce rauca, imperiosa, e si levò la giacca. Senza dir nulla e col volto imbronciato, anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri...Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio, ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto fosse un armadio, era invece un grande vano nero aperto nel muro, nel quale si trovava un focolare. Coppelius vi si avvicinò e ben presto una fiamma azzurra incominciò a crepitare sul fornello... Oh Dio! Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto mi parve completamente trasformato! Un dolore orribile, convulso pareva che avesse sconvolto i suoi lineamenti dolci e sinceri, trasformandoli in una orribile maschera diabolica. Assomigliava a Coppelius. Questi brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti che poi batteva furiosamente col martello. Mi sembrava che tutto all'intorno comparissero volti umani, ma senza occhi, con orribili, profonde occhiaie nere, invece degli occhi.”[3]

La successiva lettera che Clara invia a Nataniele non fa che continuare ad alimentare il dubbio nel lettore circa i confini tra realtà e fantasia: “Ah, Nataniele mio, amato dell'anima mia; che cosa terribile doveva essere successa nella tua vita!.......La tua descrizione dell'abominevole Coppelius è spaventosa. Solo così ho appreso di che terribile morte violenta è morto il tuo vecchio e buon papà.......ti voglio dire senza reticenze che sono persuasa che tutte le cose orribili e paurose delle quali tu parli, sono avvenute solamente dentro di te, e che il mondo esteriore, vero e reale, vi abbia poca parte.......Naturalmente nel tuo animo infantile lo spaventoso Uomo della sabbia...si confuse col vecchio Coppelius, che, se anche non credevi più all'Uomo cattivo, rimase per te un mostro spettrale, particolarmente pericoloso per i bambini.” [4]

Nell'ascoltare le parole di Clara nessuno dubiterebbe del buon senso della ragazza, tutto pervaso di moderne intuizioni psicologiche, se non fosse poi che dall'intero racconto emerge un Coppelius davvero diabolico e capace di delitti. L'abilità di Hoffmann è proprio in quel costringere il lettore ad interrogarsi: Coppelius è come lo vede Clara o come lo dipinge Nataniele?

“La notte – continua la lettera di Clara – i due facevano insieme esperimenti alchimistici, per cui tua madre non poteva essere tanto contenta giacché l'animo di tuo padre, tutto occupato dall'illusoria ricerca della saggezza, veniva estraniato dalla famiglia. Non c'è dubbio che tuo padre ha provocato la propria morte con qualche imprudenza e che Coppelius non ne ha nessuna colpa [...] Se vi è una forza oscura che ripone a tradimento nel nostro cuore un filo...essa deve assumere il nostro aspetto, divenire, anzi, noi stessi; perché solo così possiamo credere in essa e darle il modo di compiere la sua opera segreta [...]Ti prego, bandisci completamente dai tuoi pensieri l'orribile avvocato Coppelius e l'uomo dei barometri, Giuseppe Coppola. Persuaditi che queste figure estranee non hanno nessun potere su di te! Solo la tua fede nella loro forza nemica te le può rendere nemiche di fatto...” [5]

La replica di Nataniele a Lotario, fratello di Clara, è ironica e la dice lunga su ciò che Hoffmann pensasse di certe semplificazioni della ragione: “Clara...mi ha scritto una lettera molto profonda e filosofica nella quale mi dimostra per filo e per segno che Coppelius e Coppola esistono solo dentro di me e sono fantasmi del mio io che cadrebbero istantaneamente in polvere, non appena li riconoscessi come tali. Difatti, non si crederebbe che lo spirito che trapela così spesso da quei due occhi chiari e sorridenti di bambina come un sogno soave, possa essere così giudizioso e fare queste distinzioni scolastiche....Sembra che tu le tenga un corso di logica perché impari a comprendere e a distinguere tutto così sottilmente!' [6]

Nei racconti di Hoffmann, il diabolico si manifesta in leggiadre forme di donna, né la cosa sorprende, visto il consueto accostamento tra la natura e il femminile. Se chi muove le fila è un principio animatore, misterioso e diabolico, che ha sembianze maschili, lo strumento che divide è sempre una donna di bellezza tanto esemplare da essere fredda e meccanica, come nel caso di Olimpia, la figlia-oggetto di Coppelius. Altre volte è creatura che alla bellezza aggiunge l’apparente e sfuggente spiritualità di un angelo come in Giulietta di Storia del riflesso perduto, che fa parte dei “Frammenti fantastici alla maniera di Callot”.

Nel racconto, Erasmo Spikher si innamora perdutamente di Giulietta sino al punto di cedergli il proprio riflesso: “ ‘Tu stai pensando a tua moglie, vero?…’ gli domandò Giulietta in uno strano modo; ‘Ah, Erasmo… tu mi dimenticherai molto presto…’ ‘Potessi essere tuo per tutta l’eternità!…’ sospirò lui: Essi stavano davanti alla bella e grande specchiera appesa alla parete del salotto con due candele accese ai lati; Giulietta strinse Erasmo a sé, più forte, più teneramente e bisbigliò: ‘Lasciami il tuo riflesso… Almeno questo sarà mio per sempre’ […] Erasmo vide la propria immagine venire avanti, indipendentemente dai propri movimenti, scivolare fra le braccia di Giulietta e dissolversi come una strana nuvoletta di nebbia. Orrende voci beffarde, infernali, scoppiarono a singhiozzare in coro.” [7]

La natura che moltiplica, che frantuma e divide ha qui vinto e ad Erasmo non resta neanche più la speranza di ritrovare un giorno la perduta unità.

Talora, però, la donna ‘raccontata’ da Hoffmann sembra ribellarsi a questo ruolo strumentale, falso e illusorio che gli assegna il principio diabolico insito nella natura, quasi volesse rivendicare un principio diverso, quasi volesse affermare che al di là delle apparenze, che fanno del bello e del sublime un’invenzione diabolica, ci sia davvero nel più profondo di se stessa una vocazione angelica di unità e di armonia.

Insomma, il fuoco degli esperimenti di Coppelius e del padre di Nataniele non è solo il fuoco infernale che incendia e distrugge ma è anche il fuoco prometeico che cuoce e toglie via le impurità degli elementi crudi.

Nel “Vaso d'oro”che la critica unanime riconosce tra i migliori racconti, Hoffmann dispiega la sua fervida fantasia nella ricerca che lo studente Ansemo fa di un simbolo, il vaso d'oro, appunto, che ha il potere di ristabilire la perduta unità dell'uomo e della natura. Il vaso, del resto, non è che lo strumento che consente ad Anselmo di conquistare l'adorata Serpentina, la donna che gli appare in forma di serpe. La conquista di Serpentina è infine annunciata ad Anselmo quale ricompensa di una vita superiore: “Serpentina ti ama e una strana sorte le cui fila fatali sono intessute da potenze ostili, si adempirà se diventerà tua e se tu riceverai, dote necessaria, il vaso d'oro che le appartiene. Ma soltanto dalla battaglia sboccia la tua felicità di una vita superiore. Princìpi nemici agiscono e soltanto l'interiore energia con la quale resisti agli attacchi ti può salvare dall'ignominia, dalla rovina. Mentre lavori qui, tu superi il periodo di apprendista; fede e conoscenza ti conducono alla vicina meta se rimani fedele all'impresa nella quale ti sei messo.” [8]



[1] Cfr. E.T.A. Hoffmann, Racconti fantastici, trad.it. di C. Pinelli, Club Editori, 1969, p. 40

[2] Ibidem, pp.44-45

[3] Ibid., pp.46-47

[4] Ibid., pp.52-53

[5] Ibid., pp.53 e ss.

[6] Ibid., p.57

[7] Ibid., pp.21-22

[8] Cfr. E.T.A. Hoffmann, Il vaso d’oro e altri racconti, trad.it. di E.Pocar, Garzanti, 1969, p.140

Narrativa e Soprannaturale: W.S. MAUGHAM

William Somerset Maugham s'interessò del soprannaturale per quel che di satanico e misterioso c'è in esso. Quando nel 1908 pubblica "Il Mago" è forse nel suo momento migliore, con la rappresentazione contemporanea a Londra di ben quattro commedie tutte accolte da grande successo di critica e di pubblico. A ispirargli il romanzo non è solo l'interesse popolare per l'occulto, assai diffuso all'inizio del secolo, né è solo la propria personale curiosità, l'occasione propizia gli è offerta dalla conoscenza del famoso mago Aleister Crowley.

Nel romanzo, il Crowley è divenuto Oliver Haddo e il ristorante parigino, 'Le Chat Blanc', (Il Gatto bianco) nel quale avvenne il primo incontro del Maugham con Crowley, diviene 'Le Chien noir' (Il Cane nero), luogo dal quale prende forma la trama del libro.

L'intreccio del romanzo è piuttosto semplice: Arthur Burdon è un chirurgo inglese in visita a Parigi per studiare i metodi operatori dei francesi, ma anche per rivedere Margaret, la fidanzata che a Parigi studia pittura e che per reciproco accordo diverrà sua sposa dopo aver compiuto i 19 anni. Un amico di Arthur, il dottor Porhoet si incarica di sottolineare, nelle prime pagine del romanzo, la profonda diversità esistente tra i due innamorati, come tra loro lo sono il Sole e la Luna. E' qui evidente come Maugham voglia preparare i lettori alle successive e inquietanti trasformazioni della personalità di Margaret.

Prima di approfondire l'intreccio narrativo, sarà bene ricordare quanto lo stesso Crowley osserva sull'autore del romanzo che lo vede protagonista sotto le spoglie del mago Oliver Haddo. Nelle sue "Confessioni", Crowley dichiara che le battute spiritose del protagonista erano quasi tutte sue, come sua era la casa descritta dall'autore del romanzo. In un' altra opera, "Magick", pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1929, egli chiama il libro di Maugham 'un divertente pasticcio di materiale rubato'.(1)

Ecco la descrizione di Oliver Haddo alias Aleister Crowley che Maugham fa nel romanzo: “Per un attimo Oliver Haddo riprese la sua posa ad effetto, e Susie lo osservò, sorridendo. Era un uomo di mole notevole, alto sul metro e ottantacinque; ma la cosa che più lo caratterizzava era un'incredibile obesità. Il ventre era di dimensioni imponenti, il volto grosso e carnoso. Aveva assunto l'atteggiamento arrogante del ritratto di Del Borro, di Velasquez, al Museo di Berlino; e volutamente sfoggiava lo stesso sorriso sprezzante.”(2)

Una sera, la discussione dei convitati di ‘Le Chat Blanc’ s'incentra sul rapporto magia-scienza. Di fronte allo scetticismo di Arthur Burdon per tutto ciò che non è rigorosamente scientifico, interviene Oliver Haddo con la sua ironia e con la sua definizione di magia:

“[…] la magia non è altro che l'arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili. Volontà, amore, immaginazione, sono poteri magici che chiunque possiede; e chi sa come svilupparli appieno, è un mago. La magia ha un solo dogma, ovvero, che il visibile è la misura dell'invisibile”.

“Ci dica quali poteri possiede un adepto”.

“Sono elencati in un manoscritto ebraico del XVI secolo, che è in mio possesso. Ventuno sono i privilegi di colui che stringe nella mano destra le chiavi di Salomone e nella sinistra i rami del mandorlo in fiore. Costui può scorgere il volto di Dio senza morire e conversare con i sette geni che comandano l'armata celeste. E' superiore a qualsivoglia afflizione e paura. Regna in cielo e gli inferi lo servono. Detiene il segreto della resurrezione dei morti e la chiave dell’immortalità”.(3)

La narrazione continua introducendo progressivamente il lettore alla conoscenza degli strani poteri di Oliver Haddo: egli atterisce gli animali domestici e resta insensibile al morso di una vipera nota come aspide di Cleopatra. I suoi occhi hanno uno speciale magnetismo e Margaret dichiara rabbrividendo ai suoi amici: “Non ho mai incontrato nessuno che mi riempisse di tanto disgusto...Non so cosa c'è in lui che mi spaventa. Anche ora sento quei suoi occhi che mi fissano in modo strano. Spero di non rivederlo mai più”. (4) E invece Margaret subirà ben presto il fascino e la seduzione del mago sino a diventarne, agli occhi del suo fidanzato e dei suoi amici, la vittima predestinata.

Così prosegue nel romanzo la descrizione di Crowley-Haddo: “Oliver Haddo era attratto da tutto ciò che era insolito, deforme, mostruoso, da quadri che rappresentavano l'orridità dell'uomo, o che rammentavano la sua mortalità. Egli rievocò alla mente di Margaret l'intera serie degli gnomi mostruosi di Ribera, con il loro sorriso astuto, la luce folle dei loro occhi, la loro malizia: si soffermò, con orrida fascinazione, sulle loro malformazioni, sulle gobbe, sui piedi deformi, sulle teste idrocefale […] Descrisse il quadro di Valdes Leal, conservato da qualche parte a Siviglia, che rappresenta un prete davanti a un altare sontuosamente decorato d'oro e riccamente scolpito. Il prete indossa una splendita cappa e una cotta di meraviglioso pizzo, ma si ha l'impressione che il loro peso sia più di quanto può sopportare; e dalle sue mani scarne e tremanti, dal suo volto bianco, cereo, dalla scura cavità dei suoi occhi, traspare la terrificante corruzione del corpo […] Poi, come seguendo un piano preciso, egli analizzò con intensità inquisitoria, veemente, lo strano talento di quel francese moderno, Gustave Moreau. Poco tempo prima, Margaret aveva visitato il Luxembourg e i quadri visti erano ancora vivi nella sua mente. Vi aveva trovato poco più che un gusto decorativo guastato da un'imperfetta abilità nel disegno. Ma Oliver Haddo riuscì d'un sol tocco a conferire a essi un nuovo, esoterico significato. Quegli effetti tipici d'un gioiello fiorentino, grappoli di colore, smeraldo e rubino, l'azzurro profondo dello zaffiro, l'atmosfera di stanze profumate, i mistici che sembrano sempre impegnati in riti segreti, religiosi; tutto ciò si fondeva nelle sue labili frasi, per creare nell'anima di lei quasi un disegno dall'intreccio morboso e misterioso”.(5)

Alla vigilia delle nozze con Arthur Burdon, Margaret fugge col mago e lo sposa. L'incredulo fidanzato della ragazza si dice convinto che un demonio deve essersi impadronito del corpo di Margaret. La sua fede nella sola verità della scienza sembra ormai vacillare. Susie, l'amica di Margaret, corre in Europa sulle tracce degli sposi e finalmente li scova a Montecarlo davanti a un tavolo da gioco. Il libro si chiude con l’esplicito richiamo alle fanciulle vergini che, per opinione diffusa, erano utilizzate nelle operazioni di magia pratica:

“ Susie fissò la sua attenzione su Margaret...Ciò che più la colpì in quel momento fu il fatto che l'espressione di Margaret aveva una curiosa rassomiglianza con quella di Haddo. Nonostante la sua squisita bellezza, c'era in lei un'aria stranamente viziosa, come a suggerire che in qualche modo vedeva letteralmente con gli occhi di Oliver. Quella sera avevano vinto forti somme ed erano in molti ad osservarli. A quanto pareva giocavano sempre in quel modo, Margaret che puntava e Haddo che le diceva cosa fare e quando fermarsi. Susie sentì due francesi che parlavano di loro. Si fece tutta orecchi: Arrossì sentendo uno di loro che faceva un'osservazione su Margaret, a dir poco volgare. L'altro rise: 'E' incredibile', disse.

“Ti assicuro che è vero. Sono sposati da sei mesi, e lei è sua moglie ancora solo di nome. Da sempre i superstiziosi credono nel potere della verginità, e la Chiesa ha sfruttato l'idea per i suoi fini. Quell'uomo la usa semplicemente come mascotte…”. (6)

Dalla magia sessuale alla Qabbalah e all’Alchimia: non mancano i riferimenti di Maugham. Resta l’incapacità dello scrittore, al di là di certe note erudite o di certi luoghi comuni, di presentare ai lettori, con qualche attendibilità, antiche dottrine e pratiche magiche e, soprattutto, di far comprendere il reale significato che questo sapere iniziatico ebbe nell’operare del Crowley. Per la Qabbalah, ci si limita a qualche dato, tra storia e metastoria, (7) mentre le citazioni sull’alchimia mirano a sbalordire e incuriosire il lettore, come nelle dichiarazioni del dottor Porhoet o come nel successivo dialogo tra lo stesso dottore e Susie. (8)

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(1) In Magick il famoso mago inglese tratta di Yoga, della magia cerimoniale insegnata nella Golden Dawn (ordine iniziatico di cui fu membro tra il 1898 e il 1900), nonché del suo occultismo pratico. Nell’edizione italiana del libro (Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1976), è riportata, nella Premessa del volume (pp.15-16), parte della poesia del Crowley intitolata “Aha!”. Ci sembra utile riproporla per i lettori, unitamente a due note esplicative, perché costituisce una sorta di ‘manifesto’ dell’operare magico di Crowley:

Sette sono le chiavi della grande porta (I sette chakra o ruote di energia occulta nell’anatomia sottile dell’uomo. La grande porta è la porta della Liberazione) / Essendo otto in una ed una in otto (Quando i sette chakra sono pienamente destati, creano una sintesi, che può essere considerata come l’ottavo chakra). / Per prima cosa, sia immobile il tuo corpo, Avvolto nel sudario della volontà / Rigido come cadavere; così potrai abortire / I bimbi nevrotici che solleticano il pensiero / Poi, regola il tuo ritmo del respiro: /Sia basso, agevole, regolare e lento; / Così che l’esser tuo sia in sintonia / Con il sonno del grande Mare Pacifico. / Terzo: sia pura e calma la tua vita, / Ondeggi dolcemente come una palma in assenza di vento. / Quarto: la volontà di vivere sia legata / All’unico, grande amore del profondo. / Quinto: lascia che il tuo pensiero, divinamente libero / Dai sensi, osservi la sua entità. / Sorveglia ogni pensiero che scaturisce: accresci ora per ora la tua vigilanza! / Intensa e acuta, volta all’interno, non si lasci / Sfuggire un solo atomo d’analisi! / Sesto: su di un solo pensiero ben fissato / Arresta ogni bisbiglio del vento! / Come una fiamma eretta e immota, / Brucia l’essere tuo in una parola! / Acquieta poi quell’estasi, prolunga / La tua meditazione salda e forte, / Uccidendo anche Dio, s’Egli distrae / La tua attenzione dall’atto prescelto! / Infine, soverchiate tutte queste cose, / E’ tempo che fiorisca il fiore di mezzanotte! / L’unità è compiuta. Eppure, persino in questo, / Figlio mio, tu non ti sbaglierai / Se freni l’espressione, se lanci / Lo sguardo alla radice oscura dell’estasi, / Obliando nome, forma, vista, tensione, / Anche di tale alta coscienza; / Penetra fino al cuore! E qui ti lascio. / Tu sei il Maestro. Io rendo omaggio / Al tuo splendore che lontano irraggia, / O Fratello dell’Astro d’Argento!

(2) Cfr. W.S. Maugham, Il Mago, trad. it. di P. Faini, B.E. Newton, 1995, p.40

(3) Ibidem, pp.46-47

(4) Ibid.,p.50

(5) Ibid., p.91

(6) Ibid., p.123

(7) ‘Avevo quasi dimenticato il più splendido, il più misterioso di tutti i libri che trattano di scienza occulta. Avrà certo sentito parlare della Khabbala , ma dubito che per lei sia qualcosa più d’un nome.’ ‘Non ne so assolutamente nulla’ disse Susie ridendo, ‘se non che è tutto molto romantico, straordinario, ridicolo.’

‘Ecco dunque la sua storia. Mosè, che conosceva a fondo tutta la saggezza dell’Egitto, fu in un primo tempo iniziato alla Khabbala nella sua terra di nascita; ne divenne esperto durante il suo girovagare per terre selvagge. In quei luoghi, per quarant’anni, egli non solo dedicò il suo tempo libero a questa scienza misteriosa, ma fu istruito da un angelo misericordioso (…) Egli celò i principi di quella dottrina nei primi quattro libri del Pentateuco, ma non consentì che fossero inseriti nel Deuteronomio. Mosè iniziò a questi segreti anche i settanta saggi ed essi li trasmisero a loro volta. Di tutti coloro che formavano la linea ininterrotta della tradizione, Davide e Salomone furono i più dotti nella Khabbala. Nessuno, tuttavia, osò mettere per iscritto questi segreti, fino a Schimeon Ben Jochai, che visse al tempo della distruzione di Gerusalemme; dopo la sua morte, Rabbi Eleazar, suo figlio, e Rabbi Abba, suo segretario, raccolsero i suoi manoscritti e da essi composero il famoso trattato chiamato Zohar

‘E quanta parte di questa meravigliosa storia ritiene che sia vera? Chiese Arthur Burdon.

‘Neanche una parola’ rispose il dottor Porhoet, con un sorriso. I critici hanno dimostrato che lo Zohar è di origine moderna (…) Fu qualche tempo dopo il 1291 che alcune copie dello Zohar cominciarono a esser diffuse da un ebreo spagnolo, un certo Moses de Leon, il quale dichiarava di possedere un manoscritto autografo del famoso autore Schimeon Ben Jochai…’ Cfr. op.cit., pp.60-61

(8) ‘Prendi la Tintura Physicorum, che né papi né imperatori avrebbero potuto comperare, nonostante tutte le loro ricchezze. Fu uno dei più grandi misteri alchemici, e sebbene sia menzionata in molte opere di occultismo con il termine di Leone Rosso, in realtà, prima di Paracelso era nota a ben pochi, se si escludono Hermes Trismegistus e Alberto Magno. La sua preparazione era estremamente complessa, essendo necessaria la presenza di due persone perfettamente in armonia e di pari competenza. Si diceva che fosse un fluido rosso ed etereo. La meno meravigliosa delle sue virtù era il potere di trasformare tutti i metalli vili in oro.’ (…)

‘Ma quello che preferisco è il Primum Ens Melissae. Per la sua preparazione viene data un’elaborata ricetta. E’ un rimedio per prolungare la vita, e non solo Paracelso, ma anche i suoi predecessori Galeno, Arnoldo di Villanova e Raymond Lulli, si erano tormentati nella sua ricerca’

‘Riuscirà a farmi tornare a diciotto anni?’, esclamò Susie.

‘Sicuramente’, rispose serio il dottor Porhoet. Cfr. op.cit., p.79