Credo di aver attentissimamente riletto la
pregevolissima meditazione di Sergio Magaldi intorno alla Qabbalah, ai
contenuti della metafisica occidentale, all’Essere e il Nulla: ma, pur
riconoscendole intuizioni raffinate (che non mancherò assolutamente di
sottolineare, come si noterà), quantunque ristrette con abilità ineguagliabile
nello spazio di due articoli, nutro l’impressione che, anche nel caso in esame,
l’heideggeriano oblio dell’Essere continui ad essere perpetrato – in tal modo
pongo ex abrupto un punto. Inducono a pensarlo passaggi come “Se entro in una
stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e,
invece, proprio sullo sfondo di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la
negazione come nullificazione contingente della presenza […]” o “non solo
essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica (!)
dell'essere sul nulla”. È stato precisato anche come in tali passaggi si cerchi
di rendere il pensiero di Sartre, ma non a caso questi venne strigliato da
Heidegger per esempio nella Lettera sull’Umanismo; tuttavia, certo, la
questione ora non è di porsi a favore dell’uno o dell’altro, quanto di
suscitare alcune eventuali e, per quanto possibile, stimolanti meditazioni.
In estrema sintesi, secondo il pensiero heideggeriano, l’Essere è obliato in
quanto confuso con l’Ente. Dire dell’Essere implica soluzioni del linguaggio al
limite dell’evocativo (“L’Essere sussiste”, “risuona”, financo “fa cenno”), ed
esso non va confuso con la presenza dell’Ente: con la dimensione ontica
caratterizzata dalla presenza. In certo qual modo, allora, Essere e Nulla
coincidono secondo una ben chiara prospettiva, vale a dire in quanto figure del
nascondimento rispetto all’Ente qui-presente – calcolabile (nella tecnica) e
vivibile (nell’esperienza): tecnica ed esperienza vissuta sarebbero infatti
l’ultimo livello dell’oblio dell’Essere, già maturato nell’evoluzione della
metafisica occidentale, ora manifesto nelle sue conclusioni più estese e
comuni. Nei Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) §129 Heidegger si esprime
sul Nulla: “La determinazione <> del <>, riferita al concetto
oggettivo di <> in tal modo più generale e più vuoto, è certamente
<> e nei cui confronti chiunque è subito e facilmente maldisposto. […] E
se invece l’Essere stesso fosse ciò che si sottrae e si presentasse
essenzialmente in quanto rifiuto? […] Coloro che temono e disprezzano il
<> devono essere sempre interrogati sul loro <>. E allora spesso si
vede come di quel loro <> essi stessi non siano affatto sicuri”, o, più
in breve, §269 “L’Essere non ricorda <>, tantomeno <>”. Va
presumibilmente chiarito che nel pensiero del secondo Heidegger l’Essere si
vela nell’Ente, ma, in un gioco chiaroscurale, diastolico-sistolico diremmo, vi
si svela in altro modo: come nel caso della verità greca, a-lezeia, la quale
risulta negazione, tramite l’alfa privativo, del coprire: s-coprimento.
Tutto ciò per dire che, nell’umile parere di
chi scrive, l’Essere non parrebbe ciò che riempie una stanza con una presenza,
né il Nulla ciò che la svuota rendendo la presenza assente. Piuttosto, siamo
adesso forse in grado di intuire alcune di quelle suggestioni esoteriche che,
estremizzando in senso opposto ed esasperato il geniale chiaroscuro evocato da
Heidegger, identificano nel Nulla la pienezza dell’Essere, in quanto distacco
dagli Enti.
Ma veniamo ora a un altro punto che almeno io reputo di grande interesse.
Magaldi scrive che “L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant]”:
tuttavia, sul terreno del noumeno kantiano occorrerebbe procedere cauti, anche
perché il grande meticoloso di Köninsberg, mentre offre enunciazioni limpide,
cristalline, intorno a cosa intendere per fenomeno, nonché naturalmente intorno
a molte altre cose, fornisce definizioni meno puntuali, o finanche molteplici,
di noumeno (forse, azzardiamo, per lui coerentemente, avendolo asserito
inconoscibile), rendendo l’enucleazione di tale concetto controversa. Tuttavia,
con puntiglio invece esemplare, egli si sofferma sulle Idee della Ragione e
sulle antinomie di cui sono informate: vi sono tre Idee che la Ragione, nella
sua tensione verso l’Assoluto, pone nella condizione di essere lecitamente
pensate, ma in assenza di una possibilità di corredarle di contenuto, ed esse
sono l’Anima, il Mondo e Dio. Precisamente, senza dilungarci, tali Idee si
vorrebbero definite sulla base delle categorie di qualità, quantità, relazione
e modalità, tuttavia, per l’appunto, antinomiche. (Chi fosse interessato
approfondisca la sezione della Dialettica trascendentale, in Critica della
ragion pura.) Quel che piacerebbe sottolineare è che proprio su questo punto si
inizino a notare delle corrispondenze con la meditazione di Sergio Magaldi: mi
prenderei infatti l’estrema libertà di asserire che le tre Idee, pensabili ma
non definibili, s’istituiscano su una funzione unificante – quantunque molto
probabilmente in un modo molto diverso rispetto a ciò che Magaldi intende con
tale enunciazione. Ad ogni modo la suggestione kantiana si rivelerà troppo
potente, al punto che l’Idealismo tedesco, pur formalmente scaturito da input
kantiani, si sforzerà di recuperare le antinomie, in modo tale da dimostrare
che dei punti in questione invece si possa dire: Fichte porrà l’Io assoluto,
statuente il non-Io, Schelling la Natura, sforzandosi di spiegare come l’Anima
sia da cogliere in una intuizione immediata; Hegel, nell’intento di mediare tra
quello che definiva l’idealismo soggettivo del primo e quello oggettivo del
secondo, porrà la Storia (occidentale), e, nella convinzione di aver così
forgiato, peraltro con sottigliezza e maestà rare, un idealismo assoluto, si
consegnerà, mi si passi l’espressione, ad essa in catene – sorte bizzarra, per
chi si reputava ab-solutus (libero-da). Ad ogni modo, è già qui intuito, com’è
chiaro, che il Tre sia il principio dell’unificazione, come suggerisce ancora
Magaldi. Perché allora non immaginare, con la dovuta riverenza, che dopo
hegelismi di destra e di sinistra, la rilettura qui esibita, nella sua
completezza e profondità, aggiungerei anche nel suo scrupoloso rifarsi
all’inviolabile solidità del sistema cabalistico, non possa in certo qual modo
fornire le basi di un hegelismo veramente assoluto (mi si accordi lo spunto)?
Ma allora a quali opposizioni, e susseguenti riunificazioni, toccherà ad essa
andare incontro?
Ottavio Plini
Ripropongo di seguito, in breve sintesi, quanto avevo
scritto, tra l’altro, nello specifico:
“ […] Lo zero-nulla, dunque, non e il
presupposto dell’esserci dell'Essere, perché, al contrario, è a partire
dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne. Se
entro in una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi aspetto di
trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfondo di chi dovrebbe esserci, mi
si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza. In un
certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità
contingente del suo manifestarsi. II concetto si trova espresso in L'être et
le néant di Jean Paul Sartre :
“[...] il non-essere non è il
contrario dell'essere, è la sua contraddizione. Ciò implica una posterità
logica del nulla nei confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto,
poi negato”(op.cit., trad.it., I1 Saggiatore, Milano, 1964, p.50).
[…] In Was ist Metaphysik? (Frankfurt, l929), Heidegger si occupa
principalmente del problema del nulla e dell'analisi dell'angoscia rivelatrice
di questo nulla: il nulla non è il di fuori dell'essere, ma la condizione che
rende possibile, al di dentro dell'essere, la rivelazione dell'essere stesso.
In Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che raccoglie
le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel I935, il filosofo tedesco
traccia in quattro capitoli la storia della metafisica, rilevando come la
metafisica classica, tralasciando deliberatamente il problema del nulla con la
motivazione che il nulla n o n
è semplicemente, abbia finito con l'occuparsi esclusivamente
di ciò che è, snaturando il problema dell'essere in generale, sino a
determinarne gradatamente l'oblio e facendo dell'essere niente altro che una
nozione ovvia e una parola vuota. Questo oblio del senso dell'essere
costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del nostro essere nel
mondo: l'essere umano non è altro che un' apertura in direzione di tutto
ciò che è.
Quando parliamo del nulla, dunque, lo facciamo
sempre con riferimento all’esperienza sensibile dell’assenza, della mancanza,
dell'annientamento. Di esso possiamo dire soltanto che rappresenta una breve interruzione
nel flusso dell’essere: quella stanza che ho trovato vuota, presto tornerà ad
animarsi di presenze. Di un altro nulla, non siamo autorizzati a parlare, perché
non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa, conviene tacere - ammonisce
Wittgenstein. Ecco, persino quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo
come il nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò
che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yezirah:
“E prima dell'uno che numero puoi tu contare?”, si chiede polemicamente al
presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero.
In
conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non coincidono ma c’è
addirittura una priorità ontica dell'essere sul nulla. Non si può porre,
dunque, il nulla come “l'abisso originario donde l'essere nascerebbe”.
[…] Nella dualità maschio-femmina è contenuto il
dualismo di tutto ciò che è. L’essere, dunque, non è “la pura
indeterminatezza e il puro vuoto”, contrapposto e tuttavia identico al nulla
e neppure insieme al nulla è destinato a scomparire nella concretezza del divenire
[Hegel]. L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant], né
l’eterno e immobile presente [Parmenide]. Il nulla come interrogazione sull’essere
al di dentro dell’essere stesso [Sartre] o come trascendenza imperscrutabile
[Qabbalah] non si contrappone all’essere ma ne è la naturale conseguenza. In
altre parole, l’essere è la manifestazione della dualità, ma la polarità non è
rappresentata dal nulla, perché il nulla è semplicemente contenuto in lui e/o è
fuori di lui come ciò che non può essere detto ma che può essere
pensato nella forma dell’unità [unificazione].L’errore
delle religioni è quello di dare voce a questo uno-nulla, di per sé
indicibile. Ecco perché la Qabbalah storica delle origini [Isacco il Cieco],
pur ispirandosi al monoteismo ebraico, raccomanda di tenersi lontano dalle
speculazioni su Ain-Soph, inteso come Unità e Nulla Infinito. La dualità della
Manifestazione [il solo Essere che ci è dato conoscere] non può essere
ricomposta semplicemente annullando le differenze della dualità radicale,
nell’illusione che ci spinge a saltare il fosso nel tentativo impossibile di
incontrare l’Uno. Né, d’altra parte, tale dualità può essere accettata
fatalmente, al modo degli gnostici, come inevitabile conseguenza del nostro
essere nel mondo. Il lavoro per l’essere umano sembra piuttosto quello di
unificare ciò che è diviso, con la consapevolezza - come ammonisce lo Zohar
- di poter conoscere l’Uno nella sola forma possibile che è quella
dell’Unificato.
Innanzi tutto ringrazio Ottavio Plini per la
qualità e lo spessore del suo commento che mi pare si riferisca più che altro al
rapporto Sartre-Heidegger. In definitiva, non nego che, così come è stato da me
formulato, questo rapporto abbia potuto generare l’idea di una totale assonanza
dei due pensatori rispetto alla questione dell’essere e del nulla. Una
semplificazione da parte mia, dettata dalla necessità del trattare in un post
[e non in un saggio], la questione che più mi premeva di verificare la
tradizione cabbalistica alla luce della metafisica classica.
Non c’è dubbio che la rappresentazione del
nulla fatta da Sartre sia implicitamente criticata da Heidegger e che, di conseguenza, lo sia anche
quella dell’essere. È vero cioè che il nulla al quale fa riferimento il
pensatore tedesco non è lo stesso nulla cui si riferisce il francese. “Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è
nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo
sfondo di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come
nullificazione contingente della presenza […]”, scrive Sartre [L’être et le
néant] e Heidegger osserva [Vas ist Metaphysik?]: «Questo stesso nulla “che non c’è” è anche considerato come l’opposto di
ciò che c’è, di ciò che esiste ed è oggetto di scienza, ma questo nulla
alternativo è fuorviante in quanto si pone al domandare allo stesso modo
dell’ente divenendo un qualcosa di argomentabile. In questo senso il nulla
diverrebbe un qualcosa, violando il principio di non contraddizione … questo niente di negazione è posto
dall’intelletto, è un niente «immaginario» e non il niente di per sé».
Laddove il “nulla originario” si manifesterebbe per Heidegger proprio nella
riscoperta del senso dell’Essere, obliato tanto dalla metafisica classica quanto
dallo stesso Sartre, per aver confuso l’Ente con la totalità dell’Essere. «In fondo c’è un’essenziale differenza tra il
cogliere la totalità dell’ente in sé e il sentirsi in mezzo all’ente nella sua
totalità. La prima cosa è impossibile, l’altra accade costantemente nel nostro
esserci», osserva ancora Heidegger. Questa consapevolezza – conclude il
filosofo di Meßkirch – produce allo stesso tempo lo svelamento
dell’Unità-Totalità dell’Essere, ma solo come “Das Unheimliche” [Il Perturbante freudiano: ciò che è
avvertito insieme come familiare ed estraneo e che genera angoscia unita ad una
spiacevole sensazione di confusione ed estraneità], cioè lo Spaesamento che a sua volta ci permette
d’incontrare per la prima volta il “Nulla originario”. Con ciò si ritorna alla Scienza della Logica di Hegel e alla
coincidenza – sia pure con implicazioni diverse – tra puro Essere e puro Nulla.
C’è di più: questo Nulla originario è altrettanto immaginario del nulla
cosiddetto difettivo, perché è analogamente concepito nell’inutilizzabilità e/o
nella mancanza, nel senso che non posso concepire questo “nulla originario” se
non a partire dalla consapevolezza che mi
manca la possibilità di cogliere l’Essere come totalità.
Come osserva
giustamente Ottavio Plini, la vera differenza tra Sartre e Heidegger, sembra
piuttosto delinearsi con La Lettera sull’
Umanismo (1947), in risposta indiretta a L’ Esistenzialismo è
un umanismo (1946) di Sartre. Tuttavia, a parte il
fatto che questo lavoro [frutto di una conferenza di un anno prima, tenuta
presso il Club Maintenant di Parigi] fu più tardi in gran parte sconfessato da
Sartre, resta da comprenderne l’intento etico-pratico all’indomani di una
guerra scatenata dalla barbarie nazista. Quando il poligrafo francese afferma
che “l’esistenza precede l’essenza”, il suo scopo è quello di rivendicare la
libertà dell’uomo e la sua totale responsabilità in ogni scelta e non già affermare
un primato dell’esserci sull’essere che, d’altra parte, sarebbe in contrasto
con le note affermazioni contenute in L’être
et le nèant: “L’uomo è il nulla dell’essere”, “Questo nulla si annida
nell’essere come un verme nella mela”. Quale il senso dell’operazione sartriana?
L’universo è insignificante, il silenzio di Dio e la mancanza di valori
fondanti obbligano l’uomo a creare da sé i propri fini e
significati: “L’uomo non è altro che ciò che egli fa di se stesso”.
Insomma, nell’impossibilità di cogliere
la totalità dell’Essere, diversamente da Heidegger, Sartre separa l’ontologia
dall’etica. Il pensatore tedesco fa invece di questa impossibilità [«quel che
conta – egli scrive – è l'essere, non l'uomo.»] un obbligo per l’uomo di
ascoltare l’Essere, in quanto egli non ne è il padrone, ma il pastore. Il
rischio, a questo punto, è che questo “ascolto” si traduca di nuovo nel ritorno
ad Hegel e allo Spirito che si manifesta nelle sue varie forme [Religione, Arte
e Poesia, Filosofia].
In conclusione, ritengo che
non ci sia una reale distinzione tra Sartre e Heidegger sul piano ontologico e
che quelle che appaiono come differenze siano piuttosto dovute a una diversa
concezione dell’etica.
Circa
l’altra questione, ho scritto effettivamente che l’Essere non è il noumeno
kantiano, neppure guardando alla totalità delle idee antinomiche che sembrerebbero
riempirlo di contenuto, per il motivo che più che all’Essere [come vorrebbero
Sartre e Heidegger], queste idee fanno riferimento ai poteri della ragion pura
e poco hanno a che vedere con la complessità del reale inteso come Unità-Totalità.
Più che di antinomie, si tratta in realtà di tautologie già insite per
definizione nella ragione umana e sono d’accordo con Ottavio Plini per quanto
afferma circa il loro “scivolamento” nelle varie forme dell’idealismo assoluto.
Non vedo invece come sia possibile ricondurre la questione qui posta,
dell’essere e del nulla, sia pure per
rapporto a quella che egli chiama “l’inviolabile solidità del sistema cabalistico”,
nei termini di un “hegelismo assoluto, né di destra né di sinistra” di cui
francamente mi sfugge il significato. Prima di tutto perché la Qabbalah non è
un sistema, in quanto molte sono le Qabbalah e molti i cabalisti, le cui
posizioni, dal lato della metafisica, sono spesso assolutamente divergenti se
non addirittura contrapposte tra loro. La Qabbalah alla quale ho inteso
riferirmi è quella storicamente più antica, quella che faceva capo a Isacco il
Cieco [Provenza, 1160-1235], per il quale ogni trascendenza [Uno e Zero, Essere e Nulla, Assoluto] è indicibile per il semplice motivo che
tutto ha inizio con il due e con la manifestazione. Mutatis mutandis, tale argomentazione si ritrova più
nell’impostazione di Sartre che in quella di Heidegger e, soprattutto, di
Hegel.
sergio
magaldi