domenica 27 novembre 2016

VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE

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Villa Lubin (atrio).Sede del CNEL


 Sul superamento del bicameralismo perfetto o paritario, mi sembra utile ricordare quanto scrive Roberto D’Alimonte, in un articolo pubblicato un paio di anni fa su Il Sole 24 Ore: “[…] la maggioranza dei paesi della Unione Europea (15 su 28) non hanno una seconda camera. In altre parole sono sistemi parlamentari monocamerali […]. Tra i 13 paesi che hanno una seconda camera solo in 5 paesi  i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini.  In Spagna , tra l’altro, una parte dei membri sono designati dalle Comunità Autonome. Tra questi 5 paesi solo in Italia, Polonia e Romania si può dire che la seconda camera abbia dei poteri legislativi rilevanti. E solo l’Italia ha un sistema parlamentare in cui il Senato ha esattamente gli stessi poteri della Camera”.

Con il No, l’Italia si conferma pertanto come l’unico paese dell’Unione Europea dove Camera e Senato hanno poteri identici o, come dice Gustavo Zagrebelsky, dove il Senato esercita una funzione di controllo sulle leggi approvate dalla Camera.
Con il Sì, le leggi costituzionali ed elettorali restano di approvazione bicamerale, mentre termina l’estenuante “navetta” tra Camera e Senato che può ritardare o affossare l’approvazione delle leggi ordinarie e influire sul sistema economico del Paese, in virtù della possibile diffidenza degli investitori internazionali.

È vero che, in un recente articolo, l’Economist ci fa sapere che, nonostante  il bicameralismo paritario, la produzione italiana di leggi non è inferiore alla media europea, il problema però non è di quantità, bensì di qualità. È vero altresì che, a sostegno del No, si sente ripetere da mesi che quando si vuole, le leggi sono approvate in gran fretta, come nel caso del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione senza neppure bisogno di referendum confermativo, perché approvato da Camera e Senato a maggioranza dei 2/3. Quel che si dimentica di dire è che si trattò di una legge costituzionale e non di una legge ordinaria e che, nella difficile congiuntura dell’Italia di allora, quello fu il prezzo pagato all’Europa per timore della bancarotta. I maggiori partiti politici non se la sentirono di assumersi la responsabilità del No di fronte agli italiani [Da notare che il M5S non era ancora presente in Parlamento]. D’altra parte, l’assunto dei sostenitori del No [se si vuole, una legge si approva in breve tempo anche con il bicameralismo paritario…] testimonia esattamente il contrario di quanto afferma: è sufficiente cambiare una virgola, perché una legge – magari sgradita a certe lobby –  grazie all’azione compiacente di alcuni senatori della stessa maggioranza, rimbalzi di continuo tra Camera e Senato sino al definitivo affossamento. 

Con il No, dunque, si conferma il bicameralismo perfetto e di conseguenza viene bocciata anche la riforma del Senato. I senatori restano nel numero attuale di 315, sono eletti direttamente dai cittadini e da loro sono retribuiti indirettamente, con stipendi, vitalizi e pensioni a carico del bilancio dello Stato, per replicare in tutto e per tutto le funzioni attribuite ai deputati. Con il Sì, il Senato è ridotto da 315 a 100 unità e, divenendo Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali, i senatori non ricevono più uno specifico compenso per una funzione che si aggiunge a quella di sindaco e/o consigliere regionale, cariche per le quali sono già retribuiti. I nuovi senatori restano comunque eletti dai cittadini, anche se con metodo indiretto, giacché sono i cittadini ad eleggere i consiglieri regionali che a sua volta eleggono i senatori. L’elezione indiretta dei senatori è esattamente quello che avviene in 8 dei 13 paesi dell’Unione Europea che hanno una seconda Camera. Per gli altri 14 paesi, il problema non si pone perché hanno una sola Camera. Il nuovo Senato, del resto, non ha una funzione meramente decorativa perché, se è vero che non è chiamato a dare la fiducia al governo, ad approvare le leggi ordinarie e la legge di bilancio, partecipa comunque all’approvazione bicamerale delle leggi costituzionali, UE, referendum ed elettorali, come pure all’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali etc., esattamente come avviene oggi. Inoltre, sulle leggi ordinarie approvate dal Parlamento, il nuovo Senato avrà tempo dai 10 ai 15 giorni [a seconda della materia] per avocarle a sé ed eventualmente emendarle entro i successivi 30 giorni, senza che tale procedura alimenti il conflitto tra i due rami del Parlamento, perché con la clausola di supremazia, valida solo per le leggi ordinarie, la Camera dei Deputati avrà l’ultima e decisiva parola.
Anche se in apparenza la Riforma del Senato sembra presentare più vantaggi che svantaggi, resta tutta da verificare la prassi del suo reale funzionamento: 1) per la confusione che ancora regna circa le precise modalità di elezione dei nuovi senatori, 2) in considerazione del fatto che la carica di senatore diviene aggiuntiva (e non retribuita) rispetto a quella di consigliere regionale o sindaco, e dunque potenzialmente trascurabile, 3) nel timore che il nuovo Senato diventi luogo di scontro di “campanili”. Una complicazione potrebbe venire anche dall’eccesso di “prudenza legislativa” che ha voluto mantenere una “navetta” inutile per 45 giorni tra Camera e Senato sulle leggi ordinarie, mentre non si è avuto il coraggio di introdurre il vincolo di mandato per tutti i parlamentari così da interrompere il tradizionale trasformismo della politica italiana [ben più antico della vigente Costituzione!]. Infine, qualche perplessità genera anche l’istituto dell’immunità parlamentare, non tanto perché si dovesse negarla ai nuovi senatori – che, come i deputati, hanno comunque una funzione costituzionale – quanto perché sarebbe stato bene emendarla per tutti i parlamentari. In proposito, vale la pena di ricordare quanto The Economist scriveva tra l’altro in un articolo dello Giugno scorso:

“Ci sono due sistemi generali di immunità. Il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri paesi garantiscono una forma “ristretta” di immunità: i parlamentari possono votare e parlare liberamente in parlamento o al congresso senza temere possibili cause legali o denunce penali. Il sistema “ampio” di immunità è invece più controverso: alcuni legislatori fortunati godono di immunità da ogni tipo di accusa e possono perderla soltanto in seguito a un voto parlamentare. Secondo i critici, questo sistema consente ai politici di godere di impunità per le loro azioni e incoraggia la candidatura di criminali. Hanno ragione”.

 Le nuove modalità di elezione del Presidente della Repubblica non sembrano apportare modifiche tali da produrre vantaggi o svantaggi. Tutto resta sostanzialmente come prima, se si esclude il fatto che con la riforma aumenta la percentuale di grandi elettori della Camera dei deputati rispetto a quelli del Senato, in conseguenza del diminuito numero di senatori. Neppure c’è il rischio, paventato dai sostenitori del No, che dal settimo scrutinio in poi – essendo sufficienti per eleggere il Presidente i 3/5 dei presenti in aula e non degli aventi diritto – con la legge elettorale attualmente in vigore per l’elezione dei deputati [italicum], la lista che abbia ottenuto il premio di maggioranza  di 340 deputati elegga praticamente da sola il Presidente. Si tratta di ipotesi puramente di scuola, perché presuppone che siano assenti dalla votazione più di 100 grandi elettori dell’opposizione.
Non ci sono dubbi invece circa i vantaggi che il prevalere del porterebbe al Paese con la soppressione del CNEL [Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro], un ente che in sessant’anni ha prodotto tanti documenti ma soltanto 14 proposte di legge, nessuna delle quali approvata dal Parlamento e che, con i suoi 64 consiglieri [120 dal 1957 al 2012], costa ai contribuenti italiani circa 20 milioni l’anno. Con la sua soppressione, il risparmio effettivo per la spesa pubblica si aggirerebbe sui 15 milioni annui, considerando che rimarrebbero “vive” le spese per il personale amministrativo, dirottato alla Corte dei Conti, nonché per la conservazione della splendida villa Lubin, attuale sede del CNEL.
Con il , un certo vantaggio, non senza qualche interrogativo, si avrebbe nel complesso rapporto tra Stato e Regioni, con la modifica del Titolo V della Costituzione. Occorre tener presente che questo punto della Riforma serve a correggere le precedenti modifiche dello stesso Titolo, introdotte dal secondo Governo di Giuliano Amato [25 Aprile 2000 – 11 Giugno 2001] e approvate con Referendum confermativo (64,20% di Sì], indetto in Agosto e svoltosi il 7 Ottobre 2001 durante il secondo Governo Berlusconi.
Sotto la spinta della Lega, l’obiettivo di allora della politica italiana era riformare lo Stato in senso federalista, accrescendo le competenze delle Regioni rispetto allo Stato. Fu inoltre riconosciuta alle Regioni completa autonomia di spesa, con il risultato - come purtroppo già avviene per le Regioni a Statuto Speciale - di far lievitare gli stipendi dei consiglieri in carica nonché di raddoppiare la spesa corrente, nel primo decennio del 2000, del 74,6% rispetto al decennio precedente. D’altra parte, poiché non fu contestualmente varato l’aumento dell’autonomia fiscale delle Regioni, le maggiori spese risultarono e risultano ancora oggi a carico dello Stato.
Con il testo di riforma costituzionale si cerca pertanto di correre ai ripari, delineando le rispettive competenze, per ridurre l’attuale conflittualità tra Stato e Regioni, e introducendo la clausola di supremazia, qualora vi sia uno specifico interesse nazionale, rispetto alle stesse competenze regionali. È proprio di queste ore la notizia che la Corte Costituzionale ha bocciato, su ricorso di un governatore della Lega, la riforma della Pubblica Amministrazione, approvata dopo più di due anni di iter parlamentare, in conseguenza del fatto che il governo ha solo sentito il parere delle Regioni, ma non ha trovato con loro l’intesa richiesta dall’attuale dettato costituzionale. Ciò che in definitiva significa che, in questo campo così come in altri di interesse nazionale, se vince il No, la sovranità continua di fatto a spettare alle Regioni e non allo Stato. D’altra parte, con la vittoria del , si corre il rischio di un eccessivo centralismo cui si accompagna, per uno strano ma purtroppo non incomprensibile paradosso, un accrescimento di potere da parte delle 5 Regioni a Statuto Speciale [Sicilia-Sardegna-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige-Valle d’Aosta]. Desta infine qualche preoccupazione la modifica introdotta all’art. 117, che negli ultimi giorni ha letteralmente scatenato l’ira dei sostenitori del No. Per quanto esagerata e demagogica possa apparire tale reazione, resta da chiedersi perché i riformatori non abbiano chiarito preventivamente le vere ragioni della modifica del citato articolo.
Da:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.”  
A:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali.”

La  giustificazione di questa modifica da parte dei sostenitori del è che si tratti di questione puramente lessicale, in quanto ordinamento comunitario significa sostanzialmente la stessa cosa di ordinamento dell’Unione Europea. Il che è vero, ma non si è avuto il coraggio di dire – come tutti possono leggere su Wikipedia – che:
 “L'Unione europea è un'organizzazione internazionale politica ed economica di carattere sovranazionale, che comprende 28 paesi membri indipendenti e democratici. La sua formazione sotto il nome attuale risale al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (entrato in vigore il 1º novembre 1993), al quale gli stati aderenti sono giunti dopo un lungo percorso intrapreso dalle Comunità europee precedentemente esistenti e attraverso la stipulazione di numerosi trattati, che hanno contribuito al processo di integrazione europea”.

Bene, perché i riformatori non hanno chiarito tempestivamente che il nuovo lessico introdotto in Costituzione, per esprimere il medesimo concetto, è la naturale conseguenza del passaggio dalle precedenti Comunità Europee all’attuale Unione Europea, formatasi ufficialmente con il trattato di Maastricht? Che si tratti di una questione formale, non c’è dubbio, perché con la vecchia o con la nuova dizione, qualsiasi legge dovrà comunque essere approvata dal Parlamento nazionale, ma di questo non tutti si rendono conto, soprattutto in considerazione del fatto che questa Europa, a conduzione tedesca e così poco democratica, è sempre meno amata dai cittadini italiani ed europei. E allora? La mancata precisazione sembra più che altro un infortunio dei riformatori, nel timore che la dizione meno generica voluta da Bruxelles portasse acqua al mulino dei No. In conclusione, tuttavia, occorre riconoscere che la nuova formulazione, ove prevalesse il , non porterebbe svantaggi all’Italia, perché nulla toglie o aggiunge a quanto già presente nel nostro ordinamento costituzionale.
Analogamente, votando non vedo sostanziali vantaggi o svantaggi circa la riforma sui referendum costituzionali e le leggi di iniziativa popolare: se da un lato, infatti, si porta da 50.000 a 150.000 il numero delle firme necessarie per una proposta di legge di iniziativa popolare [con evidente peggioramento, rispetto ad oggi, ma con la “garanzia costituzionale” che la proposta sarà discussa e votata in Parlamento], il quorum per l’approvazione dei referendum abrogativi passa dal 50% + 1 degli aventi diritto al voto, al 50% +1 dei votanti effettivi alle precedenti elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati [con notevole vantaggio rispetto ad oggi], ma solo quando il numero dei richiedenti, dagli attuali 500.000 passi a oltre 800.000 [con reale diminuzione del vantaggio introdotto per i cittadini sulla stessa materia: una sorta di gioco delle tre carte, insomma]. Nell’insieme, si tratta di una modifica bizantina, inutile, e furbesca. Altra cosa sarebbe stata, a vantaggio dei cittadini, la soppressione del quorum, come avviene per i referendum confermativi delle leggi costituzionali, e come infatti avverrà con il referendum del prossimo 4 Dicembre, dove si vince a maggioranza, prescindendo dal numero dei votanti.

Facendo un bilancio conclusivo, emerge la consapevolezza che si è persa l’occasione per fare di più, ma bisogna ricordare da quale maggioranza parlamentare nasce questa riforma costituzionale, e perché. Quel che meraviglia è che si debba assistere, ormai da mesi, ad una lotta cruenta tra i sostenitori del poco [] e sostenitori del nulla [No], pronti a giurare, quest’ultimi, che se vincerà il No, faranno loro un’autentica riforma costituzionale. E con quale maggioranza, con quella che in settant’anni non si è riusciti a mettere insieme? Verrebbe quasi voglia di restare fuori di questa mischia tutta italiana che si traveste di articoli e commi per anticipare una lotta politica che, proprio perché prematura, sarà sterile in ogni caso. Una guerra tragicomica dove, tra i sostenitori  del , c’è chi spaccia questa miniriforma per una rivoluzione e chi, tra i sostenitori del No, chiama eversivi e truffatori gli avversari, nemmeno si dovesse decidere l’uscita dall’euro e/o dall’Europa, nemmeno dovessimo eleggere il Trump italiano, invece di fare un piccolo passo nella direzione del buonsenso. Davvero verrebbe voglia il 4 Dicembre di non andare a votare, se non fosse la considerazione che qualcosa è meglio di niente, portando almeno a casa dopo settant’anni, se vincerà il , il  superamento del bicameralismo perfetto o paritario, la soppressione del CNEL e una minore conflittualità tra Stato e Regioni.


sergio magaldi

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