La
Lega e i suoi alleati conquistano l’Umbria con oltre 20 punti percentuali in
più rispetto alla coalizione PD-LEU-M5S. Il dato, dal punto di vista numerico,
si spiega con il crollo dei pentastellati che dimezzano il già modesto
risultato delle ultime elezioni europee nella regione (dal 14% a poco più del
7%). Sotto il profilo politico si spiega invece con diversi fattori [gli
scandali recenti del PD umbro, il successo che la Lega aveva già riportato in
diverse città della regione, l’ostilità di una parte dell’elettorato grillino
all’alleanza con i Dem etc…], non ultimo
quello della quotidiana demonizzazione di Matteo Salvini, che imperversa
sui media ormai dalle elezioni
politiche di marzo 2018 e che è diventato un vero e proprio spot elettorale in suo favore.
Demonizzazione che si è venuta arricchendo di valutazioni ossessive e
sarcastiche circa il comportamento ingenuo del capo della Lega che in un giorno
di agosto – si è detto – sotto l’effetto di un mojito di troppo, ha tolto la
fiducia al governo nazionale per poi pentirsi qualche giorno dopo e offrire la
presidenza del Consiglio dei ministri a Di Maio.
Sulla
sfiducia di Salvini al governo gialloverde ho già avuto modo in un precedente
post (vedi, nel blog, Matteo Salvini tra Lega e Lega Nord, cliccando sul titolo per leggere) di chiarire il mio
punto di vista, aggiungo ora che quello che si è attribuito alla debolezza e al
pentimento del leader leghista altro non era che l’estremo tentativo di
convincere Di Maio a sottrarsi all’egemonia di Conte e a continuare con il
programma riformista sancito in un contratto al momento di formare il governo.
Senonché,
nell’illusione di riguadagnare il consenso perduto tra le politiche di marzo
2018 e le europee di maggio 2019 – la cui responsabilità è stata attribuita
allo strapotere di Salvini e mai ad una riflessione sulla propria inconcludenza,
di cui la vergogna di Roma è purtroppo l’emblema – il Movimento Cinquestelle è
caduto nella trappola dell’altro Matteo (Renzi) e con la benedizione del suo
capo storico e della cosiddetta sinistra del Movimento si è infilato giulivo in
un governo di coalizione con il PD e LEU. Senza radici storiche,
autodefinendosi né di destra né di sinistra, movimento di opinione che aveva
sfondato nell’elettorato con la promessa di cambiare tutto, i
pentastellati si sono di fatto rassegnati a fare la ruota di scorta del PD,
cioè di una sinistra scialba e incolore che ha perso a sua volta e da tempo la propria
ragion d’essere.
D’altra parte, l’ipotesi che il ritrovato
centrodestra, passando di vittoria in vittoria nelle elezioni regionali, giunga
infine ad impossessarsi democraticamente del governo nazionale non può non
essere riguardato con qualche inquietudine. Dalle élite sarebbe infatti considerato
un governo di estrema destra con tutte le prevedibili ritorsioni sul piano
interno, europeo e internazionale. Ancorché la Lega storicamente non sia mai
stato un partito di estrema destra. Prima di tutto perché la sua origine, che
data ormai da quarant’anni, nasce prevalentemente da militanti e/o
simpatizzanti del vecchio PC ed è solo al contatto con la
Liga Veneta che si viene radicalizzando su
posizioni secessionistiche e talora destrorze che tuttavia nulla hanno a che
fare con l’estrema destra nostalgica, tant’è che Berlusconi farà alleanze
separate: al nord con la Lega e al sud con il Movimento Sociale, per l’incompatibilità
dichiarata tra i suoi alleati. Poi
perché, se è vero che la Lega di Bossi ha fatto parte dei governi Berlusconi, occorre
ricordare che in più di una occasione è stata alleata della sinistra:
«Correva l’anno
1995. Dopo essersi alleata con Berlusconi ed un Fini
appena “depurato” grazie all’acqua di Fiuggi (ma con la fiamma ancora
nel logo ed i missini hardcore nel partito), la Lega mandò a casa il primo
governo di destra della Seconda Repubblica. Tanto bastò a tutto l’allora
campo progressista a considerala un referente affidabile ed a compiere forti
aperture sul suo tema più gettonato: il federalismo. D’Alema si spinse oltre. Intervistato da Il Manifesto, il 30 novembre
1995 disse: «La Lega c’entra moltissimo con la sinistra,
non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte
contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la
Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato
il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico
e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che
non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra».
La Lega, quindi, “costola
della sinistra” e “partito operaio”.
Il Pds (che poi divenne Ds e
quindi Pd) non fu l’unico a subire il fascino del “celodurismo” bossiano.
Rifondazione Comunista non si fece troppi problemi ad individuare nel Carroccio
un compagno di viaggio. A quel tempo dentro il Prc ci stavano tutti, ma proprio
tutti: Bertinotti, Cossutta, Vendola, Diliberto, Ferrero, Grassi, Rizzo,
Acerbo, Turigliatto e Ferrando.
E non si registrarono un grande dibattito ed
aspre opposizioni quando si trattò di correre assieme alla Lega alle
elezioni regionali ed amministrative. Tali alleanze “contro
natura” si materializzarono in importanti regioni del Centro e del Sud.
Nel Lazio, dove la Lega non aveva il potenziale elettorale odierno ed ottenne
un misero 0,48% (Rifondazione conseguì il 9,22%), comunque determinante
per far vincere il presidente indicato dal centrosinistra, Piero Badaloni. Pds,
Prc e Lega corsero insieme perfino in Puglia, quella che sarebbe diventata la
roccaforte di Nichi Vendola. Comunisti e leghisti diedero vita a delle giunte
rossoverdi in diversi comuni del Nord, pure di una certa entità, anche negli
anni successivi, quando il dialogo nazionale tra Bossi e la dirigenza del
centrosinistra si interruppe» [Omar Minniti, https://www.lantidiplomatico.it/].
Il
governo Cinquestelle-Lega aveva in programma diverse riforme e soprattutto nasceva
da una giusta intuizione: rompere con le tradizionali e fallimentari politiche del
centrodestra e del centrosinistra, bilanciando istanze tradizionali della
sinistra (reddito di cittadinanza, salario minimo, lotta all’evasione fiscale,
giustizia sociale) con quelle considerate auspicabili da un elettorato di
centrodestra e non solo (riduzione delle tasse, quota 100, politiche per
contenere l’immigrazione e per rilanciare gli investimenti produttivi). L’esito
elettorale delle europee ha spaventato i Cinquestelle che si sono precipitati a
fare marcia indietro, bloccando ogni iniziativa riformistica e costringendo la
Lega di Salvini a trarne tutte le conseguenze. Con il risultato di spaccare il
Paese in due: da una parte una sinistra
nominalistica e impotente formata di tante correnti (compresi i Cinquestelle), dall’altra
un centrodestra condizionato fortemente dagli eredi del Movimento Sociale che diventerebbero
l’ago della bilancia di un governo nazionale a conduzione leghista. Il governo
gialloverde, se avesse continuato a funzionare dopo l’approvazione delle prime
riforme, avrebbe impedito una polarizzazione che non porterà bene al Paese comunque
vada a finire, sia che a prevalere sia il centrodestra, sia che l’armata
Brancaleone delle cosiddette sinistre in un modo o nell’altro riesca a
conservare il potere.
sergio
magaldi