Scrittore brasiliano della cosiddetta New Age, Paulo Coelho conosce il successo con L'Alchimista, il romanzo pubblicato nel 1988. La favola, che in realtà è una vera e propria metafora iniziatica, si annuncia con una prefazione dell'autore che ne spiega il senso e la ragione:
“Ho studiato Alchimia per undici anni. La semplice idea di trasformare i metalli in oro o di scoprire l'Elisir di Lunga Vita era già di per sé abbastanza affascinante da attrarre l'attenzione di qualunque apprendista nel campo della Magia. Confesso che l'Elisir di Lunga Vita era comunque ciò che esercitava su di me la maggior seduzione: ancor prima di capire e di sentire la presenza di Dio, l'idea che un giorno tutto sarebbe finito mi rendeva disperato. Così che, quando seppi della possibilità di ottenere un liquido in grado di prolungare per lunghi anni la mia esistenza, decisi di dedicarmi anima e corpo alla sua fabbricazione.” [1]
Utilizzando discretamente gli aspetti esoterici di diverse tradizioni, anche religiose, Coelho costruisce una storia di delicata poesia in un linguaggio semplice e tuttavia denso di significati complessi. Il sogno ricorrente del pastorello andaluso, di trovare un tesoro, è in fondo il sogno ricorrente di ognuno di noi: si tratti dell' alchimista che cerca la pietra filosofale o l’oro dei filosofi, si tratti dell'uomo comune che, nel raggiungimento dell'amore e del benessere, spera di cogliere il fondamento della propria felicità.
Santiago è un pastore di 23 anni che sa leggere e scrivere perché è stato in seminario e ha studiato latino, spagnolo e teologia. Il suo sogno ricorrente di trovare un tesoro è in realtà parte di un altro sogno che aveva sin da bambino, quello di viaggiare, di conoscere il mondo. Pensando che è proprio la possibilità di realizzare un sogno che rende la vita interessante, una sera si reca in città da una zingara:
“Ho fatto lo stesso sogno due volte di seguito, disse. Ho sognato di trovarmi in un pascolo con le mie pecore ed ecco che appariva un bambino che cominciava a giocare con gli animali (...) E poi, all'improvviso, mi prendeva per la mano e mi conduceva fino alle Piramidi d'Egitto (…) mi diceva: ‘Se verrai fin qui -mi diceva- troverai un tesoro nascosto’ (…) La vecchia si mantenne silenziosa ancora per un pò di tempo. Poi afferrò di nuovo le mani del ragazzo per studiarle attentamente. Adesso non ti chiedo niente, gli disse. Ma voglio un decimo del tesoro, se lo troverai (...) E' un sogno che appartiene al linguaggio del Mondo, spiegò lei (…) devi andare fino alle Piramidi d'Egitto. Io non ne ho mai sentito parlare, ma se chi te le ha indicate è un bambino, allora esse esistono. Là troverai un tesoro che ti farà ricco.” [2]
Dalla zingara, Santiago non riesce a sapere molto di più finché non si imbatte in un vecchio che dice di essere re di Salem e di chiamarsi Melchisedek. E’ qui evidente, anche nel nome del vecchio re, l’influenza della tradizione ebraica. Il re lo sollecita a compiere il viaggio sino alle Piramidi perché egli possa vivere la propria ‘Leggenda Personale’ e non consenta che la sua vita, come succede a molti, ad un certo punto si trasformi in destino [3]: “Il ragazzo non sapeva neppure che cosa fosse la Leggenda Personale. E' quello che hai sempre desiderato fare. Tutti, all'inizio della gioventù, sanno qual'è la propria leggenda personale. In quel periodo della vita tutto è chiaro, tutto è possibile, e gli uomini non hanno paura di sognare e di desiderare tutto quello che vorrebbero veder fare nella vita. Ma poi, a mano a mano che il tempo passa, una misteriosa forza comincia a tentare di dimostrare come sia impossibile realizzare la Leggenda Personale (...) esiste una grande verità su questo pianeta: chiunque tu sia o qualunque cosa tu faccia, quando desideri una cosa con volontà è perché questo desiderio è nato nell'anima dell'Universo. Quella cosa rappresenta la tua missione sulla Terra (...) Realizzare la propria Leggenda Personale è il solo dovere degli uomini. Tutto è una sola cosa. E quando tu desideri qualcosa, tutto l'Universo cospira affinché tu realizzi il tuo desiderio.” [4]
Il vecchio re rivela al pastore che per arrivare al tesoro deve seguire i segnali che Dio ha scritto nel mondo per il cammino di ogni uomo; come viatico per il viaggio gli narra la storia del ragazzo che andò a trovare un saggio per conoscere il segreto della felicità: deve attendere, ma intanto faccia un giro per il magnifico castello badando a non far cadere due gocce d'olio contenute in un cucchiaino. Al ritorno, le gocce sono al loro posto ma il ragazzo non sa dire nulla su ciò che ha visto, viene dunque invitato a ripetere il giro: questa volta il ragazzo descrive tutto ciò che di bello c'è nel palazzo ma il cucchiaino torna vuoto. Il ragazzo comprende che il segreto della felicità è nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d'olio del cucchiaino. Infine, il vecchio re consegna un dono al pastore:
“Il vecchio, poi, aprì il mantello che gli copriva il petto. Il ragazzo fu colpito da ciò che vide, e ripensò al bagliore che aveva notato il giorno prima. Il vecchio indossava un pettorale d'oro massiccio, tempestato di pietre preziose. Era davvero un re. Doveva essersi camuffato così per sfuggire agli assalti dei briganti.
Prendi, disse il vecchio, togliendo una pietra bianca e una pietra nera che erano incastonate nel centro del pettorale d'oro. Si chiamano Urim e Tumin. La pietra nera vuol dire si, la bianca vuol dire no. Quando non riuscirai a scorgere i segnali, loro ti saranno di aiuto. Fai sempre una domanda chiara. Ma cerca, in genere, di prendere tu le decisioni...” [5]
Nella tradizione ebraica Urim e Tumim sono le sorti sacre, sino alla distruzione del Tempio unica forma consentita di divinazione, insieme ai sogni e alle parole dei profeti. Consistevano forse di due pietre dure incise o più probabilmente di gemme che riflettevano la luce, cristalli di rocca o addirittura diamanti, sui quali il Gran Sacerdote si concentrava prima di emettere il responso che non consisteva in un semplice si o no ma in sentenze più o meno lunghe. Il Gran Sacerdote, al quale soltanto era consentita la divinazione, le custodiva nella tasca interna del pettorale, anche se Giuseppe Flavio, al quale Coelho si ricollega, le dice al centro del pettorale tra le 12 pietre preziose rappresentative dei 12 segni dello zodiaco. E' certo che il loro potere derivasse dall'astrologia rappresentando il Sole e la Luna, come dicono alcuni o, come dicono altri, rispettivamente gli Urim i due luminari e i Tumim i cinque pianeti noti agli antichi. [6]
La ricerca del tesoro continua tra mille avventure e il pastore andaluso accresce la propria conoscenza venendo in possesso di alcuni libri: “Erano libri strani. Parlavano di mercurio, sale, draghi e re, ma lui non riusciva a capire nulla. Eppure c'era un'idea che sembrava ripetersi in quasi tutti i libri: tutte le cose erano manifestazioni di una cosa sola. In un libro scoprì che il testo più importante dell'Alchimia conteneva solo poche righe, ed era stato scritto su un semplice smeraldo”[7]
E' questa la Tavola di Smeraldo [8] di cui il pastore sente parlare dall'Alchimista, conosciuto dopo molte peripezie e quando ormai è sul punto di arrivare alle Piramidi. Con l’aiuto dell’Alchimista, il ragazzo apprende che la Grande Opera si compone di due parti: la ricerca dell’elisir di lunga vita, che cura tutte le malattie e impedisce all’alchimista di invecchiare, e la ricerca della pietra filosofale, di cui basta anche una piccola scheggia per trasformare in oro ogni metallo.
‘Dovrei comprendere la Tavola di Smeraldo?’Chiede il ragazzo all'Alchimista e quello gli risponde che è sufficiente ascoltare il suo cuore perché egli sta ormai vivendo la propria ‘Leggenda Personale’.
Il tema della leggenda personale torna anche nell'altro romanzo di Paulo Coelho, “Monte Cinque”, del 1996, dove si narrano le vicende del profeta Elia coinvolto nelle guerre tra Fenici ed Assiri e dove Baal e gli altri dei del Monte Cinque sono visti in contrapposizione all'unico Dio di Israele. L’ispirazione biblica del romanzo è ben evidente per gli espliciti riferimenti al 1 Re, al Deuteronomio, al Levitico e al Genesi. Qui, a differenza che nell'Alchimista, leggenda personale e destino s'identificano: ciò che è scritto nel mio destino accadrà dice Elia e ogni ubris gli è vietata: egli deve solo imparare a riconoscere i segni di Dio:
“Elia alzò di nuovo le braccia al cielo: ‘il mio popolo si è allontanato dal Signore a causa della bellezza di una donna. La Fenicia può essere distrutta perché un sacerdote è convinto che la scrittura sia una minaccia per gli dei. Perché Colui che ha creato il mondo preferisce servirsi della tragedia per scrivere il libro del destino?’
Le urla di Elia riecheggiarono nella valle e gli ritornarono alle orecchie.
‘Tu non sai quello che dici’ rispose l'angelo. ‘Non c'è nessuna tragedia, ma l'inevitabile. Tutto ha la sua ragione d'essere: devi solo saper distinguere fra ciò che è transitorio e ciò che è definitivo.’
‘Che cos'è transitorio?’ Domandò Elia.
‘L'inevitabile.’
‘E che cos'è definitivo?’
‘Le lezioni dell'inevitabile.’
E dicendo questo l’angelo si allontanò.” [9]
Più che mai convinto di un unico disegno provvidenziale e divino che esclude ogni causalità e ogni dualismo, Coelho finisce implicitamente con l’affermare che bene e male sono soltanto momenti transitori e necessari del nostro cammino personale e collettivo.
Nel romanzo che cronologicamente si colloca giusto in mezzo agli altri due: “Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto” del 1994, si narra la storia d'amore tra una donna senza fede e un sacerdote-guaritore. Coelho si sforza qui di ricondurre ad unità un altro apparente dualismo: quello tra aspetto maschile e aspetto femminile della divinità.
Pur con qualche compiacimento descrittivo per antiche divinità femminili rappresentative della Grande Madre, l'autore, che si professa cattolico, rivendica l'ortodossia di una tesi che si richiama al noto versetto del Genesi: 'Dio creò l'uomo a Sua immagine e somiglianza, maschio e femmina lo creò'.
“Nella Bibbia -scrive Gustav Dreifuss- gli opposti maschio-femmina trovano la loro espressione poetica nel cantico dei Cantici, ed è soprattutto al Cantico dei cantici che la Cabbalà attinge le immagini per elaborare la sua visione degli opposti.
La letteratura cabbalistica è ricca di simboli femminili, Nel Sefer Bahir Scholem ne ha individuati principalmente quattro: la Sposa, la Figlia del Re, la Shekinà e la Congregazione d’Isreale a cui si aggiungono i simboli della terra (che concepisce) e della luna, e quelli dell’etrog (il cedro), frutto dell’albero della bellezza, e del dattero, che è immagine del sesso femminile. [10]
Se la cultura cristiana ha elaborato la sua idea dell’unione degli opposti nella cornice dell’alchimia, la Cabbalà ha invece formulato le sue idee nel sistema delle Sefirot…” [11]
L’esperienza unitiva dei due protagonisti del romanzo è descritta, proprio come nel Cantico dei Cantici, in linguaggio cabbalistico. E’ un’esperienza del cuore e dell’equilibrio, è l’unione delle sephiroth Gevurah (Rigore) e Hesed (Misericordia) in Tephereth (Armonia): “Abbiamo fatto l’amore (…) Ci siamo ubriacati tre volte. Siamo stati sulle montagne. Abbiamo trovato un equilibrio tra il Rigore e la Misericordia.” [12]
L’unione del maschio e della femmina si era già annunciata nel simbolismo biblico e alchemico: “Abbiamo vagato per ore a digiuno, nella neve; lungo la strada, abbiamo preso il caffè del mattino in un piccolo paese di cui non saprò mai il nome: lì c'è una fontana con una scultura raffigurante un serpente e una colomba fusi in un'unica creatura.
Vedendola ha sorriso.
‘E' un segnale. Il maschile e il femminile uniti nella stessa figura’ ” [13]
sergio magaldi
[1] Cfr. P. Coelho, L’Alchimista, Mondadori, 1966, p.9
[2] Ibidem, pp.28-29
[3] Sul tema del destino e della leggenda personale, cfr. J. Hillman, Il codice dell’anima, trad. it. A.Bottini, Adelphi, Milano, 1997; in particolare le pp.241 e ss.
[4] Ibidem, pp.37-38
[5] Ibid., p.45
[6] Sul pettorale del Gran Sacerdote, sulle dodici pietre, su Urim e Tumim, crf. J. Halbronn, Le Monde Juif et l’Astrologie, Archè, Milano,1985, pp.207 e ss.
[7] Cfr. Op.Cit., p.93
[8] Tra le molte traduzioni della Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto, si vedano: La biblioteca alchemica, (che contiene diversi testi della tradizione alchemica) a cura di R. e S. Piccolini, Meb, Padova, 1990, p.29; F. Bonardel, La via ermetica, trad. it. M. Pasi, Atanòr, Roma, 1998, p. 25.
Per un’ampia analisi del libro della Bonardel, si veda la recensione, a cura dell’autore del presente articolo, su questo stesso numero di Luz (N.d.E.)
[10] L’unione del maschio e della femmina è rappresentata dal frutto della palma da dattero e nel Sefer Bahir si legge: ‘Il ramo di palma, il lulav, è maschile, mentre il frutto è maschile all’esterno e femminile all’interno. In che modo? Mediante il nocciolo della palma, che reca una fenditura, come la donna: a esso corrisponde in cielo la forza della luna…” Cfr. Sefer Ha-Bahir, 198, in Mistica Ebraica, Einaudi, Torino, 1995, pp.151-212
[11] Cfr. G. Dreifuss, Maschio e femmina li creò. L’amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, trad. it. M. Ventura, Giuntina, Firenze, 1996, p.54. Per il riferimento al simbolismo sefirotico e a quello dei Partzufim (volti) della Qabbalah luriana si vedano le pp. 55-70. Sull’intera questione si veda tutta la parte III, Sessualità e amore.
[12] Cfr. P. Coelho, Sulla sponda del fiume Pedra mi sono seduta e ho pianto, trad. it. R. Desti, Bompiani, Milano, 1996,
p.173
[13] Ibidem, p.91
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