Con Demian, pubblicato sotto lo pseudonimo di Emil Sinclair al termine della prima guerra mondiale, Herman Hesse inaugura una nuova stagione letteraria. Scritto nel periodo in cui lo scrittore si sottopone alla terapia psicoanalitica, il romanzo descrive le vicende del protagonista la cui infanzia trascorre come scissa tra due mondi. In questo universo dimidiato, un giorno appare, quasi alter ego del protagonista, Max Demian. Sbuca come dal nulla a testimoniare la possibilità di ricomporre la scissione. Libera l'amico dalla persecuzione e dal ricatto di un ragazzo, Franz Kromer, che fa parte del mondo del frastuono e del disordine, gli insegna a non aver paura di nessuno, perché -egli dice- quando si teme qualcuno è perché gli si riconosce un potere su di noi. Lo inizia all'esercizio e all'uso della volontà e soprattutto gli fa comprendere la necessità di non separare mai il diavolo e il buon Dio: 'Unire insieme il divino e il diabolico ripensai come un'eco. Poteva essere un punto di partenza. Ci ero avvezzo dai colloqui con Demian negli ultimi tempi della nostra dimestichezza. Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo chiaro, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas (pronuncia: Abràcsas), il Dio che era Dio e diavolo insieme.'
che si morde la coda ha nel centro una mezzaluna con corni sormontati di stelle. Sul tutto si erge un sole col nome di Abraxas.
Harry Haller il protagonista del Lupo della steppa, il romanzo pubblicato nel 1927, conosce il dualismo radicale tra la vita dello spirito e la vita degli istinti. Per ciò che di istintivo sente in lui e che lo rende simile a un lupo, Harry è infelice e medita il suicidio. Egli sa, d'altra parte, che l'apparente ricomposizione del dualismo è la condizione dell'uomo borghese dalla quale rifugge come dalla peste:
'L'uomo ha la possibilità di darsi tutto allo spirito, al tentativo di avvicinarsi alla divinità, all'ideale della santità. Viceversa può anche darsi tutto alla vita istintiva, al desiderio dei sensi, e rivolgere tutte le sue aspirazioni all'acquisto di piaceri fugaci. Una di queste vie porta alla santità, al martirio dello spirito, all'annullamento in Dio. L'altra porta al godimento, al martirio dell'istinto, all'annullamento nella putredine (...) Il borghese cerca di vivere nel mezzo fra l'una e l'altra. Egli non rinuncerà mai a se stesso, non si abbandonerà né all'ebbrezza né all'ascesi, non sarà mai un martire, non acconsentirà mai al proprio annullamento: al contrario, il suo ideale non è la dedizione, bensì la conservazione dell'io, la sua tendenza non mira né alla santità né al contrario, l'assoluto gli è intollerabile, egli vuole servire Iddio ma anche l'ebbrezza, vuol essere virtuoso ma anche passarsela bene e comodamente su questa terra. Tenta insomma di insediarsi nel mezzo tra gli estremi, in una zona temperata e sana, senza burrasche e temporali, e ci riesce, ma rinunciando a quell'intensità di vita e di sentimento che offre una vita rivolta all'assoluto e all'estremo (...) Per sua natura dunque il borghese è una creatura di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare. Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione.'
E' qui evidente l'influenza di Nietzsche che Hermann Hesse tenne tra gli autori più cari. Un certo interesse suscita tuttavia la risposta che lo scrittore dà alla sua stessa domanda: Com'è possibile -si chiede- che la borghesia -i cui membri sono deboli, mediocri e privi di vitalità- sia dovunque potente? Sono i lupi della steppa a renderla forte risponde Hermann Hesse:
'Nella borghesia c' è sempre anche un gran numero di caratteri forti e selvaggi. Harry, il nostro lupo della steppa, ne è un esempio caratteristico. Pur essendo sviluppato a individuo oltre le possibilità del borghese, pur
conoscendo la voluttà della meditazione come anche le tetre gioie dell'odio e del disprezzo di se stesso, pur tenendo a vile la legge, la virtù e il buon senso, egli è un forzato della borghesia e non può sfuggirle...Per la borghesia infatti vale il contrario di quanto vale per i grandi: chi non è contro di me, è per me!'
Guidato dalla mano di Erminia, Harry, tuttavia, come Siddharta, giunge alla consapevolezza che non esiste un solo Harry e che la stessa bipartizione in lupo e uomo, in istinto e spirito non è che una semplificazione grossolana: non esiste un solo Harry e neppure un doppio Harry ma infiniti Harry. L'enorme specchio del teatro magico di Pablo gli rivela la verità:
'Vidi per un solo istante quell’ Harry che conoscevo salvo che aveva il viso chiaro e ridente, di buon umore. Ma appena l'ebbi riconosciuto si divise, una seconda persona si staccò da lui e una terza, una decima, una ventesima e tutto l'enorme specchio fu pieno di Harry o pezzi di Harry, di infiniti Harry, ognuno dei quali mi appariva per la durata di un baleno. Alcuni di essi erano vecchi come me, altri più vecchi, alcuni decrepiti, altri giovanissimi, adolescenti, fanciulli, scolaretti, monelli, ragazzi...'
Siddharta è il romanzo di un risvegliato. E' bene ricordare che, sebbene Siddharta sia uno dei nomi attribuiti al Buddha, il protagonista del racconto non si identifica col Buddha, di cui pratica la dottrina e dal quale presto si discosta per testimoniare che la vera illuminazione si raggiunge non inseguendo questa o quella dottrina ma agostinianamente cercandola dentro se
stessi. E' lo stesso Siddharta ad annunciare al Buddha questa cosiddetta verità, rivendicando di fronte ad ogni dottrina il valore unico e irripetibile di un'esperienza d’illuminazione: 'Non un minuto ho dubitato che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta, la somma meta verso la quale si affaticano tante migliaia di Brahmini e di figli di Brahmini. Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricchezza, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il tuo pensiero, la concentrazione, la conoscenza, la rivelazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E -tale è il mio pensiero, o Sublime- nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole, e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te nell'ora della tua illuminazione!'
La ricerca di Siddharta continua apparentemente senza ricercare, senza fare, senza agitarsi sinché egli perviene alla consapevolezza della morte dell'io e Govinda, il samana e compagno di tante avventure, coglie sul suo volto illuminato l'eterno ciclo delle trasformazioni:
'Non vide più il volto del suo amico Siddharta, vedeva invece altri volti, molti, una lunga fila, un fiume di volti, centinaia, migliaia di volti, che tutti venivano e passavano, ma pure apparivano anche tutti insieme, e tutti si mutavano e rinnovavano continuamente, eppure tutti erano Siddharta (...) vide cadaveri distesi, tranquilli, freddi, vuoti -vide teste d'animali, di cinghiali, di coccodrilli, d'elefanti, di tori, di uccelli -vide dèi, vide Krishna, vide Agni -vide queste immagini e questi volti mescolati in mille reciproci rapporti, ognuno aiutare gli altri, amarli, odiarli, distruggerli, rigenerarli, ognuno avviato alla morte, ognuno testimonianza appassionatamente dolorosa della loro caducità, eppure nessuno moriva, ognuno si trasformava soltanto, veniva un'altra volta generato, riceveva un volto sempre nuovo...'
Come nella cultura indiana, di cui Hermann Hesse fu conoscitore e grande estimatore, l'io non è che mera illusione: non solo come forma nell'eterno ciclo delle trasformazioni, ma anche come improbabile e mentale unificazione di sensazioni diverse. L'io è l'espediente della coscienza per vivere molte vite, come nell'ultimo romanzo pubblicato alla fine del '43: Il gioco delle perle di vetro. Le tre vite di Josef Knecht, pura esercitazione letteraria per chi appartenga all'Ordine di Castalia, potrebbero essere molte di più, infinite e tutte progettate per correre in lungo e in largo il tempo e lo spazio: le forme stesse della Maya, l'effimera realtà che ci circonda.
Peccato che, pur nella sua pregevole opera letteraria, Hermann Hesse conosca un limite -come già sottolineato da Claudio Magris- nella assoluta mancanza di ironia.
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