Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della relazione presentata al convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento Roosevelt e tenutosi a Roma nei giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO:sovranità e democrazia,dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]che si limita a illustrarlo sinteticamente. Aggiungo che la relazione integrale farà parte degli Atti del Convegno che saranno pubblicati a cura del Movimento Roosevelt.
La sovranità popolare costituisce il
fondamento stesso della democrazia e delle forme in cui il governo del popolo
andò realizzandosi nella storia. A sua volta il concetto di sovranità popolare
si lega strettamente al dibattito sui diritti umani già presente in età
classica e procede di pari passo col più ampio confronto su ciò che debba
intendersi per giustizia e diritto naturale. Il paradosso, tuttavia, è
costituito dal fatto che l’esistenza di istituzioni democratiche non fu sempre
collegata al principio della sovranità popolare. Quando Platone [428-348 a . C.], nel I libro della
Repubblica fa dire al sofista Trasimaco [460-413 a . C.] che il diritto
naturale si identifica col diritto del più forte, la democrazia, come possibile
forma di governo, non scaturisce affatto dal riconoscimento della sovranità
popolare, bensì dalla sovranità del più forte che, secondo il proprio
interesse, sceglierà leggi democratiche, oligarchiche o addirittura tiranniche
per mantenere il potere. Dice Trasimaco [Repubblica, 338e-343]: “[…] Ogni governo stabilisce sempre le sue
leggi a seconda del proprio interesse,
la democrazia istituisce leggi democratiche, la tirannide tiranniche e così
via: una volta poi stabilite queste leggi i governanti dichiarano che per i
sudditi giusto è ciò che giova a loro, e chi trasgredisce è punito come
trasgressore delle leggi, come violatore della giustizia. Ecco, amico mio, in
che consiste questa giustizia che io affermo essere di fatto sempre la stessa
in tutte le città: ciò che giova al potere costituito. Esso possiede, infatti,
la forza, perciò per chi ragiona rettamente, segue che ovunque il giusto
consiste sempre nella stessa cosa, in ciò che giova al più forte”.
Un primo embrione di democrazia – non più
intesa indifferentemente al pari della tirannide e dell’oligarchia, come
strumento dei più forti, ma come la forma di governo che più di ogni altra
sembra collegarsi al diritto di natura – s’intravede già nelle analisi di altri
sofisti che si levano per affermare tesi completamente opposte a quelle di
Trasimaco e di Callicle: Ippia di Elide nel sostenere che “tutti gli
uomini sono congiunti tra loro, perché il simile è per natura parente del
simile”; Alcidamante [cfr. Aristotele, Retorica] col proclamare la
libertà originaria dell’uomo, giacché “la natura non creò nessuno schiavo”; Antifonte
Sofista per sottolineare il contrasto esistente tra legge [nomos] e
natura [fusis], la violazione che la norma di diritto positivo compie di
frequente nei confronti dei diritti che appartengono all’uomo per natura, e la
sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini. Dice Antifonte: “Noi rispettiamo e veneriamo coloro che hanno
nobili natali, ma non rispettiamo e non veneriamo chi è di oscura nascita. In
questo ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari, perché per natura in
tutto e per tutto siamo tutti uguali, sia barbari che Greci. Basta considerare
le necessità naturali proprie di tutti gli uomini: sotto questo aspetto nessuno
di noi può essere definito barbaro o greco. Noi tutti respiriamo, infatti
l’aria con la bocca, con le narici e…”[Oxyrh,
Pap., XI, n.1364, ed. Hunt, Fragm. B.,col.2:D.-K.,87 B.44.].
Per
quanto posta su basi materiali, la concezione di Antifonte – unitamente alle
affermazioni di Ippia e Alcidamante e di altri sofisti – rappresenta
l’espressione ante litteram del giusnaturalismo, con l’idea che il
diritto naturale si fondi sulla ragione e non più sugli istinti ferini che pure
appartengono agli esseri umani. Non a caso, nel XVII Secolo, a seguito di tutto
un fiorire nella cultura occidentale di scritti che rompono con il diritto
canonico, Grozio [Huig de Groot 1583-1645] enuncia i principi del moderno
giusnaturalismo, in base al quale il diritto naturale perde la sua fonte
giustificativa nella legge divina, per trarre il suo fondamento unicamente
dalla ragione umana. Contestualmente, con Johannes Althusius [1563-1638] si
affaccia nella storia il principio della sovranità popolare e la
legittimità di ogni comunità umana tramite un contratto esplicito o
implicito.
D’altra parte, perché la democrazia possa
effettivamente esplicarsi nel suo significato più proprio c’è bisogno che si
affermi il concetto di sovranità popolare universale. Diversamente, avremo
governi cosiddetti democratici, solo perché il governo viene esercitato per
conto di “frazioni” di popolo, distinte per censo, età, sesso, cittadinanza e/o
appartenenza tribale, ancorché l’esercizio della sovranità si realizzi in
forme, ritenute possibili per l’esiguità dei numeri, che oggi diremmo di
democrazia diretta. Così, prima ancora che nella più celebre democrazia
ateniese, avviene a Roma sin dalle origini [753 a.C.]. Formata per sinoichismo
[sun oikos: unione di
stirpi] da Ramni [Romani], Tizii [Sabini] e Luceri
[Etruschi], tribù che abitavano il Palatino, la città comprendeva 30 curie, in
ragione di 10 curie o gentes [gruppi di famiglie che si riconoscevano in
un antenato comune] per ciascuna delle tre tribù, che aumentarono quando la
città si fuse quasi subito con gli abitanti del Quirinale e successivamente con
quelli dell’Esquilino, del Campidoglio e degli altri colli
[Viminale-Celio-Aventino]. Il potere apparteneva virtualmente al Senato –
formato inizialmente da 300 senatori, in ragione di 100 capifamiglia di
ciascuna tribù – che eleggeva il rex
ma non poteva promulgare le leggi senza l’approvazione dei Comizi o assemblee
formate dai cittadini distinti secondo il censo e l’età [Comizi Centuriati], la
base territoriale [Comizi Tributi] e l’appartenenza ad una gens [Comizi
Curiati]. Di qui la formula SPQR [Senatus PopulusQue Romanus] che
accompagnava ogni legge approvata. La cittadinanza romana fu estesa
progressivamente dai patrizi – che secondo Tito Livio erano i
discendenti da quei Patres che formarono il primo Senato romano – e dalle loro famiglie sino ai clienti
– per lo più abitanti delle campagne o delle città conquistate che non
finissero in schiavitù – e ai plebei o lavoratori manuali, a seguito
della secessione della plebe del 494
a .C. sul Monte Sacro che comportò l’istituzione di una
quarta assemblea: il Concilium Plebis.
Non diversamente, ad Atene [città-stato sorta
anch’essa per sinoichismo tra le popolazioni dell’Attica], dopo la tirannide di
Pisistrato, nel 508 a .C.
si venne affermando con Cisténe [565-492 a .C.] una democrazia rappresentativa su
base tribale, cui seguì nel 462
a .C. con Efialte, una riforma democratica che diminuì i
poteri dell’Areopàgo [assemblea di aristocratici eletti per anzianità e
discendenza] a vantaggio delle assemblee cittadine e che introdusse la nomophylakìa
[la custodia e l’osservanza della costituzione]. A Efialte [495 – 461], assassinato
giovanissimo per mano degli oligarchici solo un anno dopo l’approvazione della
riforma, subentrò Pericle [495-404
a .C.] e la piena affermazione di una democrazia radicale
e diretta, basata sui poteri della Boulé [consiglio dei membri delle
tribù con poteri di iniziativa legislativa, simile in parte al Senato romano] e
dell’Ecclesía, l’Assemblea dei cittadini radunata nell’Agorà e alla quale
spettava l’approvazione delle leggi e anche il controllo del potere esecutivo e
giudiziario. Le cariche pubbliche erano assegnate secondo criteri di democrazia
stocastica [stokastikòs: congetturale] tra i cittadini di media cultura e competenza, o
mediante elezione assembleare per le cariche che richiedevano specifiche
competenze. Pericle fu forse il primo politico della storia ad essere chiamato
“populista” dai suoi avversari, nonostante la nobile discendenza e le ricchezze
familiari, la grande cultura e l’amicizia di filosofi illustri come Protagora e
Anassagora, e malgrado il fatto incontestabile che il periodo in cui egli fu
considerato il primo cittadino di Atene fu anche quello di massimo splendore
della polis e dell’isonomia, cioè dell’eguaglianza di tutti i
cittadini liberi di fronte alla legge. Celebre, a questo riguardo, l’Epitafio
di Pericle per i caduti del Peloponneso, tramandatoci da Tucìdide
(460-395 a .C.)
e di cui di seguito riporto un estratto:
[37, 1] Il nostro sistema politico non si propone di
imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi
a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia,poiché
nell'amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le
leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un
trattamento uguale, ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio di cui
possa godere chi si sia affermato in qualche campo non lo si raggiunge in base
allo stato sociale di origine, ma in virtù del merito; e poi, d'altra parte,
quanto all'impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia le
capacità di operare nell'interesse dello Stato è di ostacolo la modestia del
rango sociale[…][2]La nostra tuttavia è una vita libera non soltanto per quanto
attiene i rapporti con lo Stato, ma anche relativamente ai rapporti quotidiani,
di solito improntati a reciproco sospetto: nessuno si scandalizza se un altro
si comporta come meglio gli aggrada, e non per questo lo guarda storto, cosa
innocua di per sé, ma che pure non manca di causare pena. [3] Ma se le nostre
relazioni private sono caratterizzate dalla tolleranza, nella vita pubblica il
timore ci impone di evitare col massimo rigore di agire illegalmente, piuttosto
che in ubbidienza ai magistrati in carica e alle leggi; soprattutto alle leggi
disposte in favore delle vittime di un'ingiustizia e a quelle che, anche se non
sono scritte, per comune consenso minacciano l'infamia.
[38, 1] Nel nostro lavoro abbiamo provveduto
a creare un gran numero di momenti di riposo per ricreare lo spirito […] da cui
traiamo un quotidiano diletto che rasserena l'animo.
[40, 1] Amiamo il bello, ma non lo sfarzo, e
coltiviamo i piaceri intellettuali, ma senza languori. La ricchezza ci serve
come opportunità per le nostre iniziative, non per fare sfoggio quando
parliamo. E ammettere la propria povertà non è vergogna per nessuno: ben più
vergognoso è piuttosto non darsi da fare per venirne fuori. [2] La cura degli
interessi privati procede per noi di pari passo con l'attività politica, ed
anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una
buona conoscenza degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo i soli a
considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille, ma buoni a nulla
[…]E siamo i soli a prestare liberamente aiuto agli altri non tanto per calcolo
ma piuttosto in pegno di libertà.
[41, 1] In sintesi, affermo che la nostra
città nel suo insieme costituisce un ammaestramento per la Grecia e, al tempo
stesso, che da noi ogni singolo cittadino può, a mio modo di vedere, sviluppare
autonomamente la sua personalità nei più diversi campi con grande garbo e
spigliatezza […] [5] Ed è per una tale città che questi uomini hanno affrontato
nobilmente la morte in combattimento, ritenendo che non fosse giusto perderla,
ed è naturale che ognuno di quelli che restano volentieri per essa affronterà
ogni travaglio [Tucidide,Istorie,II:35-46,trad. M.
Cagnetta].
Va tuttavia ricordato che anche nell’età di
maggiore espansione della democrazia diretta, la sovranità popolare è limitata
ai polítes o cittadini, maschi adulti, figli di cittadini liberi. Ne
sono esclusi i residenti di origine barbara [straniera] e gli schiavi, mentre
le donne delle famiglie i cui maschi godevano del diritto di cittadinanza,
erano formalmente cittadine, ma prive dei diritti politici. L’introduzione del
suffragio femminile, com’è noto, è storia recente: lo si trova, poi revocato,
nella costituzione dello stato americano del New Jersey del 1776 e in Europa se ne comincia a discutere
durante la rivoluzione francese negli scritti del girondino e marchese Antoine
de Condorcet [1743-1794] e di Olympe de Gouges [1748-1793] che nel 1791
pubblica la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina e
che qualche anno dopo fu ghigliottinata per essersi opposta alla morte di Luigi
XVI e per aver attaccato il Comitato di Salute Pubblica. Sembra che il
procuratore della Comune di Parigi abbia così commentato la sua morte:
“Ricordatevi l’impudente Olympe de Gouges, che per prima istituì le società di
donne, abbandonando le cure della casa per immischiarsi nelle faccende della
Repubblica, e la cui testa cadde sotto il ferro vendicativo della legge.” La
Comune di Parigi del 1871 riconobbe il diritto di voto alle donne, revocato poi
con la sua caduta e ripristinato in Francia solo nel 1944 da Charles de Gaulle,
quando in Europa era già stato approvato
il suffragio femminile nei paesi scandinavi negli anni precedenti la
Prima guerra mondiale e in Inghilterra, Germania, Polonia Olanda, Stati Uniti e
Turchia negli anni successivi. In Italia, fu istituito dalla Repubblica Romana
del 1849, per il breve tempo della sua esistenza, e nel 1920 dalla Reggenza
italiana del Carnaro di Gabriele D’Annunzio [Carta del Carnaro art.12] per essere
definitivamente approvato solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. [SEGUE]
sergio magaldi
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