A.Ivereigh, Tempo di misericordia, Mondadori, 2014, Ediz. Mondolibri, Aprile 2015, pp.493 |
Imperscrutabile, papa Francesco è stato definito dai suoi fratelli
gesuiti e anche campione di scacchi. Puntualizza in proposito padre Marcó: “È
uno scacchista silenzioso, che muove i pezzi e vede molte mosse in anticipo. Sa
quando fermarsi e quando fare la sua mossa. Non si conosceranno mai le sue
regole, perché non le dice a nessuno”. E il rabbino Skorka, suo amico, dice di
lui in senso positivo che è come un bulldozer:
“Quando decide una cosa, la antepone a tutto: apre una strada e, pam!, procede
con determinazione, gettando di lato i sassi mentre va avanti”.
Queste affermazioni sono contenute [pp.382-383,
ed. Mondolibri] nella “Vita di Jorge Mario Bergoglio”, sottotitolo del libro Tempo di Misericordia [Titolo originale,
The Great Reformer. Francis and the
Making of a Radical Pope] del giornalista inglese Austen Ivereigh, esperto
vaticanista. Una biografia che prende spunto dall’incontro del giornalista con
papa Francesco, in piazza San Pietro, nel Giugno del 2013, e che ha il merito
di non essere agiografica, ancorché appaia poco circostanziata in merito alle
accuse di collusione con la dittatura
argentina [1976-1983] che i gesuiti Don Orlando Yorio e Don Françisco Jalics,
Emilio Mignone, fondatore del Cels [Centro
de Estudios Legales Sociales, Centro Studi Legali e Sociali per la difesa
dei diritti umani], il giornalista Horacio Verbitsky, nonché l’associazione Abuelas de Plaza de Mayo [le nonne dei desaparecidos] hanno sempre rivolto, sia
pure con varie e diverse accentuazioni, nei confronti di Jorge Mario Bergoglio.
Intendiamoci, l’autore non tace le accuse, ma le
presenta in modo superficiale, evitando di riportare le prove citate dai
detrattori dell’attuale pontefice, e soffermandosi piuttosto su testimonianze e
dichiarazioni che tenderebbero a scagionarlo, finendo per ribaltarne le
responsabilità: fu l’estremismo politico dei due gesuiti [Yorio e Jalics], la
loro presenza nelle baraccopoli accanto ai poveri e nella probabile connivenza
con i guerriglieri che ne determinò l’arresto e non certo la presunta denuncia
dell’allora provinciale dei gesuiti, il quale al contrario si prodigò per farli
liberare, così come infatti avvenne più tardi, secondo la testimonianza di
Alicia Oliveira, un’amica personale di Bergoglio, nonché avvocata del Cels. L’autore
omette però di annotare quanto sostenuto dal fratello di Don Yorio e cioè che
furono in realtà il nunzio apostolico Pio Laghi [in ottimi rapporti con il
generale Videla] nonché il cardinale Novak direttamente dal Vaticano, a rendere
possibile la liberazione dei due sacerdoti, dopo mesi di torture e sevizie.
Il Nunzio Apostolico Pio Laghi con il generale Videla |
Cosa in realtà sostennero Don Yorio e Don
Jalics? La ricostruzione del loro arresto, solo vagamente accennata dall’autore,
parte dal presupposto [menzionato dallo stesso Bergoglio], che già un mese
prima del colpo di stato, fiutando il pericolo, il Superiore Provinciale avesse
chiesto ai due gesuiti sottoposti alle sue dipendenze, di astenersi dalla
frequentazione dei poveri delle baracche, alla periferia di Buenos Aires. Non
essendo stato ascoltato, Bergoglio escluse dalla Compagnia di Gesù i due
sacerdoti e fece togliere loro l’autorizzazione a dire messa. Di fatto
significò privarli della protezione della Chiesa. Tant’è che appena scoppiato
il golpe, i due furono rapiti e imprigionati. L’intera questione, tuttavia, è
di difficile comprensione, se non si tiene conto della situazione politica allora
esistente in Argentina e delle diverse correnti di pensiero presenti
all’interno dei gesuiti latinoamericani. E su
questo aspetto le analisi di Austen Ivereigh sono più che esaustive, peccato
solo che, nell’intento di non appiattire la biografia in senso cronologico, egli
finisca per costringere il lettore ad andare avanti, tornare indietro e così
via di continuo, nel tentativo di non perdere il filo logico e storico della
narrazione.
Durante questo “andirivieni”, apprendiamo non
solo l’origine tutta italiana dei nonni e di entrambi i genitori, ma
soprattutto la nascita in un barrio
popolare di Buenos Aires, la forte devozione cattolica dell’ambiente familiare
e sociale in cui crebbe, la frequentazione della scuola dei salesiani, la conoscenza
di qualche ragazza [una in particolare, di cui peraltro si dice pochissimo], la
sua timidezza, il carattere introverso, l’amore per il calcio e per il tango
nonché, naturalmente, l’arrivo della “chiamata” che lo raggiunse all’età di 17
anni, all’interno della basilica di San José, di Avenida Rivadavia [op.cit.,
p.50]. Siamo nel 1953 e tre anni dopo Jorge Mario entrerà in seminario, subito
dopo aver conseguito il diploma di perito chimico.
La “carriera” ecclesiastica del giovane
Bergoglio fu in continua ascesa. Dopo la laurea in filosofia, il cui studio per
ammissione dell’interessato si limitò a un tomismo in versione antiquata,
quella in teologia [senza tuttavia mai raggiungere il dottorato] e il
noviziato, a 33 anni fu ordinato sacerdote e subito dopo Maestro dei novizi,
quindi Superiore Provinciale e più tardi Rettore del prestigioso Colegio Máximo, in cui era stato
studente. L’esercizio di questi incarichi, unitamente alle vicende della
dittatura militare di cui si è accennato sopra, gli valsero la critica di una
parte non irrilevante dei propri confratelli. Le parole di un gesuita divenuto
più tardi Superiore Provinciale sono esplicative al riguardo. Si riferiscono al
periodo in cui Bergoglio fu rettore del Máximo.
Così le riporta l’autore:
Era un regime rigidamente chiuso. Si stenta a
crederlo, ma introdusse i gesuiti argentini alla religiosità popolare. Li portò
tutti nei barrios, e trasformò il
Máximo in una parrocchia, per quanto già ci fosse una parrocchia nelle
vicinanze. Come rettore del Máximo agì da accademico ma riuscì anche a essere
un prete da parrocchia. Fondò un grande numero di cappelle, e promosse un certo
tipo di religiosità popolare tra gli studenti, che iniziarono a recarsi di
notte in cappella e a toccare le immagini divine! Era qualcosa che facevano i
poveri, la gente del pueblo, e che i
membri della Compagnia di Gesù, in qualsiasi parte del mondo, semplicemente non facevano. Intendo, toccare le immagini… Che significa? E i
più anziani, che recitavano insieme il Rosario in giardino. Ecco, non sono
contro tutto questo, ma nemmeno a favore. Semplicemente, non è una nostra
caratteristica. Ma a quel tempo divenne normale.” [p.225].
La realtà dei gesuiti argentini di quegli anni
era molto complessa. C’era chi sosteneva la Teologia della Liberazione, non
nascondendo le proprie simpatie per il marxismo e chi, come Bergoglio, si
richiamava alla Teologia del Popolo [Il santo
pueblo fiel de Dios] e al documento di Medellin che, sulla scia del
Concilio Vaticano II, ampliò l’idea cristiana di liberazione e sottolineò la
necessità di accogliere e soccorrere i poveri, mettendo tuttavia in guardia sia
nei confronti del marxismo che del liberalismo. I sostenitori di queste concezioni
simpatizzavano tutti per il peronismo, ma quando lo scontro sociale e
l’instabilità politica si fece più forte, i peronisti [e di riflesso coloro che
li appoggiavano] si divisero in una sinistra estrema, formata dai Montoneros e da altri gruppi di
guerriglieri di ispirazione trotzkista, da un centro chiamato Guardia de hierro [Guardia di ferro] che
ebbe il sostegno di Bergoglio, e da una estrema destra che anticipò le
nefandezze di cui più tardi si rese colpevole la Giunta Militare. Lo stesso
autore racconta che, dopo il crollo della dittatura e il ritorno alla democrazia
parlamentare, Bergoglio fu isolato da una parte preponderante dei gesuiti del
suo Paese che lo considerava un populista di destra [uno strano paradosso per
un uomo che oggi in Italia piace ai radicali e alla sinistra e molto meno alla
destra!]. Trascorse ritirato un paio di anni a Cordoba, privato di ogni potere,
finché il Vaticano si ricordò di lui con la nomina a vescovo, poi ad ausiliario
dell’arcivescovo di Buenos Aires, quindi ad arcivescovo della stessa città, e
infine a cardinale nel 2001, per volontà di Giovanni Paolo II. Nel Conclave del
2005 fu secondo dopo Ratzinger, e papa nell’ultimo Conclave, dopo le dimissioni
di Benedetto XVI.
Personalmente, ritengo che il titolo di
“imperscrutabile”, datogli a suo tempo dai confratelli della Compagnia di Gesù,
si addica bene alla persona di papa Francesco, ma non nel senso che comunemente
si intende, né con riferimento al suo pensiero e alle sue azioni. Bensì in un
significato più alto. Imperscrutabile è il mistero stesso della fede e neppure
l’uomo chiamato a rappresentare, più o meno degnamente, il magistero di Cristo,
può sottrarsi a questa verità. In questo senso e con questa consapevolezza che
traspare sempre nelle sue parole e nel suo comportamento mi sembra che papa
Francesco stia cercando di governare la Chiesa.
sergio
magaldi
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