venerdì 9 dicembre 2016

A chi spetta la sovranità in una democrazia rappresentativa?

 Il 2° comma del 1° articolo della Costituzione Italiana recita che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Eppure, in queste ore, nel bel mezzo di una crisi di governo, si ha come l’impressione che la sovranità nazionale spetti in realtà ai 15 giudici della Consulta, i cui poteri sono regolati dagli articoli 134-135-136 e 137 della Costituzione e che per il loro incarico, percepiscono uno stipendio di trentamila euro mensili [superiore a quello dello stesso Presidente della Repubblica], oltre a numerosi benefit: liquidazione e pensione d’oro, auto blu con due chauffeur personali, appartamento di servizio, previdenza sanitaria privilegiata ecc… Naturalmente, si tratta di una sovranità non usurpata, ma di fatto delegata dal Parlamento che, a sua volta, la riceve dal popolo sovrano.

Perché tutto questo? Perché – si sente ripetere – non esistono al momento leggi elettorali con cui il popolo possa andare al voto, manifestando la propria sovranità, in quanto l’Italicum – la legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati – in vigore dal mese di luglio, è sottoposto a giudizio di costituzionalità e la Consulta fa sapere che, in pendenza di ricorsi, non potrà pronunciarsi prima del 24 gennaio e, come da prassi consolidata, è molto probabile che la relativa sentenza, operativa per il Parlamento, sia emessa solo un mese più tardi. Quanto all’elezione del Senato [che resta elettivo dopo la vittoria del No nel referendum dello scorso 4 dicembre ], è attualmente in vigore una legge elettorale già emendata dalla Corte Costituzionale e che non a caso è denominata Consultellum.

Dal canto suo, il Presidente della Repubblica, secondo il dettato costituzionale, non può sciogliere le Camere, senza avere prima accertato se in entrambi i rami del Parlamento vi sia una maggioranza in grado di sostenere un nuovo governo. In realtà, tali condizioni non sussistono, tant’è che il presidente Napolitano, dopo le elezioni del 2013, tolse il pallino a Bersani, che intendeva presentarsi al Senato senza una maggioranza precostituita, affidando l’incarico a Letta che realizzò il governo delle larghe intese, prima con Forza Italia, poi con una sua parte, uscita dal partito [NCD]. Infine, da quando Renzi è subentrato a Letta, la maggioranza di governo, sempre più esigua, è sopravvissuta grazie ai voti di un’altra minoranza uscita da Forza Italia [l’ALA di Verdini]. Non è dunque vero che il Pd disponga al momento di una maggioranza precostituita perché, senza i voti di NDC e di ALA, un suo governo non avrebbe la fiducia del Senato.

Non appare dunque priva di fondamento la proposta del segretario del Pd: un governo di unità nazionale, con tutti i partiti presenti in Parlamento per fare una nuova legge elettorale, uniforme per Camera e Senato, o subito al voto. Proposta ritenuta da più parti irricevibile, perché da una parte c’è l’indisponibilità di tutta l’opposizione – che a parole chiede di andare subito alle urne [con l’eccezione di Forza Italia] – a far parte di un governo di scopo; dall’altra, perché si sostiene che non sia possibile votare con due leggi tanto difformi [Italicum e Consultellum], su una delle quali pende il giudizio di costituzionalità.

Eppure, se davvero si volesse andare al voto in tempi ragionevoli, basterebbe discutere in Parlamento [il sovrano delegato dal popolo], in presenza di un esecutivo dimissionario ma tutt’ora in carica per il disbrigo degli affari correnti, la proposta presentata al Senato dal M5S [che, a giudizio dei pentastellati, corregge e armonizza tra loro le due leggi elettorali attualmente in vigore], e/o le eventuali proposte di altri gruppi parlamentari. Il senso di responsabilità dei rappresentanti del popolo dovrebbe alla fine prevalere e dare al Paese, a prescindere da ipotetiche maggioranze di governo, una legge equilibrata per andare al voto in tempi rapidi, come chiedono diverse forze politiche e gli stessi cittadini.

Le lungaggini della Corte Costituzionale – giustificate da impedimenti di natura legale e burocratica, che peraltro dovrebbero essere sempre subordinate all’esercizio della sovranità popolare – sono solo l’alibi dei partiti per mantenere in vita questa legislatura, vuoi per l’interesse materiale degli onorevoli di tutti i gruppi di portare a casa i vitalizi che non scattano prima del 17 settembre 2017, vuoi per l’interesse politico paradossalmente condiviso di chi  da una parte teme la vittoria dei Cinque Stelle e di chi, dall’altra, [politici di lungo corso, popolo di facebook, personaggi inamovibili dei talk show, autorevoli firme della carta stampata ecc…], pur predicando da tempo che bisogna andare al voto – perché a seguito del pronunciamento della Consulta sulla incostituzionalità della precedente legge elettorale, Parlamento e Governo sarebbero abusivi – ora frena, spaventato all’idea, anche se dichiara il contrario, che in quel 41% di Sì ci sia davvero più di un voto per Renzi.

 


sergio magaldi

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