giovedì 10 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Seconda]






 L’Eutifrone di Platone ci presenta un confronto esemplare tra pensiero sapienziale [Massoneria] e pensiero teologico [Religione]. Esaminiamo in sintesi il contenuto del dialogo.

 Eutifrone e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della polis e subito Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel vederlo lontano dal Liceo e dalle sue abituali conversazioni e più ancora manifesta la sua incredulità di fronte all’idea che Socrate possa essere l’accusatore di qualcuno. E infatti Socrate subito gli rivela di essere l’accusato, non l’accusatore. Di quale accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa nella quale incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo periodo. Socrate è cioè accusato di non credere negli dei della città-stato, di volerli sostituire nel culto con altre divinità e di insegnare queste cose ai giovani, corrompendoli. Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo non esiste tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro l’accusa di empietà si celano precisi motivi politici.

 Eutifrone, dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso l’arconte-re, il sommo magistrato ateniese, in qualità di accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo padre in giudizio e di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante della ‘legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia e santa’.

 “Ma allora, Eutifrone, – gli oppone Socrate – hai davvero la convinzione di conoscere con tanta perfezione le leggi divine? Di conoscere insomma ciò ch’è santo e pio e ciò ch’è empio?… Non hai timore di procedere contro tuo padre? Non potrebbe forse avvenire che a sua volta anche la tua fosse un’empietà?”

 Naturalmente, Eutifrone risponde subito di conoscere perfettamente le leggi divine, ciò ch’è santo e ciò che non lo è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate dichiara di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio difendersi in tribunale e subito propone al suo interlocutore di rivelargli in cosa consista l’empietà e la santità. Eutifrone risponde che è santo fare ciò che lui sta facendo, cioè denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’ di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in catene il padre Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per questione di giustizia, aveva evirato il padre Urano. La citazione consente a Socrate di tornare per un attimo sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio questo comportamento degli dei aveva generato la sua critica e dato spunto alla denuncia contro di lui.

 Ma, insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto quel che stai facendo contro tuo padre, dammi una definizione di santità che possa adattarsi per infiniti altri casi. E subito Eutifrone dichiara che è santo ciò che è caro agli dei, empio ciò che non lo è. Definizione che Socrate non tarderà a smontare: gli dei per primi si accordano forse tra di loro su ciò che è giusto e ingiusto? Noi – continua Socrate – possiamo facilmente accordarci sul peso di un certo oggetto, basterà procurarci una bilancia… ma, quando si tratta del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto non troveremo facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli dei non si comportano diversamente dagli uomini. Eutifrone ne conviene e al termine di una serie di ulteriori argomentazioni propone una nuova definizione di santità: è santo – egli dice – ciò che è gradito a tutti gli dei, empio ciò che a tutti è sgradito. Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova questione: il santo è amato dagli dei perché santo o è santo perché amato dagli dei?

 Man mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore evidenza il fine di Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in possesso della verità, ma, non potendo dire cosa santità e giustizia siano in sé, propone via via diverse definizioni, accorgendosi che nessuna di loro è la verità, e che ognuna dipende dal punto di vista di chi giudica. Così, da ultimo, ad Eutifrone non resta che rifugiarsi nella religione, troncando per ciò stesso ogni ulteriore indagine:

 “…la pietà e la santità – egli dirà – sono quella parte del giusto avente la sua esplicazione nel culto e nella cura degli dei. La parte invece rivolta agli uomini è la restante.”

 Avrà un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade, col consenso del suo stesso interlocutore – anche questa definizione e quando infine gli riuscirà e proporrà di riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone sfuggirgli con un pretesto.

 “Che peccato, amico mio! – ha appena il tempo di osservare Socrate con ironia – Avevo concepito una grande speranza; tu vai lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da te avrei appreso ciò ch’è santo e ciò che non è santo. Così, mi sarei liberato dall’accusa di Meleto, poiché gli avrei mostrato che alla scuola di Eutifrone son divenuto un sapiente di problemi religiosi…” (Platone, I Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)

 Insomma, alla presunzione di sapere della mente religiosa, Socrate oppone la sapiente temperanza di chi innanzi tutto si propone di conoscere se stesso. L’argomento si ritrova in un altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del semplice assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per mezzo di argomenti aprioristici, come sostiene la mente religiosa.

 “O Crizia – dice Socrate – ti rivolgi a me, credendo ch’io conosca gli argomenti sui quali ti rivolgo la domanda. E tu pensi che dipenda dalla mia volontà il darti l’assenso. Al contrario, la cosa non sta affatto così: io vado saggiando col tuo aiuto le varie definizioni propostemi; appunto perché comincio io stesso a non sapere. Farò dunque opportuna ricerca e poi intendo significarti se sono d’accordo o no. Aspetta dunque che finisca prima la mia indagine” (Ibid., p.222)

Pure, in questa ricerca che nulla concede al ‘sapere saputo’ si accompagna sempre un barlume di religiosità. Che si tratti del Socrate storico o dell’iniziato Platone ha poca importanza. Nulla o poco c’è dato sapere sine deo concedente, come Socrate dice a Teage nel dialogo omonimo:

 “Eccoti dunque, Teage mio caro, questa la mia scuola: qualora il mio insegnamento riesca gradito a Dio, grandi e rapidi saranno i tuoi progressi, piccoli e tardi in caso contrario…”

 Ma questo contatto tra l’umano e il divino si realizza con modalità tutt’affatto differenti da quel che avviene nel pensiero religioso. Non si tratta di sostituirsi al dio parlando per la sua bocca e spargendo ovunque il seme di una verità rivelata che dovrà essere accettata anche con la forza, il dio non si mescola con l’uomo ma può lasciar cadere in lui una scintilla di sé, una luce in grado di illuminare la sua ricerca e di guidarlo alla comprensione del Cosmo, cioè dell’Ordine imposto alla natura da un Grande Architetto.

 Del resto, Socrate – ci racconta Platone nel Simposio – è anch’esso un iniziato. Egli ha ricevuto l’iniziazione dei fedeli d’Amore da Diotima, una sacerdotessa esperta nei sacri misteri dell’eros:

 “Proverò a esporvi – dice Socrate ai convitati – il discorso su Amore che ho sentito fare una volta da una donna di Mantinea, Diotima, che era sapiente in queste e in molte altre cose (…) E’ stata appunto Diotima che m’ha iniziato alla scienza d’Amore (…) Quando parlavo con lei, io pure sostenevo, pressappoco, le stesse cose che ora diceva con me Agatone: Eros è un grande dio; Eros è amore di bellezza. E lei confutava il mio dire (…) E allora, dissi, che cosa sarebbe Eros? Un mortale?”
“Per nulla”
“Ma che cosa allora?”
“Come i casi precedenti, rispose, qualcosa di intermedio tra il mortale e l’immortale”
“Che cosa, dunque, Diotima?”
“Un gran Daimon, Socrate, perché tutto ciò che è daimonico è intermedio tra dio e mortale”
“E che potere ha?”
“Di interpretare e trasmettere agli dei ciò che viene dagli uomini e agli uomini ciò che viene dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri invece gli ordini e le ricompense per i sacrifici: essendo in mezzo a entrambi, riempie lo spazio sicché il tutto risulta in se stesso connesso. Attraverso di lui passa tutta la divinazione e la tecnica sacerdotale concernente i sacrifici, le iniziazioni, gli incantamenti e la predizione tutta e la magia. Un dio non si mescola con l’uomo, ma per mezzo di Eros ha luogo ogni rapporto e colloquio degli dei con gli uomini, sia nella veglia che nel sonno.[…] E per natura non è né immortale né mortale […] né povero né ricco. D’altronde è anche in mezzo tra sapienza e ignoranza […].
“Chi sono allora, Diotima, quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?”
“E chiaro anche ad un bambino ormai, disse, che sono quelli a metà tra questi due e che di essi fa parte anche Eros. La sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Eros è amore del bello, sicché è necessario che Eros sia filosofo e, in quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”

 E’ dunque questo fuoco interiore – che in Socrate assume le sembianze di un Daimon, di uno spirito buono, il nel linguaggio della psicologia – a gettare un ponte tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. [Segue]


sergio magaldi

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