Preso atto dell’onda lunga del Centrodestra, della decadenza dei Cinquestelle, dell’inadeguatezza del Centrosinistra e della continua voglia di cambiamento degli italiani, sempre pronti, dopo la fine della Prima Repubblica – quando il voto era praticamente cristallizzato – a ricercare illusoriamente un capo credibile cui affidare le proprie sorti e quelle di un Paese sempre più alla deriva (dopo Berlusconi, Renzi, Grillo-Conte-Di Maio, e Salvini), l’Establishment ha pensato bene, per scongiurare il pericolo Salvini, di puntare su Giorgia Meloni, facendola apparire umile, coerente e più rassicurante anche se all’opposizione, a differenza del capo della Lega al governo, giudicato presuntuoso, tracotante e pericoloso per l’ordine costituito. Non si può negare che lo stesso Salvini abbia dato una mano in questo senso, cadendo innanzi tutto ingenuamente nel tranello del Papeete, ma prima ancora armeggiando in pubblico con santini e coroncine che non hanno contribuito certo a dare di lui il volto di uno statista. L’altra mano l’ha data la pandemia e la fine dell’austerità in Europa: se infatti avesse potuto prevedere che di lì a breve si sarebbero aperti i cordoni della borsa, difficilmente Salvini avrebbe piantato in asso il governo gialloverde.
Quanto alla prova di responsabilità che la Lega ha dato nel permettere il varo del governo Draghi, appare chiaro come gli italiani, e non solo quelli tradizionalmente di centrodestra, non l’abbiano apprezzata. L’appiattimento sui decreti sanitari di Speranza, le mance distribuite a destra e manca senza risolvere la questione della perdita del lavoro da parte di molti italiani per effetto del lockdown e di una forsennata campagna vaccinale, hanno progressivamente agevolato il disegno di ingrassare nelle file del Centrodestra l’unico partito di opposizione.
Occorre d’altra parte riflettere che il Centrodestra non avrebbe mai ottenuto una maggioranza netta, come quella che ha avuto, senza lo “sfondamento emotivo” di uno dei partiti della coalizione. E quale poteva essere questo partito? Non Forza Italia che ormai quasi sembrava lottare per la sopravvivenza, non la Lega di Salvini che il suo di sfondamento l’aveva avuto già nelle elezioni europee di tre anni prima, raggiungendo una percentuale di oltre il 34%. L’unico partito in grado di “sfondare” era Fratelli d’Italia, l’unico di opposizione e l’unico guidato da una donna: una novità che per uno strano paradosso ha certamente contribuito al successo. Una donna sicuramente intrepida che non si è minimamente preoccupata di cancellare dal simbolo del partito la fiamma tricolore del vecchio Movimento Sociale Italiano. Un fattore che, soprattutto nell’attuale contingenza, può aver avuto un certo peso nell’elettorato più anziano e nostalgico, tanto più che esattamente tra un mese, per le strane coincidenze della Storia, ricorrerà il centenario della Marcia su Roma.
Insomma, nulla di nuovo sotto il sole: il Centrodestra non ha aumentato i suoi voti rispetto al 2018: poco più di 12 milioni come allora, ma diversamente ripartiti se è vero – come sostiene la statistica – che a Fratelli d’Italia è andato circa il 40% del voto leghista. In altri termini, dopo l’exploit di Forza Italia e della Lega, anche il terzo partito della coalizione ha infine avuto il suo!
L’ipocrisia di regime nei suoi Talk Show rende a Letta il doppio merito di aver anticipato le sue dimissioni per il deludente risultato elettorale e al tempo stesso di traghettare il partito sino alla celebrazione del Congresso, condanna invece esplicitamente Matteo Salvini che, nonostante la magra percentuale di voti raggiunta (circa il 9%), non parla di dimissioni dalla segreteria della Lega ma addirittura rilancia.
Esemplificativo al riguardo il giudizio espresso ieri a Tagadà da Claudio Martelli, l’antico delfino di Craxi, che in look di reverendo afferma incredibilmente: “Letta ha annunciato le proprie dimissioni perché è una persona onesta”, lasciando intendere che chi non ha fatto altrettanto, pur essendo tenuto moralmente a farlo, onesto non è.
Dopo il processo della magistratura si consuma così anche l’ennesimo processo mediatico contro Salvini, messo in discussione dallo stesso nucleo storico della Lega, Maroni in testa, con Castelli che parla di lui come di “un leader usa e getta”, ancorché il Consiglio Federale, riunito in gran fretta in via Bellerio a Milano, gli rinnovi momentaneamente la fiducia e lo candidi per un ministero “pesante”. Ma la tentazione, neppure taciuta, per bocca di Speroni, è quella del ritorno alla Padania, dimenticando che Salvini ha preso la Lega a meno del 4% e l’ha portata sino oltre il 34% delle elezioni europee e a più del 17% delle ultime elezioni politiche, l’ha fatta cioè uscire dal ghetto regionale, trasformandola in un partito nazionale, mostrando altresì in questa occasione – pur nel calo dei voti per i motivi sopra esposti – una notevole capacità di trattare con gli alleati, tant’è che per numero di parlamentari eletti – il solo numero che conta con queste percentuali di voto che salgono e scendono freneticamente un po’ per tutti i partiti – la Lega si colloca al terzo posto, appena poco al di sotto del Pd che pure vanta un numero doppio di voti. Va infatti chiarito che questa apparentemente bizzarra attribuzione di seggi non dipende solo dalla legge elettorale ma dalla complessa trattativa tra i partiti delle coalizioni per decidere le candidature nei collegi uninominali.
Salvini deve ora mostrare di non essere ingenuo e di saper tener duro, nonostante i processi di ogni genere, deve cioè saper trattare per sé un ministero davvero “pesante” che non può consistere in una vicepresidenza del Consiglio, magari insieme a Tajani, o addirittura nel ruolo istituzionale di presidente del Senato che, pur essendo la seconda carica dello Stato, lo relegherebbe forse definitivamente nella soffitta della politica con grande soddisfazione di “amici” e nemici.