Suburra, regia di Stefano Sollima, Italia, Francia, 2015, 130 minuti |
La Roma di Stefano Sollima è il gorgo in cui la bellezza,
ancorché decadente, della città dei film di Federico Fellini e di Paolo
Sorrentino, sprofonda nella Suburra, il
luogo più malfamato dell’antica Roma che, come un mostro fuoriuscito dai confini
in cui era costretto, si sia riversato improvvisamente per l’intera urbe.
La splendida
interpretazione di Toni Servillo non serve a far rivivere “la dolce vita”, ma
semmai a rimpiangerla. Le passeggiate romane di Jep Gambardella non ci aiutano
a riconoscere una grande bellezza, deturpata dal tempo e dall’incuria
dell’uomo, perché Roma non è la grande bellezza, più di quanto non lo siano
Atene o Firenze: la natura, l’arte, il sogno, l’amore, forse soltanto il
primo amore, e soprattutto la vita sono la grande bellezza che tenta di resistere al nulla, simbolicamente rappresentato
dalla città eterna in cui continueranno ad agitarsi, finché potranno,
Jep Gambardella e i suoi amici.
È il monologo finale a farci consapevoli - semmai ce
ne fosse bisogno - che, sotto la veste felliniana, il film di Sorrentino ha
poco in comune con il vitalismo di cui fu portatore il grande maestro, e che
proprio in questo consiste la sua originalità e la sua bellezza. Mentre la
“santa vecchia” s’arrampica con sofferenza e indicibile sforzo lungo i gradini
della scala santa, ecco risuonare le parole eloquenti e dimesse di Jep
Gambardella:
“Finisce sempre così… con la morte. Prima però c’è
stata la vita… nascosta sotto il bla… bla… bla… bla… bla. È tutto sedimentato
sotto il chiacchiericcio e il rumore… il silenzio e il sentimento… l’emozione e
la paura… gli sporadici inconsistenti sprazzi di bellezza e poi lo
squallore disgraziato e l’uomo miserabile… tutto sepolto dalla coperta
dell’imbarazzo dello stare al mondo…” [Dal post del 07 marzo 2014, Omaggio a LA GRANDE BELLEZZA]
Nel vortice, scompare anche la Roma di Pier Paolo
Pasolini, di film come Accattone, Mamma
Roma, La ricotta. Persino le borgate, dove pure sopravvive un
sottoproletariato senza speranza, si sono dissolte in un massa informe e caotica
che non potrà più ricomporsi in forme solide e definite, perché ovunque il
serpente dell’Apocalisse “getta acqua dalla sua bocca” [Apocalisse XII, 15].
L’intento del
regista di Suburra è proprio questo.
Vivere i sette giorni che preparano l’Apocalisse finale, in una notte continua
fatta di pioggia torrenziale che si abbatte sulla città, ma l’intreccio tra
criminalità organizzata, corruzione politica e malaffare ecclesiastico, per
apparire come il segno dell’avvento dell’Apocalisse e non già come fenomeno
consueto e ben noto ai cittadini romani, ha bisogno di uno sfondo ritenuto
eccezionale e che in realtà nulla ha di straordinario:la caduta del governo
Berlusconi [siamo nel 2011] e le dimissioni di Papa Ratzinger.
Tratto dal libro omonimo di Carlo Bonini e
Giancarlo De Cataldo, il film di Stefano Sollima non ne possiede la
forza evocativa né si mostra capace di un’analisi di tipo antropologico e
sociale altrettanto efficace di quella contenuta nelle pagine del romanzo:
“Ufficialmente denominato «circolo ricreativo», Il Bagatto
era quanto di piú simile a un centro sociale la destra estrema romana fosse
riuscita a concepire. Ma se il modello organizzativo era copiato dalla
sinistra, l’apparato scenografico, dai gagliardetti col fascio littorio ai
murales con Gandalf e Frodo, dai posacenere con la croce uncinata ai manganelli
con l’anima in ferro che vendevano sottobanco su improvvisate bancarelle, era
inequivocabilmente di stampo fascista. Cosí come fascisti erano i giovani cuori
dei ragazzi che, dapprima alla spicciolata poi sempre piú numerosi, andavano
assiepandosi sulle panche zoppicanti del sottoscala di Monte-sacro, impazienti
di ascoltare, in religioso silenzio, il verbo del loro capo spirituale.
Quella sera erano almeno in quaranta, quasi
tutti giovanissimi. Figli delle curve dello stadio Olimpico, divisi dal tifo ma
uniti – questo almeno faceva loro credere il Samurai – da una fede comune.
Le curve.
Il futuro di Roma.
Il Samurai
riponeva grandi speranze nei suoi ragazzi. Gente agitata, gente che non aveva
niente da perdere e fremeva per prendersi tutto.
L’ideologia
era stata l’esca, ma il progetto andava ben oltre ogni ormai tramontata utopia.
Si trattava di costruire una rete a piccole maglie. Dovevano essere forti,
determinati, spietati come antichi guerrieri, ma anche astuti come volpi e,
all’occorrenza, malleabili e urticanti come meduse. Ciascuno doveva essere
impiegato secondo le proprie qualità: cani da strada e professionisti in
doppiopetto. E tutti, tutti sarebbero stati fedeli.
Il Samurai
cominciò a parlare. La sua voce era bassa, gradevole, ma s’apriva a improvvisi
squarci di energia che accendevano le menti e scaldavano i cuori. Parlò dello
stretto, indissolubile legame che avvince la Rivoluzione, che tutti loro
sognavano, e la vita della strada. Spiegò che ciò che per il borghese è
crimine, per il guerriero può essere, a certe con-dizioni, il gesto perfetto
che non tollera né il meschino piagnisteo del debole né l’acre censura di
un’imbelle giustizia. Perché il gesto trova in sé stesso la propria
giustificazione, etica, estetica e religiosa, e tanto deve bastarvi.
Parlò e
parlò, arricchendo l’orazione di parabole esemplari,
finché non ebbe la certezza di averli, come sempre,
in pugno. E allora, all’improvviso, quando si aspettavano la rivelazione
definitiva, tacque, e con un mezzo sorriso li congedò tutti.
– Ora
andate. Che ciascuno di voi mediti su quanto ha appena ascoltato. Ci rivediamo
il mese prossimo.
I ragazzi
sciamarono via, scambiandosi commenti entusiasti ma a mezza voce, per non
disturbare la concentrazione del Samurai, che, a occhi chiusi, si massaggiava
le tempie, come prostrato dallo sforzo oratorio.
– Maestro?
Permetti una parola?
Il Samurai
aprí gli occhi con un sospiro.
E si
ritrovò a dieci centimetri dalla canna di una semiautomatica.
Mise a
fuoco un volto franco, due occhi profondi e corrucciati, una smorfia di
tensione e un tremolio che l’altro faticava a controllare.
Marco
Malatesta. Diciott’anni. Un ragazzaccio di Talenti ricco di cuore, fegato, e,
soprattutto, cervello. Uno dei suoi preferiti. Un potenziale erede designato.
– Se
pensavi di stupirmi, Marco, ci sei riuscito. Ora, se volessi spiegarmi...
– Tu non sei un maestro. Tu sei solo un
bastardo!
–
Attento,
Marco. Stai ragionando come un piccolo-borghese.
– Fanculo alle tue
stronzate, Samurai. Tu sei questo!
Il ragazzo
si frugò nelle tasche del giubbotto e gli scaraventò addosso una manciata di pillole
multicolori.
– Valgono
un sacco di soldi, – commentò il Samurai, per niente turbato. – Faresti meglio a raccoglierle.
– Ah, le
riconosci, eh? E certo! Sei tu che spingi l’ecstasy in curva, tu che ci stai
intossicando. Sei uno spacciatore, Samurai. No, non uno spacciatore, il capo di
tutti gli spacciatori. Ci hai mandato in giro a spaccare le teste degli
spacciatori. E l’hai chiamato «atto rivoluzionario». E invece che cos’era, eh?
Libera concorrenza?
– Ragazzo
mio, se vuoi sparare a qualcuno, prima togli la sicura.
Marco
abbassò d’istinto lo sguardo.
Il Samurai
sorrise, poi agí, fulmineo. In un istante, la pistola era finita tra le sue
mani.
Marco si
avventò, il sangue agli occhi. Il Samurai scartò appena di lato, evitò
l’assalto e, con il calcio dell’arma, vibrò un colpo secco alla base della
nuca. Il ragazzo si abbatté mugolando. Il Samurai scarrellò. Poi si chinò su
Marco, lo costrinse a voltarsi, gli montò su a cavalcioni, puntò l’arma al
centro della fronte.
– Dovrei
ripagarti con la stessa moneta, Marco Malatesta.
E non ti servirebbe a niente chiedere pietà.
– Io non
chiedo pietà a un pezzo di merda! Io ci credevo in te, Samurai, credevo nelle
cose che dicevi. Cambiare questa città, cambiare questo mondo marcio, la nuova
morale. A te questo mondo marcio va benissimo, tu ci sguazzi dentro, tu sei il
traditore!
– Io non
sono un traditore. Semmai, un cattivo maestro. Non sono riuscito a insegnarti
niente. Per questo sono molto piú colpevole di te. E la mia punizione sarà di
lasciarti in vita”[Op.Cit. pp.15-18].
Il merito che Marco Travaglio, su Il Fatto Quotidiano, attribuisce al film di aver “capito tutto prima di Mafia Capitale” senza avere “sottomano le intercettazioni” di cui disponiamo oggi, non solo non appare sufficiente a far decollare il film, ma non è neppure un merito, alla luce di una semplice intuizione di vecchia data da parte dei cittadini, sgomenti di fronte a una gestione del potere che ha portato il comune di Roma a un debito pubblico di 8 miliardi e mezzo di euro.
Tutto nel film appare scontato e prevedibile,
in una sparatoria continua e nello stereotipo di personaggi interpretati da
attori spesso a disagio nella parte ritagliata per loro, come nel caso dell’onorevole
del centrodestra o in quello del cardinale minacciato di finire nel Tevere. Con
scene di sesso che dovrebbero evocare la perversione e il dramma e che inducono
a pensare che siano state girate da troupe
amatoriali. Resta la grande interpretazione di Claudio Amendola nella parte di
“Er samurai” che, quasi da sola, giustifica la visione del film.
sergio magaldi
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