mercoledì 17 novembre 2010

Narrativa e soprannaturale: E.T.A. HOFFMANN

Hoffmann riempì le pagine dei suoi racconti di un particolare incantamento, creando personaggi e atmosfere come sospesi tra realtà e sogno. Il suo 'magismo' non è mai fuga dalla realtà perché proprio dalla realtà trae vigore. I suoi fantasmi -come ha ben osservato Heine- sono tanto più inquietanti perché 'vanno a spasso in pieno giorno sul mercato e si comportano come ognuno di noi'. Realismo magico quello di Hoffmann e che dopo di lui avrà solo un altro grande interprete in Kafka, in una dimensione, certo, non più romantica ma sottilmente metafisica ed esistenziale. L'abilità narrativa di Hoffmann è, appunto, in quel confondere di continuo i piani della realtà e del sogno lasciando al lettore il compito di riordinarli.

Nel L'uomo della sabbia che fa parte dei Notturni di Callot del 1817, Nataniele, il protagonista, ricorda in una lettera il terrore che, durante l'infanzia, ispirava in lui l'uomo della sabbia percepito come l'uomo cattivo, questo misterioso visitatore di suo padre che puntualmente alle nove della sera bussava alla porta della sua casa e faceva dire alla mamma: “Su, bambini, a letto, a letto! Viene l'uomo della sabbia, l'ho bell'e visto” e subito dopo aggiungere: “non c'è nessun Uomo cattivo piccolo mio (...) quando dico: viene l' Uomo della Sabbia, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tenere più gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato la sabbia in viso.” [1]

Una sera Nataniele si nasconde e riconosce nell'uomo della sabbia il vecchio avvocato Coppelius che talvolta era in casa sua a desinare. La descrizione di questa figura diabolica si colora nel finale di garbata ironia : “immaginati un uomo alto di statura e largo di spalle, con una grossa testa informe, il viso giallastro, due sopracciglia grigie e arruffate sotto le quali scintillano un paio di occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto, un grande naso che pende sopra il labbro. La bocca storta si spalanca spesso per una risata odiosa; e allora sulle guance gli si accendono due macchie rosse ed uno strano sibilo gli esce dai denti stretti. Coppelius arrivava sempre con una giacca di taglio antico, color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguali, calze nere e scarpe con una piccola fibbia; aveva un parrucchino che gli arrivava a malapena a metà testa; le ciocche appiccicate sopra due grandi orecchie rosse, ed un codino attorcigliato e spettinato che gli si alzava sopra la nuca scoprendo la fibbia d'argento che sosteneva la cravatta increspata...” [2]

Il racconto di Nataniele prosegue con la rivelazione di ciò che vede, finché, preso dallo spavento, non riesce più a celare la propria presenza. Nel brano che segue si nota il voluto intrecciarsi dei piani della realtà e del sogno secondo quanto si diceva prima e che costituisce una caratteristica pregevole e non secondaria nella tecnica narrativa di Hoffmann. Al racconto di Nataniele, infatti, tutto intriso di un realismo di cui nessun lettore dubiterebbe, lo scrittore fa seguire il risveglio del protagonista 'come da un sogno mortale': “Ero come incantato. Esponendomi al rischio di essere scoperto e, come m'immaginavo, severamente punito, rimasi dov'ero, spiando con la testa fuori della tenda. Mio padre accolse Coppelius con solennità. 'Su, al lavoro!' esclamò questi con la sua voce rauca, imperiosa, e si levò la giacca. Senza dir nulla e col volto imbronciato, anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri...Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio, ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto fosse un armadio, era invece un grande vano nero aperto nel muro, nel quale si trovava un focolare. Coppelius vi si avvicinò e ben presto una fiamma azzurra incominciò a crepitare sul fornello... Oh Dio! Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto mi parve completamente trasformato! Un dolore orribile, convulso pareva che avesse sconvolto i suoi lineamenti dolci e sinceri, trasformandoli in una orribile maschera diabolica. Assomigliava a Coppelius. Questi brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti che poi batteva furiosamente col martello. Mi sembrava che tutto all'intorno comparissero volti umani, ma senza occhi, con orribili, profonde occhiaie nere, invece degli occhi.”[3]

La successiva lettera che Clara invia a Nataniele non fa che continuare ad alimentare il dubbio nel lettore circa i confini tra realtà e fantasia: “Ah, Nataniele mio, amato dell'anima mia; che cosa terribile doveva essere successa nella tua vita!.......La tua descrizione dell'abominevole Coppelius è spaventosa. Solo così ho appreso di che terribile morte violenta è morto il tuo vecchio e buon papà.......ti voglio dire senza reticenze che sono persuasa che tutte le cose orribili e paurose delle quali tu parli, sono avvenute solamente dentro di te, e che il mondo esteriore, vero e reale, vi abbia poca parte.......Naturalmente nel tuo animo infantile lo spaventoso Uomo della sabbia...si confuse col vecchio Coppelius, che, se anche non credevi più all'Uomo cattivo, rimase per te un mostro spettrale, particolarmente pericoloso per i bambini.” [4]

Nell'ascoltare le parole di Clara nessuno dubiterebbe del buon senso della ragazza, tutto pervaso di moderne intuizioni psicologiche, se non fosse poi che dall'intero racconto emerge un Coppelius davvero diabolico e capace di delitti. L'abilità di Hoffmann è proprio in quel costringere il lettore ad interrogarsi: Coppelius è come lo vede Clara o come lo dipinge Nataniele?

“La notte – continua la lettera di Clara – i due facevano insieme esperimenti alchimistici, per cui tua madre non poteva essere tanto contenta giacché l'animo di tuo padre, tutto occupato dall'illusoria ricerca della saggezza, veniva estraniato dalla famiglia. Non c'è dubbio che tuo padre ha provocato la propria morte con qualche imprudenza e che Coppelius non ne ha nessuna colpa [...] Se vi è una forza oscura che ripone a tradimento nel nostro cuore un filo...essa deve assumere il nostro aspetto, divenire, anzi, noi stessi; perché solo così possiamo credere in essa e darle il modo di compiere la sua opera segreta [...]Ti prego, bandisci completamente dai tuoi pensieri l'orribile avvocato Coppelius e l'uomo dei barometri, Giuseppe Coppola. Persuaditi che queste figure estranee non hanno nessun potere su di te! Solo la tua fede nella loro forza nemica te le può rendere nemiche di fatto...” [5]

La replica di Nataniele a Lotario, fratello di Clara, è ironica e la dice lunga su ciò che Hoffmann pensasse di certe semplificazioni della ragione: “Clara...mi ha scritto una lettera molto profonda e filosofica nella quale mi dimostra per filo e per segno che Coppelius e Coppola esistono solo dentro di me e sono fantasmi del mio io che cadrebbero istantaneamente in polvere, non appena li riconoscessi come tali. Difatti, non si crederebbe che lo spirito che trapela così spesso da quei due occhi chiari e sorridenti di bambina come un sogno soave, possa essere così giudizioso e fare queste distinzioni scolastiche....Sembra che tu le tenga un corso di logica perché impari a comprendere e a distinguere tutto così sottilmente!' [6]

Nei racconti di Hoffmann, il diabolico si manifesta in leggiadre forme di donna, né la cosa sorprende, visto il consueto accostamento tra la natura e il femminile. Se chi muove le fila è un principio animatore, misterioso e diabolico, che ha sembianze maschili, lo strumento che divide è sempre una donna di bellezza tanto esemplare da essere fredda e meccanica, come nel caso di Olimpia, la figlia-oggetto di Coppelius. Altre volte è creatura che alla bellezza aggiunge l’apparente e sfuggente spiritualità di un angelo come in Giulietta di Storia del riflesso perduto, che fa parte dei “Frammenti fantastici alla maniera di Callot”.

Nel racconto, Erasmo Spikher si innamora perdutamente di Giulietta sino al punto di cedergli il proprio riflesso: “ ‘Tu stai pensando a tua moglie, vero?…’ gli domandò Giulietta in uno strano modo; ‘Ah, Erasmo… tu mi dimenticherai molto presto…’ ‘Potessi essere tuo per tutta l’eternità!…’ sospirò lui: Essi stavano davanti alla bella e grande specchiera appesa alla parete del salotto con due candele accese ai lati; Giulietta strinse Erasmo a sé, più forte, più teneramente e bisbigliò: ‘Lasciami il tuo riflesso… Almeno questo sarà mio per sempre’ […] Erasmo vide la propria immagine venire avanti, indipendentemente dai propri movimenti, scivolare fra le braccia di Giulietta e dissolversi come una strana nuvoletta di nebbia. Orrende voci beffarde, infernali, scoppiarono a singhiozzare in coro.” [7]

La natura che moltiplica, che frantuma e divide ha qui vinto e ad Erasmo non resta neanche più la speranza di ritrovare un giorno la perduta unità.

Talora, però, la donna ‘raccontata’ da Hoffmann sembra ribellarsi a questo ruolo strumentale, falso e illusorio che gli assegna il principio diabolico insito nella natura, quasi volesse rivendicare un principio diverso, quasi volesse affermare che al di là delle apparenze, che fanno del bello e del sublime un’invenzione diabolica, ci sia davvero nel più profondo di se stessa una vocazione angelica di unità e di armonia.

Insomma, il fuoco degli esperimenti di Coppelius e del padre di Nataniele non è solo il fuoco infernale che incendia e distrugge ma è anche il fuoco prometeico che cuoce e toglie via le impurità degli elementi crudi.

Nel “Vaso d'oro”che la critica unanime riconosce tra i migliori racconti, Hoffmann dispiega la sua fervida fantasia nella ricerca che lo studente Ansemo fa di un simbolo, il vaso d'oro, appunto, che ha il potere di ristabilire la perduta unità dell'uomo e della natura. Il vaso, del resto, non è che lo strumento che consente ad Anselmo di conquistare l'adorata Serpentina, la donna che gli appare in forma di serpe. La conquista di Serpentina è infine annunciata ad Anselmo quale ricompensa di una vita superiore: “Serpentina ti ama e una strana sorte le cui fila fatali sono intessute da potenze ostili, si adempirà se diventerà tua e se tu riceverai, dote necessaria, il vaso d'oro che le appartiene. Ma soltanto dalla battaglia sboccia la tua felicità di una vita superiore. Princìpi nemici agiscono e soltanto l'interiore energia con la quale resisti agli attacchi ti può salvare dall'ignominia, dalla rovina. Mentre lavori qui, tu superi il periodo di apprendista; fede e conoscenza ti conducono alla vicina meta se rimani fedele all'impresa nella quale ti sei messo.” [8]



[1] Cfr. E.T.A. Hoffmann, Racconti fantastici, trad.it. di C. Pinelli, Club Editori, 1969, p. 40

[2] Ibidem, pp.44-45

[3] Ibid., pp.46-47

[4] Ibid., pp.52-53

[5] Ibid., pp.53 e ss.

[6] Ibid., p.57

[7] Ibid., pp.21-22

[8] Cfr. E.T.A. Hoffmann, Il vaso d’oro e altri racconti, trad.it. di E.Pocar, Garzanti, 1969, p.140

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