lunedì 28 settembre 2015

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

A.Tornielli-G.Galeazzi, Papa Francesco Questa economia uccide, Piemme, 2015, pp.221


  Se mai ce ne fosse bisogno, il recente viaggio del Papa dimostra ancora una volta quanto sia più importante la comunicazione attraverso la tv e la rete, di quella che utilizza la carta stampata, che si tratti di libri, articoli, interviste e/o documenti ufficiali.

 In questi giorni, dopo l’ascolto in diretta delle parole pronunciate dal Pontefice a Cuba, davanti al Parlamento degli Stati Uniti e all’assemblea dell’Onu, l’opinione pubblica ritiene di aver scoperto elementi nuovi e definitivi su Papa Francesco. Si assiste così all’esaltazione entusiastica della sua figura da parte di una sinistra genericamente intesa e, di contro, alla critica più o meno garbata di una destra altrettanto genericamente intesa, circa i concetti da lui formulati in tali solenni occasioni. In realtà si tratta, mutatis mutandis, di affermazioni contenute già nell’esortazione apostolica  di circa due anni fa, l’ Evangelii Gaudium, e peraltro già note da tempo a chi si sia preso la briga di leggere una delle tante biografie in circolazione su Jorge Mario Bergoglio.  

 E per chi ama le sintesi, Papa Francesco Questa economia uccide – scritto da due vaticanisti di La Stampa e pubblicato da Piemme a inizio d’anno – quei concetti riassume, corredandoli di critiche del mondo anglosassone, cattolico e non, e di interviste, tra cui la più interessante è sicuramente quella con il Papa. Il fatto è che da decenni Bergoglio va dicendo più o meno le stesse cose. Certo, una cosa è dirle da superiore provinciale dei gesuiti, un’altra da vescovo, un’altra ancora da arcivescovo di Buenos Aires, e non c’è dubbio che ripetendole da papa, esse acquistino una risonanza planetaria.

 Innanzi tutto, gli autori respingono l’dea che in Vaticano si sia installato un marxista, un pontefice che si ispiri alla Teologia della liberazione. E questo è già noto da tempo. Scrivevo in un post [Francesco l’imperscrutabile, clicca sul titolo per leggere tutto], in merito alla biografia di Papa Francesco, positivamente tratteggiata dal vaticanista inglese Austen Ivereigh:

 “La realtà dei gesuiti argentini di quegli anni era molto complessa. C’era chi sosteneva la Teologia della Liberazione, non nascondendo le proprie simpatie per il marxismo e chi, come Bergoglio, si richiamava alla Teologia del Popolo [Il santo pueblo fiel de Dios] e al documento di Medellin che, sulla scia del Concilio Vaticano II, ampliò l’idea cristiana di liberazione e sottolineò la necessità di accogliere e soccorrere i poveri, mettendo tuttavia in guardia sia nei confronti del marxismo che del liberalismo. I sostenitori di queste concezioni simpatizzavano tutti per il peronismo, ma quando lo scontro sociale e l’instabilità politica si fece più forte, i peronisti [e di riflesso coloro che li appoggiavano] si divisero in una sinistra estrema, formata dai Montoneros e da altri gruppi di guerriglieri di ispirazione trotzkista, da un centro chiamato Guardia de hierro [Guardia di ferro] che ebbe il sostegno di Bergoglio, e da una estrema destra che anticipò le nefandezze di cui più tardi si rese colpevole la Giunta Militare. Lo stesso autore racconta che, dopo il crollo della dittatura e il ritorno alla democrazia parlamentare, Bergoglio fu isolato da una parte preponderante dei gesuiti del suo Paese che lo considerava un populista di destra [uno strano paradosso per un uomo che oggi in Italia piace ai radicali e alla sinistra e molto meno alla destra!]. Trascorse ritirato un paio di anni a Cordoba, privato di ogni potere, finché il Vaticano si ricordò di lui con la nomina a vescovo, poi ad ausiliario dell’arcivescovo di Buenos Aires, quindi ad arcivescovo della stessa città, e infine a cardinale nel 2001, per volontà di Giovanni Paolo II. Nel Conclave del 2005 fu secondo dopo Ratzinger, e papa nell’ultimo Conclave, dopo le dimissioni di Benedetto XVI”.

 Dopo questa doverosa smentita, nel libro suffragata solo da vaghi “si dice” [Il gesuita argentino (…) era conosciuto per non aver mai sposato certe tesi estreme della Teologia della liberazione,op.cit.,p.6], gli autori affrontano la tesi centrale del loro lavoro, soffermandosi su quella che il Papa chiama “economia dell’esclusione”, un’economia che uccide in virtù di una “cultura dello scarto”. Non è altro che la tesi contenuta nel paragrafo 53 dell’Esortazione Evangelii Gaudium di circa due anni fa:

 Così come il comandamento “non uccide­re” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’e­conomia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della compe­titività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di que­sta situazione, grandi masse di popolazione si ve­dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es­sere umano in se stesso come un bene di consu­mo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppres­sione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen­za alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.

 Con la variante dell’introduzione dell’abuso e della distruzione dell’ambiente, sono gli stessi concetti, espressi in sintesi, con minore patos, ma con altrettanta energia, di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite:

 L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.

 I  successivi argomenti esposti nel libro riguardano la teoria della “ricaduta favorevole”, messa fortemente in dubbio dal Papa nel paragrafo 54 dell’Evangelii Gaudium:

 In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presup­pongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e inge­nua nella bontà di coloro che detengono il po­tere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter soste­nere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indiffe­renza. Quasi senza accorgercene, diventiamo in­capaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davan­ti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del be­nessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo anco­ra comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo.

 Questa tesi, con i successivi paragrafi 55 e 56, rispettivamente sull’idolatria del denaro e sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, unitamente all’affermazione di Papa Francesco: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”, costò al pontefice, come doverosamente riportano i due autori, il violento attacco verbale del commentatore radiofonico americano Rush Limbaugh: “Io sono stato varie volte in Vaticano: non esisterebbe, senza tonnellate di soldi […] La Chiesa cattolica americana ha un bilancio annuale da centosettanta miliardi di dollari. Penso sia più di quello che la General Electric incassa ogni anno. La Chiesa è il principale proprietario edile a Manhattan. Voglio dire: hanno un sacco di soldi [cit. p.75]. Naturalmente, Tornielli e Galeazzi respingono sdegnati l’attacco di Limbaugh: “Non vale la pena qui di soffermarsi sull’identità di tale «accusatore» di Francesco e dei suoi trascorsi. Non si deve però dimenticare che le sue trasmissioni contano circa una ventina di milioni di ascoltatori e che Limbaugh ha un contratto da quattrocento milioni di dollari per condurre il suo show”.

 Nelle pagine successive si fa il punto sulla presa di posizione del pontefice rispetto a due questioni di drammatica attualità: l’accoglienza dei migranti [“Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato gli immigrati”, cit.p.41] e il diritto per tutti a un lavoro degno che tuteli il riposo e il creato [p.43]. Infine, il tema della guerra che, ricondotto dal Papa alle “economie idolatriche che si alimentano con le guerre”, in una intervista della primavera dello scorso anno, gli valse la critica dell’Economist che lo paragonò a Lenin, sostenitore di uno stretto rapporto tra guerra, capitalismo e imperialismo. Si veda tuttavia di seguito la differenza tra quanto Papa Francesco ebbe a dichiarare nel corso di quell’intervista, e le parole più pacate e “contestuali” pronunciate all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove il nesso capitalismo-imperialismo-guerra scompare, pur restando ferma la condanna della guerra in quanto tale:

“[…]. Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. Ma visto che non si può fare la Terza guerra mondiale, allora si fanno le guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano”  [p.159].

Questa, invece, la dichiarazione fatta all’Onu:

 La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti. In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

 Le interviste finali, con l’eccezione naturalmente di quella con Papa Francesco, non impreziosiscono il libro e lascia piuttosto perplessi la risposta di Ettore Gotti Tedeschi – che fu a capo dello IOR dal 23 settembre 2009 al 25 maggio 2012 – alla prima delle dodici domande:

Domanda:Condivide l’allarme lanciato dal papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium sull’economia che uccide?
Risposta: Come potrei non condividerlo? (…) [p.166].

 In conclusione, viene da chiedersi se ci sia davvero la possibilità che la chiesa di Pietro un giorno faccia proprie le idee e i propositi di Francesco. Ne dubito, per la vastità e la complessità della chiesa cattolica, per l’inevitabile intreccio dei suoi interessi mondani e alla luce di tutta la sua storia, fatta di ombre e di luci, più spesso di ombre che di luci. Perché allora i potenti della terra dovrebbero mettere in pratica i suoi concetti? Non che Papa Francesco sia tanto ingenuo da ritenere di poterli convincere, inoltre egli sa bene che il male radicale è parte integrante della natura umana, una sua costante possibilità. Perché allora prospettare questa utopia, questo “Paradiso in terra”, se solo si desse ascolto al Gesù dei Vangeli? Pure, siamo consapevoli che Jorge Mario Bergoglio continuerà a ripetere le parole che abbiamo già ascoltato tante volte, finché avrà vita, e non sarà solo per testimoniare il Vangelo, ma per combattere l’indifferenza e nel tentativo di illuminare la coscienza di ciascuno, credente o non credente.


sergio magaldi     

venerdì 25 settembre 2015

IL FUTURO ISLAMICO DELLA FRANCIA

Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, 2015, Ediz. Mondolibri, pp.252
 
   Un futuro islamico per la Francia è vagheggiato da Michel Houellebecq in Soumission [Sottomissione], il suo ultimo romanzo. Scritto con la consueta eleganza, che si coglie anche nella traduzione italiana di Vincenzo Vega, il libro ipotizza la vittoria di Mohammed Ben Abbes della Fratellanza Musulmana, alleato con i partiti del centro e della sinistra, nel ballottaggio contro la candidata del Fronte Nazionale che al primo turno aveva ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Un futuro non molto lontano: il 2022, dopo che nelle elezioni presidenziali di cinque anni prima, era stato rieletto Hollande e “La stampa internazionale, basita, aveva potuto assistere allo spettacolo vergognoso, ma aritmeticamente ineluttabile, della rielezione di un presidente di sinistra in un paese sempre più dichiaratamente a destra” [cit.,p.46].

 Scarna ma essenziale la trama del romanzo: a parlare in prima persona è François, un professore associato alla cattedra di letteratura dell’università di Parigi III, che ha ottenuto la nomina dopo aver discusso con successo, davanti alla commissione dell’università Parigi IV-Sorbona, in un pomeriggio del giugno di quindici anni prima [2007], la propria tesi di dottorato dal titolo: Joris-Karl Huysmans, o l’uscita dal tunnel.




Joris-Karl Huysmans 


  La scelta del giovane docente di dedicare quasi completamente il suo impegno intellettuale e accademico a uno scrittore come Huysmans [1848-1907] non è casuale nell’economia del romanzo. Di madre francese e padre olandese, artista di miniature, Charles-Marie-Georges Huysmans, mutò il suo nome in Joris-Karl, in omaggio al padre, scomparso quando lui aveva solo otto anni. Costretto ad impiegarsi precocemente presso il Ministero degli interni, nell’ufficio che chiamerà “maledetto” e dove lavorerà tutta la vita, egli coltiverà inizialmente la sua passione per l’arte, per poi approdare al romanzo naturalista, dopo la conoscenza di Zola. Se ne distaccherà ben presto per una visione decadente, estetizzante e magica, cui seguirà la conversione al cattolicesimo. Huysmans è considerato tuttora uno dei massimi esponenti del decadentismo francese.

 Il romanzo di Houellebecq non è solo la storia di una decadenza personale e sociale, è bensì l’accettazione di un mutamento di vita nell’impossibilità di continuare a sentirsi giustificato di esistere. François è una sorta di Roquentin del XXI secolo [Antoine Roquentin, il protagonista del romanzo La Nausea [1] di Jean Paul Sartre]. Egli s’interroga su di sé e di riflesso su ciò che lo circonda, senza tuttavia l’angoscia metafisica del personaggio di Sartre - che mutuava le suggestioni di Dostoevskij, Kafka e Kierkegaard - ma con la consapevolezza tutta individuale ed edonistica di non poter dare più significato alla propria vita, in un contesto sociale decadente e ormai svuotato di senso. L’economia francese continua a sprofondare, nella noia di un sistema politico in cui centrosinistra e centrodestra si alternano in una sorta di “spartizione del potere tra due gang rivali”, talora anche  pretendendo di esportare questa sorta di democrazia con la guerra [p.46], fisco e burocrazia tormentano il cittadino, si annunciano cruenti scontri etnici, è senza stimoli intellettuali e per giunta Myriam, la sua giovane amante, è fuggita in Israele con la famiglia, nel timore di ciò che a breve potrebbe accadere agli ebrei:

 “Doveva essere stata una stupenda piccola gotica, negli anni non così lontani della sua adolescenza, prima di diventare una ragazza abbastanza di classe con i capelli neri tagliati a carré, la pelle bianchissima, gli occhi scuri; di classe ma sobriamente sexy; e soprattutto, le promesse del suo erotismo discreto erano più che mantenute. Per l’uomo, l’amore non è altro che gratitudine per il piacere dato, e nessuno mi aveva mai dato tanto piacere quanto Myriam. Era in grado di contrarre la fica a volontà (sia dolcemente, con lente pressioni irresistibili, sia con piccole scosse vivaci e malandrine); scuoteva il culetto con una grazia infinita prima di offrirmelo. Quanto ai pompini, non avevo mai provato niente di simile, affrontava ogni pompino come se fosse il primo della sua vita e fosse destinato a essere l’ultimo. Ogni suo pompino avrebbe potuto giustificare in sé la vita di un uomo […] Dopo la partenza di Myriam, rimasi solo per più di una settimana; per la prima volta da quando ero stato nominato professore, mi sentii incapace perfino di tenere le mie lezioni del mercoledì. I picchi intellettuali della mia vita erano stati la redazione della mia tesi e la pubblicazione del mio libro: tutto questo risaliva già a più di dieci anni prima. Picchi intellettuali? Picchi e basta? All’epoca, comunque, mi sentivo giustificato […]. I miei articoli erano chiari, incisivi, brillanti; ottenevano un certo apprezzamento, anche perché non ritardavo mai sulle date di consegna. Ma questo bastava a giustificare una vita? E in virtù di che cosa una vita ha bisogno di essere giustificata? La totalità degli animali e la schiacciante maggioranza degli uomini vivono senza mai provare il minimo bisogno di giustificazione. Vivono perché vivono, tutto qua, è così che ragionano; poi immagino che muoiano perché muoiono, e che questo, ai loro occhi, concluda l’analisi.” [cit. pp.33-34 e 43].  

 Fervono le trattative tra Partito socialista e Fratellanza musulmana per un accordo che permetta di sconfiggere la candidata del Fronte Nazionale. Marine Le Pen intanto, sempre più “convinta che, per accedere alla carica suprema, una donna dovesse necessariamente assomigliare ad Angela Merkel”, faceva di tutto per “emulare la rispettabilità arcigna della cancelliera tedesca arrivando persino a copiare il taglio dei suoi tailleur” [cit.,p.96]. Mohammed Ben Abbes è disponibile a concedere la metà dei ministeri alla sinistra, ma uno scoglio per l’accordo è rappresentato dalla scuola, come riferisce a François una collega il cui marito lavora per i servizi segreti:

 Dunque,secondo la Fratellanza musulmana ogni bambino francese deve avere la possibilità di beneficiare, dall’inizio alla fine dell’età scolare, di un insegnamento islamico[…]. Per prima cosa, non può assolutamente essere misto; e solo alcuni indirizzi saranno aperti alle donne. In fondo, quello che vogliono è che le donne, dopo la scuola primaria, vengano in gran parte avviate verso scuole di educazione domestica, e che si sposino prima possibile – con una piccola minoranza cui consentire, prima di sposarsi, di seguire studi letterari e artistici; questo sarebbe il loro modello di società ideale. Tra l’altro, tutti i docenti, senza eccezione, dovranno essere musulmani[…]”. [cit. pp.73-74].

 La collega si dice certa che un accordo sarà trovato, ricorrendo a un doppio regime, simile a quello già concordato per il matrimonio:

“Il matrimonio repubblicano resterà immutato, ossia un’unione tra due persone indipendentemente dal genere. Il matrimonio musulmano, eventualmente poligamico, non avrà alcuna conseguenza in termini di stato civile ma verrà ritenuto valido, e garantirà diritti nell’ambito della previdenza sociale e del trattamento fiscale.” [p.74]

  Una volta eletto, Mohammed Ben Abbes si mostra un leader saggio ed equilibrato, abile e scaltro come Mitterand, ma con più visione della storia. Il suo progetto di politica estera è di spostare il centro di gravità dell’Europa verso il Sud, aggregando all’Unione paesi come Turchia, Marocco, Tunisia, Algeria ed Egitto. Il disegno di una nuova grande civiltà che si estenda lungo tutto il bacino del Mediterraneo e che fiorisca in pace nello spirito di alleanza tra Islam e Cristianesimo e sul modello di quello che fu l’impero romano di Augusto. In politica interna, le cose migliorano subito: cresce il PIL come non avveniva da anni, cessano gli scontri di piazza, diminuisce la delinquenza e ancor più la disoccupazione, per l’uscita in massa delle donne dal mercato del lavoro, compensata da una forte rivalutazione degli assegni familiari, grazie al denaro ricavato dalla “drastica riduzione” degli stanziamenti scolastici, resa possibile dall’accorciamento della scuola dell’obbligo, dalla rivalutazione dell’artigianato e dai molti petrodollari che corrono a finanziare l’istruzione secondaria e quella superiore, ormai interamente privatizzate. Massima tolleranza per tutte le religioni del Libro. Ai grandi stanziamenti delle petromonarchie per le moschee, farà riscontro un incremento di fondi per la manutenzione degli edifici religiosi cristiani, quanto agli ebrei, verranno mantenuti buoni rapporti con il gran rabbino di Francia, nella segreta speranza che gli ebrei si “decidano spontaneamente” a lasciare la Francia per emigrare in Israele. E, in economia, l’illuminato Mohammed Ben Abbes è pronto a introdurre il distributivismo, con la soppressione della separazione tra capitale e lavoro e il rilancio dell’impresa familiare, suscettibile all’occorrenza di allargarsi, ma con i lavoratori azionisti e corresponsabili della gestione dell’impresa. Quanto al commercio dell’abbigliamento femminile, non ci sarebbe stato di che preoccuparsi per le modifiche di costume che inevitabilmente avrebbe prodotto l’instaurazione di un regime islamico. Se Jennyfer, la catena di abbigliamento femminile per le giovani, era destinata a chiudere non proponendo nulla di adatto per un’adolescente islamica, in compenso Secret stories del centro commerciale Italie 2 di Parigi, che vendeva biancheria di marca, e negozi analoghi di altri centri commerciali sparsi in tutta la Francia avrebbero addirittura raddoppiato le vendite:

 “Vestite durante il giorno con impenetrabili burqa neri, di sera le ricche saudite si trasformavano in uccelli del paradiso, si agghindavano con guêpière, reggiseni trasparenti, perizomi ornati di pizzi policromi e gemme; esattamente al contrario delle occidentali che raffinate e sexy durante il giorno perché era in gioco il loro status sociale, tornando a casa la sera si afflosciavano, abdicavano stremate a qualsiasi prospettiva di seduzione indossando tenute comode e informi.”[p.81].

 Proposto per la pensione dall’università con un importo generoso, pari a quello che avrebbe conseguito solo a fine carriera, François si reca in facoltà per sbrigare la semplice formalità di compilare un modulo. L’unico cambiamento che nota all’esterno sono una stella e una mezzaluna dorate, aggiunte accanto alla scritta “Università Sorbona Nuova-Parigi III”. All’interno degli edifici amministrativi la trasformazione è invece evidente:

 “Nell’anticamera si era accolti da una fotografia di pellegrini impegnati nella deambulazione intorno alla Kaaba, e gli uffici erano ornati da cartelli con versetti del Corano calligrafati; le segretarie erano cambiate, non ne riconoscevo più neanche una, ed erano tutte velate” [p.154].

 Giunto al limite della depressione e ormai sull’orlo del suicidio per un’esistenza che avverte inutile e ingiustificata, François emulando Huysmans e Bloy [Il primo si convertirà al cattolicesimo dopo un periodo di preghiera nell'abbazia di Igny, il secondo da violento anticlericale si muterà, dopo un lungo ritiro in monastero, in fervente religioso], cercherà anche lui il suo monastero e il suo frate. Ma per lui non si ripete il “miracolo” della conversione, come era accaduto ai due scrittori e nonostante la simpatia che nutre per frate Joël, da vent’anni nel monastero e che giudica probabilmente felice, si chiede sgomento il senso della sua presenza in quel luogo. Sarà solo più tardi, dopo i colloqui con Rediger, il rettore dell’università di Parigi – un ex appartenente ai movimenti identitari [gruppi a sostegno degli indigeni europei, contro ogni forma di colonizzazione] poi convertitosi all’Islam, che maturerà il germe di una sua possibile conversione e di una sua personale “uscita dal tunnel”. Cosa riuscirà a convincerlo? Il tornare in cattedra con lo stipendio triplicato e nella prospettiva di mogli ubbidienti e giovanissime? O c’è qualcosa di più che lo tenta, come l’analisi impietosa del rettore sul “suicidio dell’Europa” e la percezione che una conversione per essere autentica deve essere integrale, cioè una vera e propria sottomissione?

 “È la sottomissione, disse piano Rediger. L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta […]. Vede, proseguì, l’islam accetta il mondo, e lo accetta nella sua integrità […]. Per il buddhismo il mondo è dukkha – inadeguatezza, sofferenza. Il cristianesimo stesso manifesta serie riserve – Satana non viene definito ‘principe di questo mondo’? Per l’islam, invece, la creazione divina è perfetta, è un capolavoro assoluto. Cos’è in fondo il Corano, se non un immenso poema mistico di lode? Di lode al Creatore e di sottomissione alla sue leggi.”[pp.220-21]

 A distanza di diversi mesi dall’uscita del romanzo di Houellebecq – in quello stesso tragico giorno di gennaio dell’attentato a Charlie Hebdo – le polemiche dovrebbero ormai essersi sopite, né si tratta di dividersi come tifosi, pubblico e critica, tra detrattori ed estimatori. È indubbio, com’è stato detto, che in François ci sia molto di Michel e, al di là dell’edonismo e della garbata ironia che talora traspare dalle pagine del romanzo, è altrettanto vero che ci sia un anelito di verità: “Uno dei motivi che mi hanno fatto scrivere il libro – dichiarò lo scrittore al Corriere della Sera – è che essere ateo mi è diventato insopportabile”. Quello che da più parti non gli si perdona è che si definisca politicamente un conservatore [“Non ho una visione giusta della società, in realtà me ne frego. Non sono pessimista. Non sono reazionario. Sono conservatore”], e che abbia mutato di atteggiamento verso l’Islam, ora prospettato positivamente in una dimensione politica, sociale ed economica che, nella sua complessità, nulla ha da invidiare alle società europee ormai in declino. Sorprende il moralismo di certa critica. Solo per restare in Italia, si veda l’articolo dedicato al romanzo dal Manifesto che parla di un autore-merce con Inter­vi­ste cen­tel­li­nate, bozze del libro in uscita sapien­te­mente dif­fuse a pochis­simi, crea­zione di un’attesa nella quale si sus­se­guono invece le appa­ri­zioni dello scrit­tore nei media – voce pastosa, dizione lenta eppure capace di acce­le­ra­zioni improv­vise, occhio torvo ma iro­nico”, come se chi fa queste affermazioni non conoscesse le strategie di mercato, ben peggiori di quelle citate, cui siamo ormai tutti abituati, e non solo in Occidente. E ancora, citando a memoria e a sproposito frammenti di un libro, forse neppure letto per intero, talora forzandone l’interpretazione per meglio “demolirne” l’autore, e dove François-Michel è “accusato” di “essere senza gioia, né passioni, privo di vita vera” e di aver bisogno del sesso per sentirsi esistere. In proposito, mi viene in mente quanto padre Roger Troisfontaines scriveva su Sartre giovane:





 Jean Paul Sartre 



 «Cos'è un uomo che non ha ancora 40 anni e che frequenta il caffè? Guardatelo, finito su uno sgabello di tela incerata in un posto qualsiasi. Se vive abitualmente in questo luogo pubblico è perché non ha una casa propria, un focolare attorno al quale la sua famiglia potrebbe raccogliersi, dove potrebbe ricevere i suoi cari. Quelli che chiama amici sono dei vaghi compagni e l'amore lo fa con donne di passaggio. Di politica, ah! Egli discute sin troppo ma senza impegnarsi veramente se non per criticare o complottare: impegno sociale, vita civile, mestiere, tutto ciò che sarebbe valido, costruttivo finisce col morire su quella porta a vetri. Non parliamo poi di vita religiosa... né d'amore per la natura... Cosa ne resta in questo am­biente artificiale dove gli stessi prodotti della terra si consumano in piccoli bicchieri in uno stato di fermentazione avanzata? L'uomo al caffè, tolti tutti gli ormeggi, tagliato fuori da ogni rapporto organico col mondo, gli altri uomini e Dio, il fiume della vita l'ha respinto sulla sponda in solitudine»
[ R. Troisfontaines, Le Choix de Sartre, Aubier-Montaigne, Paris, 1945, pp. 51-52].

 Non che mi venga in mente di paragonare Houellebecq a Sartre, quel che mi preme sottolineare è che lo scrittore si colloca con pieno diritto nel filone della narrativa francese e che François, nel quale come spesso avviene in letteratura confluiscono tratti autobiografici dell’autore, esprime il disagio post- esistenzialista di un intellettuale che si trova a vivere in una società che ha profondamente mutato i propri valori, quando non li ha addirittura cancellati, per lasciare spazio a un edonismo tradizionale e pre-marcusiano che propone invano la felicità personale. L’alternativa, allora, può essere una conversione, l’approdo verso un assoluto di cui magari si continua a dubitare, ma di fronte al quale non si ha “nulla da rimpiangere”, secondo le parole con cui si chiude il romanzo.

sergio magaldi


[1] Ritengo utile delineare brevemente di seguito lo sviluppo della narrativa francese, naturalmente dopo Huysmans, Zola[1840-1902] e Léon Bloy [1846-1917] che sono tra gli autori più citati nei colloqui sulla letteratura francese tra il protagonista di Sottomissione e i suoi colleghi. Aggiungo solo che in diverse interviste Michel Thomas, alias Houellebecq [cognome della nonna che l’ha cresciuto], ha dichiarato che i suoi “grandi riferimenti in letteratura sono Dostoevskij e Conrad”. Non è dunque un caso che François somigli a un Roquentin più edonista e meno metafisico. La Nausée di Sartre è in un certo senso l'atto di nascita del romanzo esistenzialista anche se precedenti nella tematica e nello stile della narrativa dell'esistenzialismo sono ben visibili in Joyce, Dostoevskij, Conrad, Meredith, Galsworthy, Kafka, nel romanzo francese della condizione umana e nel romanzo americano del XX secolo. Nella narrativa francese il romanzo esistenzialista fa epoca abbracciando gli anni dell'anteguerra, il periodo bellico e il dopoguerra sino alla metà degli anni Cinquanta. Con Les Mandarins del 1954 di S. De Beauvoir l'epoca del romanzo esistenzialista può dirsi conclusa: già nel 1953 con Les Gommes di Alain Robbe-Grillet si viene affermando le « nouveau roman » di cui, d'altra parte, si era cominciato a parlare nel 1950 con Le Hussard bleu di Roger Nimier e con l'offensiva scatenata contro il romanzo esistenzialista come letteratura della disperazione e dell'assurdo, o addirittura nel 1947 con Portrait d'un inconnu di Nathalie Sarraute, presentato al pub­blico dallo stesso Sartre come un anti-romanzo, come un romanzo che si contesta da solo, che cerca di distruggersi nello stesso mo­mento in cui sembra doversi realizzare, che narra la storia del suo stesso fallimento come romanzo. Si tratta, proprio come nelle opere divenute ormai classiche del « nouveau roman », di esprimere la malafede del romanziere attra­verso l'impossibilità stessa del raccontare e la gratuità della finzione letteraria in un universo trasbordante di realtà. Il « nouveau roman » diviene così sempre più rifiuto del genere romanzesco: lo scrittore non ci offre una storia ma solo delle briciole che il lettore può tentare di mettere insieme come in un « puzzle ». Così, nonostante tutto, il « nouveau roman » non rappresenta la soluzione di continuità della narrativa francese, perché nella sua struttura permane un’interrogazione esistenziale di tipo collettivo circa un genere culturale prodotto dall'uomo e, perciò, in definitiva sull'uomo stesso. D'altra parte, neppure il romanzo esistenzialista s’impone con brusca rottura del passato, il romanzo della condizione umana che lo precede si caratterizza come opera di testimonianza e di denuncia proprio come il romanzo esistenzialista. Il gusto per l'autobiografia romanzata, la descrizione di eventi d'importanza internazionale ai quali partecipa lo stesso autore, la scelta di personaggi tratti dall’esperienza vissuta, l'esaltazione quasi eroica dell'individuale, la cri­tica e il sarcasmo della società borghese e dei suoi valori sono temi che si ritrovano, con diversa accentuazione, tanto nel romanzo della condizione umana che nel romanzo esistenzialista. Naturalmente, non sempre valgono lo stesso significato e lo stile è spesso diverso. All'eroe positivo dei romanzi di Montherlant, Saint-Exupéry, Mairaux Aragon, Giono ecc., si con­trappone spesso l'eroe negativo del romanzo esistenzialista: Roquentin, Mathieu, Mersault ecc.. Alla vita come intrapresa eroica si contrappone spesso la vita come disperazione del romanzo esisten­zialista, all'esaltazione romantica dell'avventura e dell'amore, l'im­potenza e lo squallore dell'esistenza umana. Va detto, tuttavia che dietro l'angoscia dei personaggi del romanzo esistenzialista si na­sconde spesso il rimpianto per la « caduta » originaria, la nostalgia per il paradiso perduto. Lo stile è certamente diverso: sotto l'influenza del romanzo americano, il romanzo esistenzialista oppone alla prosa fluente della narrativa precedente, un linguaggio scarno ed essenziale volto ad eliminare l'infinita mediazione tra le parole e le cose. Anche la tecnica romanzesca muta: si ricorre al simultaneismo che consente di descrivere contemporaneamente ma su piani diversi e secondo distinti punti di vista i medesimi avvenimenti. La fortuna del romanzo esistenzialista si lega alla fortuna stessa di Sartre che ne è l'autorevole rappresentante, né appare credibile la tesi dell'esistenzialismo come di una moda viziata sin dalla nascita dalla tabe del dopoguerra: il romanzo esistenzialista si colloca con piena legittimità nel filone della narrativa francese [“Nella storia del romanzo francese, La Nausée è come l’ultima vetta di una vasta catena: Balzac, Flaubert, Proust, Sartre”, scrive Marcel Raymond (Le Roman depuis la révolution - Ub. A. Colin, 1971 p. 211)], presentando per un verso notevoli punti di contatto almeno con il romanzo della condizione umana e con il romanzo naturalista [La critica ha messo in evidenza l'ispirazione comune di Mort à crédit (1936) di L. F. Céline e di La Nausée di Sartre. Marcel Raymond (op. cit., p. 207) rilevando i punti di contatto esistenti tra romanzo naturalista e romanzo esistenzialista (gli spettacoli sordidi, la tristezza della vita quoti­diana, ecc.), parla di La Mort dans l’âme di Sartre e di La Débâcle di Zola come di due testimonianze (in epoche diverse) sulla disfatta di un paese e il crollo d'un regime. Osserva tuttavia Sartre: «In Zola tutto obbedisce al più rigoroso deter­minismo. I libri di Zola sono scritti al passato, mentre i miei personaggi hanno un avvenire».(Qu'est-ce que l'existentialisme? Bilan d'une offensive, in “Les lettres françaises”,24 novembre 1945)], per altro verso fornendo notevoli spunti per la messa in crisi del genere romanzesco e la nascita del « nouveau roman» Scrive ancora il Raymond (op. cit., pp. 209 e 210): «Si sarebbe tentati di dire che si assiste con La Nausée alla morte del romanzesco » e: « Con Roquentin si sottolinea il contrasto tra il "romanesque" e il"vécu"». 


giovedì 24 settembre 2015

CAMPIONATO FINITO ?




 Sembra incredibile doversi porre l’interrogativo se il campionato di calcio sia già finito dopo la quinta delle trentotto giornate in calendario. Eppure le cifre sono di per sé eloquenti: l’Inter è sola al comando con dieci punti di vantaggio sui campioni d’Italia e vicecampioni d’Europa della Juve, con nove sul Napoli, sette sulla Roma, sei sul Milan e sulla Lazio. Solo la Fiorentina, tra le grandi o aspiranti tali, mantiene il distacco in tre punti e domenica prossima andrà a San Siro a far visita all’Inter. Riuscirà a fermarla? Francamente pare improbabile, ancorché auspicabile per le sorti del campionato e nell’interesse dello spettacolo.

  È vero che l’Internazionale, con un solo italiano in squadra [Davide Santon], ha sin qui beneficiato di un calendario favorevole [con quella di domenica prossima avrà giocato quattro partite in casa e due fuori], e, se si eccettua il Milan, ha per di più incontrato avversari sulla carta considerati modesti, inanellando una serie di 1-0, tranne nella partita col neopromosso Carpi, dove ha vinto per 2-1, grazie a un calcio di rigore a dir poco dubbio, mentre al Carpi è stato negato un rigore molto più evidente. È vero altresì che tra le inseguitrici più accreditate per la vittoria finale, la Roma ha qualche difficoltà a ottenere calci dal dischetto: due rigori solari le sono stati negati nelle ultime due partite, quella di ieri persa con la Sampdoria e quella di domenica scorsa pareggiata col Sassuolo.

 Quel che certamente non si può dire, tuttavia, è che l’Inter di Mancini non meriti l’attuale primato. La Juventus di Allegri sembra tornata a prima di Conte: infortuni a non finire, mancanza di organizzazione di gioco, confusione tattica con continui cambiamenti di modulo nel corso della stessa partita, formazioni in campo a dir poco incomprensibili, come quella schierata ieri e che ha prodotto il ridicolo pareggio casalingo col Frosinone e dove Zaza e Dybala si pestavano i piedi tra di loro. Né valgono le giustificazioni dell’allenatore: le partenze di Pirlo, Vidal e Tevez [perché disfarsi anche di Llorente a parametro zero per darlo ai prossimi avversari di Champions?] e la scarsa esperienza di tanti nuovi giocatori, perché la dirigenza ha fatto acquisti importanti per sostituire i partenti. La verità sembra un’altra, perché in realtà sono “i vecchi” a soffrire di più: Barzagli è fuori forma, Bonucci non è quello dello scorso anno, Pogba fa rimpiangere i 95 milioni non ricavati dalla società per la sua vendita, Sturaro, in un centrocampo senza Pirlo, Marchisio e Vidal denuncia tutti i suoi limiti. Insomma, come ho già detto dopo la prima di campionato [vedi il post: Juve e Roma steccano la prima, cliccando sul titolo per leggere], tutta la squadra risente di una carente condizione fisica e atletica, frutto di una evidente preparazione approssimativa. Del resto, Allegri non è nuovo alle partenze “lente”, come già avveniva quando allenava il Milan. Diversamente, al via dello scorso campionato egli si giovò dell’eredità di Conte e di un modulo a lungo sperimentato che aveva portato alla conquista di tre scudetti consecutivi.

 Della Roma, ho già detto quasi tutto nel post sopra citato: gli errori dell’allenatore bilanciano quelli dei dirigenti. Dopo l’eroica difesa di Fort Apache che ha consentito ai giallorossi di pareggiare in casa contro i campioni d’Europa del Barcellona, la squadra, continuamente rimaneggiata in difesa anche per carenze di organico, incassa quattro goal nelle due successive partite di campionato. La Roma sconta le campagne di acquisto e vendite degli ultimi tre anni, con giocatori che vanno e vengono, collezionando tante mezze punte, pagate care e senza il “vizio” del goal, e ritenendo di avere quest’anno il fenomeno che avrebbe risolto tutti i suoi problemi in attacco [illusione condivisa dai tifosi dopo il goal di Dzeko a una Juve già sconfitta in casa da una Udinese che a sua volta avrebbe perso le successive quattro partite!]. Ma il bosniaco è solo un buon giocatore, niente di più, e per giunta viene servito male, proprio come accadeva con Destro. La squadra sconta anche la precoce emarginazione di Totti e Gervinho, e ogni volta, guardando i suoi prolungati e sterili assalti alle difese avversarie, si ha come l’impressione che il goal non arriverà e che, se dovesse arrivare, sarebbe una specie di miracolo. Si aggiunga il fatto, come ho già segnalato, che la Roma attualmente non dispone di un vero centrocampo, perché Nainggolan, dopo un buon esordio, appare falloso e fuori condizione, De Rossi arretra, Pjanic avanza e Keita, pur dotato di grande esperienza e senso della posizione in campo, è troppo lento.

 Il Napoli, a mio parere, non dispone di un organico capace di lottare per lo scudetto, ma è squadra in grado di migliorare notevolmente, sia per l’impegno del suo allenatore, sia perché, al netto del pareggio di ieri con il Carpi, ha segnato ben dieci goal nelle due precedenti partite, di cui una in Europa League. Mutatis mutandis, si può dire la stessa cosa per la Fiorentina che, sconfitta in Europa, ha però vinto quattro volte su cinque in campionato, e per la Lazio, che ha un punto in più della Roma. Entrambe non sembrano dotate di un organico competitivo per le prime piazze, ma naturalmente tutto può sempre accadere.

 Tra le squadre accreditate alla vigilia di poter lottare per lo scudetto o almeno per un posto in Champions, resta il Milan di Mihajlovic che, se riuscirà a migliorare l’organizzazione difensiva, coi suoi campioni in attacco [ai quali dovrebbe aggiungersi presto anche Menez] e con un sorprendente e ritrovato  Montolivo a centrocampo, potrebbe ingaggiare una lotta con i cugini interisti, rinnovando l’egemonia milanese sul campionato, come tanti anni fa. 
                                                                  
  Se la mia analisi è anche solo parzialmente corretta, allora non può destare meraviglia l’attuale primato dell’Inter, guidata dall’allenatore con più esperienza internazionale e forse con più carisma del campionato italiano. Mancini, è stato con ogni probabilità l’unico mister che ha avuto carta bianca nell’acquisto dei giocatori e, contrariamente a ciò che crede Allegri, ha dimostrato che nuovi giocatori possono inserirsi efficacemente e rapidamente in una squadra, solo che gli acquisti siano indovinati e che la preparazione atletica sia tempestiva e adeguata. Si continua a ripetere tra gli addetti ai lavori che l’Inter, anche se a punteggio pieno, non ha ancora dimostrato di avere un gran gioco. È vero, ma si dimentica di sottolineare che i nerazzurri corrono e s’impegnano tanto per tutti i 90 minuti, dove i calciatori di altre squadre spesso camminano e s'impegnano solo a tratti.

sergio magaldi  

martedì 15 settembre 2015

FRANCESCO L'IMPERSCRUTABILE

A.Ivereigh, Tempo di misericordia, Mondadori, 2014,
Ediz. Mondolibri, Aprile 2015, pp.493


 Imperscrutabile, papa Francesco è stato definito dai suoi fratelli gesuiti e anche campione di scacchi. Puntualizza in proposito padre Marcó: “È uno scacchista silenzioso, che muove i pezzi e vede molte mosse in anticipo. Sa quando fermarsi e quando fare la sua mossa. Non si conosceranno mai le sue regole, perché non le dice a nessuno”. E il rabbino Skorka, suo amico, dice di lui in senso positivo che è come un bulldozer: “Quando decide una cosa, la antepone a tutto: apre una strada e, pam!, procede con determinazione, gettando di lato i sassi mentre va avanti”.

 Queste affermazioni sono contenute [pp.382-383, ed. Mondolibri] nella “Vita di Jorge Mario Bergoglio”, sottotitolo del libro Tempo di Misericordia [Titolo originale, The Great Reformer. Francis and the Making of a Radical Pope] del giornalista inglese Austen Ivereigh, esperto vaticanista. Una biografia che prende spunto dall’incontro del giornalista con papa Francesco, in piazza San Pietro, nel Giugno del 2013, e che ha il merito di non essere agiografica, ancorché appaia poco circostanziata in merito alle accuse  di collusione con la dittatura argentina [1976-1983] che i gesuiti Don Orlando Yorio e Don Françisco Jalics, Emilio Mignone, fondatore del Cels [Centro de Estudios Legales Sociales, Centro Studi Legali e Sociali per la difesa dei diritti umani], il giornalista Horacio Verbitsky, nonché l’associazione Abuelas de Plaza de Mayo [le nonne dei desaparecidos] hanno sempre rivolto, sia pure con varie e diverse accentuazioni, nei confronti di Jorge Mario Bergoglio.

 Intendiamoci, l’autore non tace le accuse, ma le presenta in modo superficiale, evitando di riportare le prove citate dai detrattori dell’attuale pontefice, e soffermandosi piuttosto su testimonianze e dichiarazioni che tenderebbero a scagionarlo, finendo per ribaltarne le responsabilità: fu l’estremismo politico dei due gesuiti [Yorio e Jalics], la loro presenza nelle baraccopoli accanto ai poveri e nella probabile connivenza con i guerriglieri che ne determinò l’arresto e non certo la presunta denuncia dell’allora provinciale dei gesuiti, il quale al contrario si prodigò per farli liberare, così come infatti avvenne più tardi, secondo la testimonianza di Alicia Oliveira, un’amica personale di Bergoglio, nonché avvocata del Cels. L’autore omette però di annotare quanto sostenuto dal fratello di Don Yorio e cioè che furono in realtà il nunzio apostolico Pio Laghi [in ottimi rapporti con il generale Videla] nonché il cardinale Novak direttamente dal Vaticano, a rendere possibile la liberazione dei due sacerdoti, dopo mesi di torture e sevizie.




Il Nunzio Apostolico Pio Laghi con il generale Videla


  Quanto alla collusione con la dittatura o almeno alla tepidezza mostrata dal provinciale dei gesuiti nei confronti di un regime sanguinario, Austen Ivereigh si limita a dire che fu proprio grazie alla sua prudenza e ai suoi incontri con Massera e Videla, capi della giunta militare, che Bergoglio ottenne la liberazione di molti prigionieri. E  circa la dichiarazione che l’ormai cardinale rese al processo, in cui fu chiamato a deporre, di non aver saputo nulla di ciò che accadeva realmente nel paese sino al 1990 – peraltro avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 250 del Codice processuale penale, che riconosce agli alti dignitari della Chiesa la possibilità di non intervenire, ma di limitarsi a testimoniare per iscritto –, l’autore non riporta nel libro il contraddittorio delle “Nonne di piazza di Mayo”, secondo cui Bergoglio non avrebbe potuto non sapere, visto che già nel 1979, su richiesta del Superiore Generale dei Gesuiti, padre Arrupe, era intervenuto in favore di un desaparecido e che due anni prima era stato richiesto il suo aiuto, senza che lui potesse far nulla, dai genitori di una ragazza sequestrata.

 Cosa in realtà sostennero Don Yorio e Don Jalics? La ricostruzione del loro arresto, solo vagamente accennata dall’autore, parte dal presupposto [menzionato dallo stesso Bergoglio], che già un mese prima del colpo di stato, fiutando il pericolo, il Superiore Provinciale avesse chiesto ai due gesuiti sottoposti alle sue dipendenze, di astenersi dalla frequentazione dei poveri delle baracche, alla periferia di Buenos Aires. Non essendo stato ascoltato, Bergoglio escluse dalla Compagnia di Gesù i due sacerdoti e fece togliere loro l’autorizzazione a dire messa. Di fatto significò privarli della protezione della Chiesa. Tant’è che appena scoppiato il golpe, i due furono rapiti e imprigionati. L’intera questione, tuttavia, è di difficile comprensione, se non si tiene conto della situazione politica allora esistente in Argentina e delle diverse correnti di pensiero presenti all’interno dei gesuiti latinoamericani. E su questo aspetto le analisi di Austen Ivereigh sono più che esaustive, peccato solo che, nell’intento di non appiattire la biografia in senso cronologico, egli finisca per costringere il lettore ad andare avanti, tornare indietro e così via di continuo, nel tentativo di non perdere il filo logico e storico della narrazione.

 Durante questo “andirivieni”, apprendiamo non solo l’origine tutta italiana dei nonni e di entrambi i genitori, ma soprattutto la nascita in un barrio popolare di Buenos Aires, la forte devozione cattolica dell’ambiente familiare e sociale in cui crebbe, la frequentazione della scuola dei salesiani, la conoscenza di qualche ragazza [una in particolare, di cui peraltro si dice pochissimo], la sua timidezza, il carattere introverso, l’amore per il calcio e per il tango nonché, naturalmente, l’arrivo della “chiamata” che lo raggiunse all’età di 17 anni, all’interno della basilica di San José, di Avenida Rivadavia [op.cit., p.50]. Siamo nel 1953 e tre anni dopo Jorge Mario entrerà in seminario, subito dopo aver conseguito il diploma di perito chimico.

 La “carriera” ecclesiastica del giovane Bergoglio fu in continua ascesa. Dopo la laurea in filosofia, il cui studio per ammissione dell’interessato si limitò a un tomismo in versione antiquata, quella in teologia [senza tuttavia mai raggiungere il dottorato] e il noviziato, a 33 anni fu ordinato sacerdote e subito dopo Maestro dei novizi, quindi Superiore Provinciale e più tardi Rettore del prestigioso Colegio Máximo, in cui era stato studente. L’esercizio di questi incarichi, unitamente alle vicende della dittatura militare di cui si è accennato sopra, gli valsero la critica di una parte non irrilevante dei propri confratelli. Le parole di un gesuita divenuto più tardi Superiore Provinciale sono esplicative al riguardo. Si riferiscono al periodo in cui Bergoglio fu rettore del Máximo. Così le riporta l’autore:

 Era un regime rigidamente chiuso. Si stenta a crederlo, ma introdusse i gesuiti argentini alla religiosità popolare. Li portò tutti nei barrios, e trasformò il Máximo in una parrocchia, per quanto già ci fosse una parrocchia nelle vicinanze. Come rettore del Máximo agì da accademico ma riuscì anche a essere un prete da parrocchia. Fondò un grande numero di cappelle, e promosse un certo tipo di religiosità popolare tra gli studenti, che iniziarono a recarsi di notte in cappella e a toccare le immagini divine! Era qualcosa che facevano i poveri, la gente del pueblo, e che i membri della Compagnia di Gesù, in qualsiasi parte del mondo, semplicemente non facevano. Intendo, toccare le immagini… Che significa? E i più anziani, che recitavano insieme il Rosario in giardino. Ecco, non sono contro tutto questo, ma nemmeno a favore. Semplicemente, non è una nostra caratteristica. Ma a quel tempo divenne normale.” [p.225].

 La realtà dei gesuiti argentini di quegli anni era molto complessa. C’era chi sosteneva la Teologia della Liberazione, non nascondendo le proprie simpatie per il marxismo e chi, come Bergoglio, si richiamava alla Teologia del Popolo [Il santo pueblo fiel de Dios] e al documento di Medellin che, sulla scia del Concilio Vaticano II, ampliò l’idea cristiana di liberazione e sottolineò la necessità di accogliere e soccorrere i poveri, mettendo tuttavia in guardia sia nei confronti del marxismo che del liberalismo. I sostenitori di queste concezioni simpatizzavano tutti per il peronismo, ma quando lo scontro sociale e l’instabilità politica si fece più forte, i peronisti [e di riflesso coloro che li appoggiavano] si divisero in una sinistra estrema, formata dai Montoneros e da altri gruppi di guerriglieri di ispirazione trotzkista, da un centro chiamato Guardia de hierro [Guardia di ferro] che ebbe il sostegno di Bergoglio, e da una estrema destra che anticipò le nefandezze di cui più tardi si rese colpevole la Giunta Militare. Lo stesso autore racconta che, dopo il crollo della dittatura e il ritorno alla democrazia parlamentare, Bergoglio fu isolato da una parte preponderante dei gesuiti del suo Paese che lo considerava un populista di destra [uno strano paradosso per un uomo che oggi in Italia piace ai radicali e alla sinistra e molto meno alla destra!]. Trascorse ritirato un paio di anni a Cordoba, privato di ogni potere, finché il Vaticano si ricordò di lui con la nomina a vescovo, poi ad ausiliario dell’arcivescovo di Buenos Aires, quindi ad arcivescovo della stessa città, e infine a cardinale nel 2001, per volontà di Giovanni Paolo II. Nel Conclave del 2005 fu secondo dopo Ratzinger, e papa nell’ultimo Conclave, dopo le dimissioni di Benedetto XVI.

  Quale il ritratto di Jorge Mario Bergoglio che esce da questo libro? Un uomo forte, carismatico, animato dalla fede in Dio e dall’amore per il popolo, intenzionato a portare Gesù tra la gente, poco incline alle dispute dottrinali e alle disquisizioni teologiche, molto più propenso a cambiare la prassi sacerdotale per far fronte ai bisogni del popolo fedele di Dio e in particolare dei poveri e degli emarginati, nell’immutato spirito evangelico e tuttavia sempre  in armonia con il proprio tempo. Certo, Austen Ivereigh non condividerebbe mai il giudizio che di lui dette il fratello del gesuita Orlando Yorio: Bergoglio è un angelo e un demone al tempo stesso. Sarebbe capace di vegliare un infermo per notti intere o di tramare nell’ombra per eliminare un concorrente scomodo”. Né tantomeno quello del giornalista ed ex-guerrigliero Horacio Verbitsky: Quando il nuovo papa dirà la prima messa in una strada di Trastevere o alla stazione Termini di Roma e parlerà delle persone sfruttate e costrette alla prostituzione dai potenti insensibili che chiudono il loro cuore a Cristo; quando i giornalisti amici racconteranno che ha viaggiato nella metro o sugli autobus; quando i fedeli ascolteranno le sue omelie recitate con le movenze di un attore nelle quali le parabole della Bibbia coesistono con le parole semplici del popolo; ci sarà chi andrà in delirio per il rinnovamento ecclesiastico. Nei tre lustri che ha trascorso alla guida dell’Arcidiocesi porteña ha fatto questo e molto di più”.

 Personalmente, ritengo che il titolo di “imperscrutabile”, datogli a suo tempo dai confratelli della Compagnia di Gesù, si addica bene alla persona di papa Francesco, ma non nel senso che comunemente si intende, né con riferimento al suo pensiero e alle sue azioni. Bensì in un significato più alto. Imperscrutabile è il mistero stesso della fede e neppure l’uomo chiamato a rappresentare, più o meno degnamente, il magistero di Cristo, può sottrarsi a questa verità. In questo senso e con questa consapevolezza che traspare sempre nelle sue parole e nel suo comportamento mi sembra che papa Francesco stia cercando di governare la Chiesa.


sergio magaldi