(Segue da MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Prima], MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Seconda], MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Terza], clicca su ciascun titolo per leggere)
La felice apparente
commistione tra pensiero sapienziale e pensiero religioso che traspare dal
genio dei Greci, non deve trarci in inganno. In realtà, abbiamo già visto, a
proposito di Socrate e dei sofisti, la scarsa tolleranza religiosa della
società ateniese. La città antica è “totalitaria” nel senso che non distingue
tra l’obbedienza che si deve alle leggi e quella dovuta agli dei. Unica
eccezione fu forse Roma, tollerante e persino rispettosa del pantheon
finché una religione non pretese di imporsi su tutte e addirittura di
sostituirsi allo stato.
Tuttavia la religione dei Greci non conosce né dogma
né libro sacro, risolvendosi dunque in una formale adesione agli dei della
città, nei sacrifici, nei riti e nelle feste, peraltro assai frequenti, che si
devono celebrare per ingraziarsi la divinità e assicurare il benessere di
tutti.
Accanto a questa religione per così dire,
conformista, superstiziosa e popolare, che peraltro è il tratto caratteristico
ed esteriore delle religioni di ogni età, si sviluppano in Grecia, in perfetta
concordia con la religione ufficiale, le cosiddette religioni misteriche che
non chiedono di sostituire una divinità con l’altra, e bensì promettono agli
adepti una individuale salvezza, cosa alquanto impensabile e rara nella società
antica.
Così, per esempio, l’iniziato dei piccoli come dei
grandi Misteri Eleusini possiede un sapere indicibile e segreto che non deve
essere rivelato ai profani. E per quanto questo sapere sia legato al culto di
Demetra e di Persefone e dunque si avvalga di un pensiero sostanzialmente religioso,
nondimeno occorre riconoscere che da queste due divinità, collegate al ciclo
del grano e della vegetazione, si levi una sapienza antica e tradizioni più
arcaiche, in parte andate perdute e in parte gelosamente custodite dalla
Massoneria. A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la distinzione
tra pensiero sapienziale [Massoneria] e pensiero teologico [Religione] non
consiste tanto in quel che si sa, ma del modo in cui lo si sa e più ancora
nella spiegazione che si dà del pretendere di saperlo…
Più arduo ancora distinguere, almeno a prima vista,
tra pensiero sapienziale e pensiero religioso all’interno di quella che si può
ben definire la seconda radice della civiltà occidentale: l’ebraica. La
specificità della dottrina sapienziale degli Ebrei, infatti, è di presentarsi e
di svilupparsi in stretta relazione con il Dio della Rivelazione. Ma vi sono al
suo interno almeno tre aspetti che possono facilitarci il compito.
Il primo e il più importante è costituito
dall’infinita ‘lontananza’ che corre tra l’uomo e Dio, sebbene il Dio del Vecchio
Testamento si annunci straordinariamente talora ai sapienti d’Israele. A
differenza del Dio cristiano, Egli non s’incarna, a differenza del dio pagano
Egli non si trasforma assumendo ogni sembianza. Pure, questo insondabile vuoto
che dimora tra l’uomo e Dio deve essere colmato. E per quanto l’ebreo viva
costantemente nel pensiero e nel timore di Dio, egli sa che, per ridurre la
distanza incolmabile che separa l’umano e il divino, deve contare unicamente sulle
proprie forze, sperando solo che la Shekinah sia su di lui.
In tale prospettiva, si delinea anche il secondo
aspetto: l’importanza che riveste per l’ebreo l’elaborazione di una dottrina
sapienziale, lo studio e l’approfondimento della Legge o Torah, il ruolo
carismatico della tradizione.
Il terzo aspetto è appunto costituito dalla Qabbalah
o Tradizione nella quale confluiscono speculazioni di pensiero talora estranee
se non addirittura ostili alla dottrina rabbinica, e per la quale si è persino
parlato di ‘pensiero laico’ e di ‘esoterismo’ degli Ebrei.
Insomma, contro
quel che comunemente si pensa, l’ebreo è costretto a vivere ‘come se Dio non ci
fosse’, pur sapendo in cuor suo che Egli c’è.
Sotto questo riguardo, il più significativo tra i
libri sapienziali del Vecchio Testamento, è certamente Qoelet.
'Tutto è vanità' vi si legge all'inizio e 'tutto è vanità' si ripete quasi alla
fine del libro. Nulla di nuovo sotto il sole: una generazione va e l'altra
viene, il sole sorge e tramonta sempre allo stesso modo, infinito è il numero
degli stolti e i malvagi mai si correggono; inutilmente ci si applica nello
studio o ad acquistar ricchezze perché dove aumentano la conoscenza e il denaro
si moltiplicano le inquietudini e gli affanni. In questo deserto descritto nel
I Capitolo di Qoelet, dove non c'è traccia del nome di Dio e dove tutto
si ripete con regolarità sconcertante, nulla sfugge alla vanità e
all'afflizione dello spirito. Il tema è ripreso con forza nei capitoli
successivi e per quanto si faccia menzione di Dio, si commenta amaramente:
"... la morte dell'uomo e delle bestie è la
stessa, è uguale la condizione di ambedue: come muore l'uomo così muoiono le
bestie; uguale è il soffio di vita per tutti, e l'uomo non ha nulla di più
della bestia. Tutto è soggetto alla vanità." (III, 19)
Una incolmabile lontananza dimora tra l'uomo e Dio,
perché 'Dio è nel cielo e tu sei sulla terra' è detto all'inizio del V Capitolo
e l'uomo, benché sapiente, non troverà nessuna spiegazione dell'operare di Dio,
è detto alla fine dell'ottavo. Così, "vi sono dei giusti cui toccano i
mali, come se avessero operato da empi, e vi sono degli empi, tanto tranquilli,
come se avessero operato da giusti"(VIII, 14). Lo stesso concetto si
ripete e si completa nel IX Capitolo(2-3):
"Tutto è incerto nel futuro, perché tutto
avviene ugualmente al giusto e all'empio, al buono e al cattivo, al puro e
all'impuro (...) L'onesto e il peccatore, lo spergiuro e chi giura il vero sono
trattati allo stesso modo. Questa è la cosa peggiore di quelle che avvengono
sotto il sole: l'accadere a tutti le medesime cose..."
Dunque, il tema della retribuzione, così altrimenti
caro al pensiero sapienziale ebraico non preoccupa minimamente l'autore o gli
autori di Qoelet. L'intento sembra essere piuttosto quello di descrivere
l'infelice condizione umana, prescindendo da Dio e dai suoi imprescutabili
disegni. Il legame tra l'uomo e Dio, se proprio lo si vuole rintracciare, si
sostanzia unicamente nel concetto di prova alla quale Dio chiama,
chiamando alla vita. Ma, diversamente che nel libro di Giobbe, dove il
rapporto uomo-Dio, tra ragione e sragione, assurdo e paradosso si colora infine
di senso, qui il mistero permane rigidamente sigillato e la lontananza diviene
assoluta. Tant'è che l'ultimo consiglio di Qoelet sembra ispirarsi al Carpe
diem di Orazio e dei filosofi greci:
"Va' dunque e mangia allegramente il tuo pane,
e bevi con allegria il tuo vino (...)
In ogni tempo siano candide le tue vesti e non
manchi l'unguento al tuo capo. Godi la vita con la moglie diletta, per tutto il
tempo della tua vita fugace, per quei giorni che ti sono dati sotto il sole,
per tutto il tempo della tua vanità; questa è la tua sorte nella vita e nelle
tue fatiche che ti affannano sotto il sole. Tutto quello che puoi fare con i
tuoi mezzi, fallo presto, perché né attività né pensiero, né sapienza, né
scienza hanno luogo nella regione dei morti dove tu corri." (IX, 7 - 10).
E non v'è dubbio che il pensiero sapienziale dei
Greci aleggi qui e finanche la concezione dell'aldilà rammenti in modo ancora
più radicale quella descritta da Omero nell'Odissea dove, almeno, le
ombre dei morti hanno rimpianti… [Segue]
sergio
magaldi
Ho letto con piacere l'articolo ed è una mia opinione che una volta tanto sarebbe interessante considerare lo sviluppo religioso da un punto di vista psicologico e non soltanto storico. Se greci ed ebrei hanno metabolizzato in forme laiche il dio, la spiritualità è diventata sempre più difficile da vivere nella psiche dei singoli uomini. Gli dei greci castigano soltanto (ricordiamo il mito di prometeo), il dio ebreo poi cristiano invece scaccia adamo ma non pretende nessuna restituzione della scienza del bene e del male, permettendo così che nella sua evoluzione l'uomo di qualunque estrazione fosse non potesse più accettare che i misteri siano cosa buona. La bibbia per porre un limite all'uomo ha posto più norme che saggezza. Ciò ha portato al rischio oggi rivelatosi realtà di una società laica ma senza limiti. Nell'apprendista stregone di Luciano di Samosata il protagonista si diverte a fare magia disinteressandosi dei limiti della magia intesa come conoscenza, e cercando solo i suoi scopi egoistici e banali diventino realtà.Ossia ieri come oggi l'uomo è psicologicamente impreparato a porsi dei limiti, ogni trascendenza spirituale è distrutta. Sembra che alla fine si dovrebbe discutere più di un dualismo natura-cultura piuttosto che una discussione tra classi sociali più o meno elitarie, ossia riprendere in considerazione l'uomo come psiche e stretto da un sovraffollamento intellettuale e da una dimenticanza delle necessità del corpo e della natura. Ossia alla fine non basta considerare solo le conoscenze della tradizione ma tutto un vissuto interpersonale-intrapersonale di tutti gli uomini. In politica è facilmente evidenziabile come i problemi sorgano proprio dal considerare una classe politica al di fuori della necessità ma anche del costo psicologico delle singole scelte sull'uomo. Costo che rimane nel vissuto sia materiale che inconscio della società tutta rallentando la sua evoluzione.
RispondiElimina"....riprendere in considerazione l'uomo come psiche e stretto da un sovraffollamento intellettuale e da una dimenticanza delle necessità del corpo e della natura." Un sovraffollamento intellettuale che non sempre viene tradotto in esperienza di vita senza la quale, la scienza insegna, non v'è progresso, né materiale, né culturale, né tantomeno spirituale. Per cui abbiamo continuato a procedere confondendo progresso con sviluppo, perseguendo il secondo, anche con il supporto della tecnica, in modo insensato e contro natura.
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