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Il racconto dei racconti, regia di Matteo Garrone, Italia, Regno Unito, Francia, 2015, 125 minuti |
Così
come il film di Paolo Sorrentino [vedi il post YOUTH – LA GIOVINEZZA e clicca
sopra per leggere], anche IL RACCONTO DEI RACCONTI – TALE OF TALES resta a
digiuno di premi al recente Festival di Cannes. Ma il nuovo lavoro di Matteo
Garrone [dopo i successi di Gomorra
del 2008 e di Reality del 2012] ha
altre similitudini con quello di Sorrentino. I due registi napoletani hanno in
comune il girare in inglese, con attori internazionali [anche se Garrone
assegna due piccole parti a Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher] e si affidano
entrambi a una sequenza di quadri animati, come purtroppo nella consolidata
tradizione del cinema italiano degli ultimi decenni. Naturalmente ci sono
quadri e quadri. Un conto è sovrapporre scene a scene, di cui ciascuna se ne sta
per conto proprio, un altro è affidare al quadro la bellezza e l’efficacia
della narrazione, senza troppo togliere al ritmo che scandisce la storia e che
rappresenta l’anima stessa di un film. E se la splendida fotografia di Luca
Bigazzi dà a Youth-La Giovinezza una dimensione onirica di notevole
efficacia, nel film di Garrone la fotografia di Peter Suschitzky, anche se
altrettanto bella, non produce lo stesso effetto perché si avvale di un
realismo iperbolico che sa di maniera e troppo strizza l’occhio allo spettatore
che predilige il mostruoso e la vista del sangue. Si può osservare che quasi
non c’era alternativa, dovendo il film narrare di fiabe intessute di magia, con
streghe, fate, orchi e animali fantastici. Resta tuttavia l’impressione di aver
voluto compiacere troppo lo spettatore dal palato forte.
Per la
verità, le similitudini formali dei due film riflettono abbastanza chiaramente
la decadenza italiana nell’età della globalizzazione. Il messaggio è sin troppo
chiaro: se si vuole mandare in giro per il mondo un film italiano con qualche
prospettiva di successo e di incassi, occorre girarlo in inglese e con attori
internazionali. La tradizione dei grandi attori italiani sembra essersi
interrotta. Così come in tutti i settori della vita pubblica, la crisi del
cinema, della cultura in generale e persino dello sport hanno un padre e una
madre che poco hanno a che fare con il “villaggio globale”. Si chiamano mancato sviluppo di uno stato immobile e
corporativo e corruzione della politica,
della burocrazia e della società civile che conta. In Italia ormai si
sopravvive, nel declino inarrestabile, appunto, e senza una politica per il
cinema e per la cultura – [e non solo:
c’è forse una politica per i migranti? Per l’occupazione? Per l’abbattimento
dei tanti privilegi? Persino per il calcio, il nostro sport nazionale? Matteo
Renzi ha dato l’idea di volerci provare a cambiare le cose, ma sta già per
essere la vittima dei tanti condizionamenti interni e internazionali e della
propria mancanza di coraggio] – , solo grazie a singole genialità che col
passare del tempo si fanno sempre più rare. Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e
pochi altri sono nel cinema italiano queste individualità e occorre
riconoscerlo.
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Giambattista Basile, Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenemiento de peccerille, Napoli, 1834-1836 |
Non era
facile portare sullo schermo Lo cunto de
li cunti o Pentamerone di
Giambattista Basile, un letterato napoletano del Seicento. Garrone lo fa
scegliendo tre delle sue 50 fiabe. Le svolge separatamente e liberamente, passando di continuo dall’una
all’altra, per poi unificarle nelle sequenze finali. Si tratta, in rapida
successione e secondo le parole stesse del Basile di:
LA CERVA FATATA
TRATTENEMIENTO NONO
DE LA IORNATA PRIMMA
Nasceno per
fatazione Fonzo e Canneloro: Canneloro
è ’nmidiato da la
regina, mamma de Fonzo, e le rompe
la fronte. Canneloro
se parte e, deventato re, passa no
gran pericolo.
Fonzo, pe vertute de na fontana e de na
mortella, sa li
travaglie suoie e vace a liberarlo.
Sullo
schermo, la fiaba subisce diversi mutamenti e presto ne comprendiamo il perché.
La chiave del racconto è nelle parole che un “saccente” rivolge al re venuto a
pregarlo di un prodigio perché la regina resti finalmente gravida. Così il mago
risponde alla supplica, nel linguaggio dello stesso Basile:
E
chillo respose: «Ora siente buono, si la vuoi ’nzerta-
re a piro: fà
pigliare lo core de no drago marino e fallo
cocinare da na
zitella zita, la quale, a l’adore schitto de
chella pignata,
deventarrà essa perzì co la panza ’ntorza-
ta; e, cuotto che
sarrà sto core, dallo a manciare a la regi-
na, che vedarrai
subbeto che scirrà prena, comme si fos-
se de nove mise».
«Comme pò essere sta cosa?»
repigliaie lo re,
«me pare, pe te la dicere, assaie dura a
gliottere». «No te
maravigliare», disse lo viecchio, «ca si
lieie la favola,
truove che a Gionone passanno pe li cam-
pe Olane sopra no
shiore l’abbottaie la panza e figliaie».
«Si è cossì»,
tornaie a dicere lo re, «che se trove a sta
medesema pedata sto
core de dragone.
A seguire, l’incipit della seconda favola:
LO POLECE
TRATTENEMIENTO
QUINTO
DE LA IORNATA PRIMMA
No re, c’aveva poco
penziero, cresce no polece gran-
ne quanto no
crastato, lo quale fatto scortecare, offere la
figlia pe premmio a
chi conosce la pella. N’uerco la sen-
te a l’adore e se
piglia la prencepessa: ma da sette figli de
na vecchia con
autetante prove è liberata.
E dunque,
l’antefatto della terza:
LA VECCHIA
SCORTECATA
TRATTENEMIENTO
DECEMO
DE LA IORNATA PRIMMA
Lo re de Roccaforte
se ’nnammora de la voce de na
vecchia, e, gabbato
da no dito rezocato, la fa dormire
cod isso. Ma,
addonatose de le rechieppe, la fa iettare pe
na fenestra e,
restanno appesa a n’arvolo, è fatata da set-
te fate e, deventata
na bellissema giovana, lo re se la pi-
glia pe mogliere. Ma
l’autra sore, ’nmediosa de la fortu-
na soia, pe farese bella
se fa scortecare e more.
Il
poco comprensibile napoletano del Seicento, dialetto nel quale Giambattista
Basile scrisse il suo Lo cunto dei li
cunti, fu reso in italiano da Benedetto Croce, con l’aggiunta di una
preziosa introduzione che valse all’autore delle fiabe una fama duratura, per
via dei meriti che il noto filosofo e poligrafo napoletano riconobbe all’opera
del suo concittadino. Scrive tra l’altro Croce:
Il Cunto de li Cunti è un libro di fiabe. E le fiabe, —
non occorre quasi il dirlo — , sono racconti popolari tra-
dizionali di avventure, alle quali pigliano parte esseri
umani, ed esseri sovraumani od estraumani della mitolo-
gia popolare, come fate, orchi, animali parlanti, ecc. Que-
sto complesso di racconti tradizionali, la cui origine è
incerta e discussa e risale senza dubbio a una remota
antichità, viene ora considerato dalla moderna filologia
come un gruppo di documenti importanti per la storia
del genere umano e per la psicologia popolare. Ma, per
molti secoli, essi non furono se non un oggetto di diletto
e di trattenimento pel popolo ingenuo e pei fanciulli, che
avidamente li ascoltavano: lo scienziato disdegnava d'ap-
pressarvisi, e solo, di rado, vi si appressò l'artista.
E uno dei primi artisti, anzi il primo, che vi si ap-
pressasse, fu appunto il nostro Giambattista Basile. Non
già che, prima di lui, la materia delle fiabe non fosse
passata sotto le penne dei letterati. Varie fiabe contiene
il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino; varie altre, per
esempio, se ne ritrovano nel Mambrìano del Cieco di
Ferrara, e sono state recentemente studiate; e molte
altre ancora sarebbe agevole scavarne nella gran conge-
rie dei nostri libri di novelle. E, finalmente, nel secolo
decimosesto, ci fu uno scrittore, Giovan Francesco Stra-
parola da Caravaggio, che, nelle sue Piacevoli Notti (pri-
ma ediz., 1550, 1553), di molte sue novelle tolse la ma-
teria da fiabe e facezie popolari; tanto che, per questo
rispetto, può riguardarsi come il precursore del Basile.
Ma, negli scritti di costoro, le fiabe sono modificate,
regolarizzate, svisate. Essi le atteggiano a novelle citta-
dine, le spogliano, per quanto possono, del meraviglioso
messovi dalla fantasia popolare, e, infine, le raccontano
sempre col rigido vecchio stile dei novellieri italiani.
Dello Straparola dissero giustamente i Grimm: « Si sforzò
di narrare secondo il modo solito e prestabilito, e non
seppe far risuonare una nuova corda ». E si può dire
che, con essi, le fiabe entrarono bensì nel campo della
letteratura, ma vi entrarono di nascosto, inosservate, ca-
muffate delle consunte vesti degli epigoni Boccacceschi.
Invece, col Canto de li Cunti fecero un ingresso aperto,
trionfale, nel campo dell'arte, abbigliate di tutta la pompa
e le bizzarre e strane fogge della fantasia popolare.
Il Basile racconta le fiabe come fiabe. — Ma quale
interesse poteva egli prenderci, qual significato poteva
darci, perché ripeteva e rifaceva queste fiabe, che aveva
raccolto dal popolo? Qual' era, insomma, l’intuizione, che
aveva, di questa sua materia? — Bisogna determinare
questo punto, per determinare la natura dell'opera.
Le fiabe, considerate come materia grezza, possono
servire, naturalmente, a scopi svariati, scientifici, morali,
artistici. E, tralasciando gli scopi scientifici e morali,
[…] possono dar luogo ad una sorta di poe-
tica rievocazione del passato fanciullesco ed
ingenuo.
[…]il Basile era un letterato seicen-
tista, e alle cose del popolo prendeva quell'interesse che
solo poteva prenderci un letterato seicentista. Lo attira-
vano lo strano, il goffo, l'assurdo, motivi per lui di co-
mico spiritoso! E, per bizzarria, porse orecchio attento
a questi cunti, che soleno dire le vecchie pe trattenemiento
de peccerille; e, per bizzarria, prese poi a ripeterli, a
volta facendo mostra di obliarvisi e interessarvisi, cosic-
ché per la sua bocca parla il popolo in tutta la serietà
del suo sentimento, a volte tornando sopra se stesso, e
scherzando e facendone la caricatura.
Per quanto questi sentimenti paiano, a prima vista,
contraddittorii, per tanto essi sono sinceri e reali. Il sen-
timento ha di queste stranezze e di questi ondeggiamenti;
ed è naturale che l'opera d'arte, — ritraendo non la ve-
rità logica, ma, semplicemente, la verità psicologica — ,
li rispecchi fedelmente. Il Basile non ripete commosso e
ingenuo le fiabe dell'infanzia, e neanche le fa oggetto di
uno scherzo e di una parodia, che sarebbero davvero sine
ictu. Egli rappresenta, e, talvolta, scherza. E nei tratte-
nemienti del Cunto de li Cunti, par di vedere, a volta a
volta, ora la faccia grinzosa di una delle vecchie novella-
trici; ora il volto arguto e ridento del Cavalier Basile.
[…]nella sua
opera le fiabe si ritrovino schiette e senza alterazioni.
Egli comincia col serbar alla fiaba tutta la sua realtà po-
polare: non vuol sollevarla a più alto stile, ma anzi vuol
restare in tutta la bassezza e la volgarità della sua ma-
teria. E, con queste disposizioni d'animo, è naturale che,
nella sua opera, viva moltissima parte dell'intonazione
e del sentimento popolare.
Ma, a questa rappresentazione esatta e realistica, si
mescolano, come si è detto, molti elementi burleschi '
e individuali. — E il primo elemento burlesco, che il !
Basile introduce nella sua raccolta di fiabe, è appunto /
quella specie di macchinario epico, — Pentamerone — , /
che costruisce con esse : le cinquanta fiabe delle cinque
giornate sono tutte collegate tra loro, e racchiuse in una
cornice generale, che ravvicina questo libro di fiabe ai
più classici libri italiani di novelle, ai Decameron, alle
Cene, ai Diporti, alle Piacevoli Notti, ecc.
[…]Né lo stile del Basile, è un'apparizione cosi strana
che, per ispiegarselo, bisogni uscire fuori del suo tem-
po e del suo paese. Quello stile bizzarro é frutto del
seicento letterario e dell'ingegno napoletano. Anche per
Giordano Bruno, — compaesano e quasi contemporaneo
del Basile — , il Mounier fece l'ipotesi che conoscesse
il Rabelais e se ne appropriasse lo stile. E, — lasciando
stare che sia piuttosto ardito il concepire lo stile di
Giordano Bruno come qualcosa di esterno al suo carat-
tere e al suo pensiero — , chi non vede che il ripe-
tersi dello stesso caso per scrittori dello stesso tempo e
dello stesso paese, é un'altra prova della poca verisimi-
glianza di un' imitazione, fatta, e fatta misteriosamente, su
cosi larga scala! — Il Basile applicava alle fiabe del
Cunto de li Cunti i gusti comici suoi e del suo tempo.
Il libero adattamento delle tre fiabe di Giambattista Basile, con i sostanziali cambiamenti apportati all’intreccio, ubbidisce in Matteo Garrone, oltre che a esigenze di copione, a un intento etico-pedagogico, per di più di ispirazione esoterica, che non sarebbe piaciuta a Benedetto Croce. Il filosofo, infatti, coglie il merito del letterato proprio nel raccontare “le fiabe come fiabe”, serbandole nella loro schiettezza e “senza alterazioni”. Insomma, l’originalità del Basile sta nel non sottrarre alla fiaba il retroterra popolare da cui proviene, né di pretendere di sollevarla a uno stile più alto, lasciandola al contrario “in tutta la bassezza e la volgarità della sua materia”.
L'intento di Garrone sarebbe tuttavia piaciuto a Ferdinando Galliani,
al quale il Croce rimprovera di non aver capito Giambattista Basile. Scrive
Galliani a proposito dell'autore di Lo cunto de li cunti:
« A costui {cioè al Basile), disgraziatamente
per noi, venne il capriccio di contraffare l'incomparabile
Decamerone di Giovanni Boccaccio, e compose un Pen-
tamerone nel dialetto napoletano, e cosi divenire il
Boccaccio, sia il testo di esso. A tanta impresa man-
cavangli interamente i talenti per eseguirla. Privo in
tutto e di genio elevato, e di filosofia, e di felicità d'in-
venzione, e di ricchezza di cognizioni, a poter immagi-
nare adornare novelle graziose o interessanti, o tragi-
che, o lepide, o morali, altro non seppe pensare che
d'accozzare racconti delle Fate e dell'Orco così insipidi,
mostruosi, e sconci, che gli stessi Arabi, fondatori di
questo depravatissimo gusto, si sarebbero arrossiti d'aver-
gli immaginati »
Cosa fa Matteo
Garrone nel portare sullo schermo le tre fiabe di Giambattista Basile? Le lega
tra loro in una chiave metafisica e le rende portatrici di un messaggio karmico,
collegato addirittura all’esoterismo della Qabbalah. Dice il saggio al re e
alla regina che desiderano un figlio: “Non c’è desiderio che possa essere
soddisfatto senza un corrispettivo da pagare, né c’è qualcosa che nasce senza
qualcosa che muore”. E la spiegazione di queste affermazioni è semplice,
osserva il saggio: la grande legge dell’universo è “l’equilibrio della
bilancia”. L’affermazione ricorre spesso nello Zohar, l’opera più complessa e articolata della tradizione
esoterica degli ebrei. Ci ricorda che ogni mutamento che gli esseri umani
provocano più o meno consapevolmente all’interno della Manifestazione, deve di necessità essere bilanciato. L’ultima scena
del film illustra chiaramente il concetto, rivelando al tempo stesso l’intento
del regista: rappresentare la “materia vile” della fiaba, in tutto il suo
realismo magico e nello stupore del suo cromatismo, per innalzarla a monito e
insegnamento della legge che domina l’universo. Ciò che sarebbe piaciuto a
Ferdinando Galliani ma che avrebbe fatto gridare al tradimento dello spirito
del Basile da parte di Benedetto Croce.
Non a caso, tuttavia, Matteo Garrone dichiara
di essersi ispirato liberamente alle
fiabe del Basile. E, forte di questa libertà, ha buon gioco nel trasformarle
sullo schermo in filosofia di vita.
L’operazione gli riesce e il film risulta godibile, pur con i limiti di cui
dicevo sopra.
sergio magaldi