sabato 24 luglio 2021

LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte prima)


 

 

 Nella vita di relazione gli esseri umani si scambiano di continuo idee, informazioni e affermazioni che sembrano risalire a opposte matrici: l’una si basa sul “si dice” e su verità date per scontate; l’altra tende di continuo a mettere tutto in dubbio, in una criticità che talora appare persino esasperante. Il conflitto esplode quando s’incontrano due menti così apertamente dissimili. Il paradosso tuttavia è che non sempre e non subito la diversità si fa chiara, perché talora le forme del pensiero si travestono e non sono immediatamente riconoscibili e inoltre perché nessuno ammetterà di essere schiavo del dogma e pochi accetteranno di possedere una natura totalmente amletica. Insomma, per largo tratto gli uni e gli altri potrebbero percorrere la stessa strada senza tuttavia accorgersi che la loro meta è diversa.

 È un po’ quello che avviene quando si confrontano tra loro le due grandi tradizioni del pensiero occidentale: quella sapienziale e quella religiosa [1] . Tutt’altro che irriducibili e rigidamente distinte, permane invece tra di loro una sostanziale differenza che si riflette sulla struttura stessa del pensiero, determinandone atteggiamento e modalità sicuramente divergenti. E se ad entrambe queste forme di pensiero è comune la ricerca di una chiave di comprensione della realtà, una necessità logica di ordinare e unificare ciò che è sparso e diviso, il pensiero religioso sembra incline a sviluppare e ad approfondire il proprio patrimonio di conoscenze unicamente in funzione di una fede e di una verità rivelata.

Il pensiero religioso procede per identificazioni e riconoscimenti, adeguando costantemente il proprio sapere ad una rivelazione originaria, ad una Verità (Alétheia, ἀλήθεια), una e altra dal pensiero che la pone in essere. Il pensiero sapienziale, al contrario, non si preoccupa del confronto con la cosa, non conosce, per così dire, l’angoscia dell’adaequatio rei et intellectus, giacché il vero di cui va in cerca è suscettibile ogni volta di essere variamente interpretato in funzione della consapevolezza acquisita.

Nei Discorsi sulla religione della fine del ‘700, il filosofo romantico Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, rivolgendosi agli spiriti colti e illuminati del suo tempo, taccia di peccato di ubris, di tracotanza e di presuntuosa inimicizia verso gli dei, chiunque pretenda di detenere un sapere e praticare un’etica senza osservare una religione. E’ la colpa antica di Prometeo che, riconosciuto di vitale importanza per l’uomo il fuoco degli dei, lo ruba anziché domandarlo con la necessaria umiltà. Ma nel pensiero di Schleiermacher c’è la convinzione che arte e intuizione, quando non siano accompagnate dal sentimento dell’Infinito, siano inadeguate ad esprimere tutta la complessa potenzialità del sapere umano. E’ questo il senso dell’appello che, proprio ad apertura di libro, egli rivolge agli uomini colti dell’epoca sua:

« Oggi particolarmente la vita degli uomini colti è lontana da tutto ciò che potrebbe essere sia pure semplicemente simile alla religione. Io so che voi tanto meno adorate in sacro segreto la divinità quanto più frequentate gli abbandonati templi; so che nelle vostre eleganti dimore non ci sono altri dei domestici se non i detti dei savi e i canti dei poeti; so che l’umanità e la patria, l’arte e la scienza, poiché credete di poter abbracciare interamente tutte queste cose, hanno preso sì pieno possesso del vostro animo che non vi resta nulla per l’Essere santo ed eterno, il quale, per voi, è di là dal mondo, e che non avete nessun sentimento per lui e in comune con lui. Siete riusciti a far sì ricca e sì varia la vita terrena che non sentite più alcun bisogno dell’eternità; e dopo che avete creato a voi stessi un universo, vi sentite dispensati dal pensare a colui che vi ha creato. Voi siete d’accordo, lo so, che nulla di nuovo e nulla di convincente si può più dire di questo argomento che è stato trattato abbastanza da tutti i lati, da filosofi e da profeti e, potessi soltanto non aggiungere, anche da dileggiatori e da preti. Soprattutto dai preti voi non siete minimamente disposti – ciò non può sfuggire a nessuno – ad ascoltare qualcosa su questo argomento, perché essi si sono resi, già da gran tempo indegni della vostra fiducia, in quanto dimorano più volentieri solo nelle rovine del Santuario, devastate dal tempo e dalle intemperie, e non possono vivere neanche lì senza deturparle e senza corromperle maggiormente. So tutto questo, e, tuttavia, sono spinto a parlarvi da una necessità interna ed irresistibile che mi domina divinamente… » [2]

 E questa “necessità interna” è certamente per Schleiermacher quel sentimento dell’Infinito che in lui sembra inspirato da un dio e in cui, a suo giudizio, principalmente risiede il senso stesso della religione. Ma il sentimento dell’infinito, accompagnato o meno dalla consapevolezza di un divino ispiratore, bene appartiene al pensiero sapienziale come al pensiero religioso, entrambi infatti hanno parte nella sfera del sacro, inteso  come esperienza fondamentale e strutturale della mente umana. Giacché il sacro non è degli dei piuttosto che degli uomini, perché – come osserva Heidegger interprete di Holderlin – “è piuttosto il sacro a decidere inizialmente intorno agli uomini e agli dei, se siano, chi siano e quando siano” [3]

 

 

SEGUE

 

sergio magaldi



[1] Ciò che segue riprende in gran parte, con opportune modifiche, un articolo di diversi anni fa, sintesi di una relazione per un convegno.

[2] F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione e monologhi, trad.it., Sansoni, Firenze, 1947, pp.5-6

 [3] M. Heidegger, Erlauterungen zu Holderlin, 1943, pp. 73-74

 

 


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