(Segue da MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Prima])
L’Eutifrone di Platone ci presenta un confronto esemplare tra pensiero sapienziale [Massoneria]
e pensiero teologico [Religione]. Esaminiamo in sintesi il contenuto del dialogo.
Eutifrone
e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della polis e subito
Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel vederlo lontano dal Liceo e
dalle sue abituali conversazioni e più ancora manifesta la sua incredulità di
fronte all’idea che Socrate possa essere l’accusatore di qualcuno. E infatti
Socrate subito gli rivela di essere l’accusato, non l’accusatore. Di quale
accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa nella quale
incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo periodo. Socrate è cioè
accusato di non credere negli dei della città-stato, di volerli
sostituire nel culto con altre divinità e di insegnare queste cose ai giovani,
corrompendoli. Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo non esiste
tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro l’accusa di
empietà si celano precisi motivi politici.
Eutifrone,
dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso l’arconte-re, il sommo
magistrato ateniese, in qualità di accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo
padre in giudizio e di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante
della ‘legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia e santa’.
“Ma allora,
Eutifrone, – gli oppone Socrate – hai davvero la convinzione di conoscere con
tanta perfezione le leggi divine? Di conoscere insomma ciò ch’è santo e pio e
ciò ch’è empio?… Non hai timore di procedere contro tuo padre? Non potrebbe
forse avvenire che a sua volta anche la tua fosse un’empietà?”
Naturalmente,
Eutifrone risponde subito di conoscere perfettamente le leggi divine, ciò ch’è
santo e ciò che non lo è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate
dichiara di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio difendersi in
tribunale e subito propone al suo interlocutore di rivelargli in cosa consista
l’empietà e la santità. Eutifrone risponde che è santo fare ciò che lui sta
facendo, cioè denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’
di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in catene il padre
Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per questione di giustizia, aveva
evirato il padre Urano. La citazione consente a Socrate di tornare per un
attimo sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio questo
comportamento degli dei aveva generato la sua critica e dato spunto alla
denuncia contro di lui.
Ma,
insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto quel che stai
facendo contro tuo padre, dammi una definizione di santità che possa adattarsi
per infiniti altri casi. E subito Eutifrone dichiara che è santo ciò che è
caro agli dei, empio ciò che non lo è. Definizione che Socrate non tarderà
a smontare: gli dei per primi si accordano forse tra di loro su ciò che è
giusto e ingiusto? Noi – continua Socrate – possiamo facilmente accordarci sul
peso di un certo oggetto, basterà procurarci una bilancia… ma, quando si tratta
del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto non
troveremo facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli dei non si
comportano diversamente dagli uomini. Eutifrone ne conviene e al termine di una
serie di ulteriori argomentazioni propone una nuova definizione di santità: è
santo – egli dice – ciò che è gradito a tutti gli dei, empio ciò che a
tutti è sgradito. Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova
questione: il santo è amato dagli dei perché santo o è santo perché amato
dagli dei?
Man
mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore evidenza il fine di
Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in possesso della verità, ma, non
potendo dire cosa santità e giustizia siano in sé, propone via via diverse
definizioni, accorgendosi che nessuna di loro è la verità, e che ognuna dipende
dal punto di vista di chi giudica. Così, da ultimo, ad Eutifrone non resta che
rifugiarsi nella religione, troncando per ciò stesso ogni ulteriore indagine:
“…la
pietà e la santità – egli dirà – sono quella parte del giusto avente la
sua esplicazione nel culto e nella cura degli dei. La parte invece rivolta agli
uomini è la restante.”
Avrà
un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade, col consenso del
suo stesso interlocutore – anche questa definizione e quando infine gli
riuscirà e proporrà di riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone
sfuggirgli con un pretesto.
“Che peccato,
amico mio! – ha appena il tempo di
osservare Socrate con ironia – Avevo concepito una grande speranza; tu vai
lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da te avrei appreso ciò ch’è santo e ciò
che non è santo. Così, mi sarei liberato dall’accusa di Meleto, poiché gli
avrei mostrato che alla scuola di Eutifrone son divenuto un sapiente di
problemi religiosi…” (Platone, I
Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)
Insomma,
alla presunzione di sapere della mente religiosa, Socrate oppone la sapiente
temperanza di chi innanzi tutto si propone di conoscere se stesso.
L’argomento si ritrova in un altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme
all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del semplice
assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per mezzo di argomenti
aprioristici, come sostiene la mente religiosa.
“O Crizia – dice
Socrate – ti rivolgi a me, credendo ch’io conosca gli argomenti sui quali ti
rivolgo la domanda. E tu pensi che dipenda dalla mia volontà il darti
l’assenso. Al contrario, la cosa non sta affatto così: io vado saggiando col
tuo aiuto le varie definizioni propostemi; appunto perché comincio io stesso a
non sapere. Farò dunque opportuna ricerca e poi intendo significarti se sono d’accordo
o no. Aspetta dunque che finisca prima la mia indagine” (Ibid., p.222)
Pure,
in questa ricerca che nulla concede al ‘sapere saputo’ si accompagna sempre un
barlume di religiosità. Che si tratti del Socrate storico o dell’iniziato
Platone ha poca importanza. Nulla o poco c’è dato sapere sine deo concedente,
come Socrate dice a Teage nel dialogo omonimo:
“Eccoti dunque, Teage mio caro,
questa la mia scuola: qualora il mio insegnamento riesca gradito a Dio, grandi
e rapidi saranno i tuoi progressi, piccoli e tardi in caso contrario…”
Ma
questo contatto tra l’umano e il divino si realizza con modalità tutt’affatto
differenti da quel che avviene nel pensiero religioso. Non si tratta di
sostituirsi al dio parlando per la sua bocca e spargendo ovunque il seme di una
verità rivelata che dovrà essere accettata anche con la forza, il dio non si
mescola con l’uomo ma può lasciar cadere in lui una scintilla di sé, una luce
in grado di illuminare la sua ricerca e di guidarlo alla comprensione del Cosmo,
cioè dell’Ordine imposto alla natura da un Grande Architetto.
Del resto, Socrate – ci racconta Platone nel Simposio – è anch’esso un iniziato. Egli ha ricevuto l’iniziazione dei fedeli d’Amore da Diotima, una sacerdotessa esperta nei sacri misteri dell’eros:
“Proverò
a esporvi – dice Socrate ai convitati – il discorso su Amore che ho sentito
fare una volta da una donna di Mantinea, Diotima, che era sapiente in queste e
in molte altre cose (…) E’ stata appunto Diotima che m’ha iniziato alla scienza
d’Amore (…) Quando parlavo con lei, io pure sostenevo, pressappoco, le stesse
cose che ora diceva con me Agatone: Eros è un grande dio; Eros è amore di
bellezza. E lei confutava il mio dire (…) E allora, dissi, che cosa sarebbe
Eros? Un mortale?”
“Per
nulla”
“Ma
che cosa allora?”
“Come
i casi precedenti, rispose, qualcosa di intermedio tra il mortale e
l’immortale”
“Che
cosa, dunque, Diotima?”
“Un
gran Daimon, Socrate, perché tutto
ciò che è daimonico è intermedio tra dio e mortale”
“E
che potere ha?”
“Di
interpretare e trasmettere agli dei ciò che viene dagli uomini e agli uomini
ciò che viene dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri
invece gli ordini e le ricompense per i sacrifici: essendo in mezzo a entrambi,
riempie lo spazio sicché il tutto risulta in se stesso connesso. Attraverso di
lui passa tutta la divinazione e la tecnica sacerdotale concernente i
sacrifici, le iniziazioni, gli incantamenti e la predizione tutta e la magia.
Un dio non si mescola con l’uomo, ma per mezzo di Eros ha luogo ogni rapporto e
colloquio degli dei con gli uomini, sia nella veglia che nel sonno.[…] E per
natura non è né immortale né mortale […] né povero né ricco. D’altronde è anche
in mezzo tra sapienza e ignoranza […].
“Chi
sono allora, Diotima, quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti né
gli ignoranti?”
“E
chiaro anche ad un bambino ormai, disse, che sono quelli a metà tra questi due
e che di essi fa parte anche Eros. La sapienza, infatti, fa parte delle cose
più belle e Eros è amore del bello, sicché è necessario che Eros sia filosofo
e, in quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”
E’
dunque questo fuoco interiore – che in Socrate assume le sembianze di un
Daimon, di uno spirito buono, il sé nel linguaggio della psicologia – a
gettare un ponte tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. [Segue]
sergio magaldi
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