La Frode, regia di Nicholas Jareckì, USA 2012, 107 minuti |
Arbitrage, in italiano presentato con il titolo di La Frode,
mostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la grande capacità degli
americani di fare cinema. Da una vicenda comune basata sull’idea altrettanto
comune che il denaro sia l’unico vero dio dei nostri tempi, e forse di
sempre, Nicholas Jareckì, regista e sceneggiatore, costruisce una storia che
vede protagonista Richard Gere – ancora prototipo del maschio preferito dalle
donne – nel ruolo dell’affascinante e maturo magnate Robert Miller. L’attore,
meno “manichino” di sempre man mano che gli anni passano, si esibisce in una
interpretazione convincente che si esalta con la capacità tutta americana di
fare del Cinema quello che l’arte cinematografica è innanzi tutto: una sequenza
di immagini che ha soprattutto nel ritmo la chiave per giustificare la propria narrazione.
Provate a raccontare la stessa storia con i tempi blandi di tanto cinema
europeo, e soprattutto italiano, e ne risulterà una vicenda scialba e
insignificante, sicuramente noiosa e sonnolenta per gli spettatori. Perché,
oltretutto, il film, a differenza di un libro, non deve far pensare mentre lo
si legge, ma solo dopo. Così, quando finalmente si tireranno le somme di La Frode, se ne comprenderà anche la morale: chi gestisce un vasto impero finanziario, o anche
soltanto chi ha a che fare con l’unica vera divinità riconosciuta dal
genere umano, rischia talora di non potersi sottrarre alla frode, come
per l’appunto accade al magnate del film, costretto a farvi ricorso per evitare
il fallimento, causato da speculazioni redditizie ma rischiose, per dover
dipendere dalla politica di un paese straniero.
Robert Miller, e con lui ogni uomo che abbia fatto del denaro il
proprio unico dio, non può accontentarsi di quello che ha: la ricchezza, una
famiglia preziosa e in apparenza innocente, formata dalla moglie Ellen [Susan Sarandon]
rassicurante e premurosa, due figli affettuosi e in particolare la figlia
Brooke [Brit Marling] che cura i bilanci delle sue aziende, più
un’amante giovane e bella con aspirazioni artistiche [Laetitia Casta nel
ruolo di Julie]. Se Robert fosse pago, sarebbe una contraddizione in termini, perché
si vieterebbe un'approfondita conoscenza dell’unico dio e delle gioie, sottoforma di sesso e potere, che egli elargisce ai seguaci del suo culto. Un evento improvviso e, per così
dire, karmico mette Robert di fronte alla realtà e gli fa comprendere quanto
poco valga per lui la religione in cui ha creduto. Ma egli sa bene quanto valga
per gli altri: soprattutto per sua moglie che, per convenienza e opportunismo ha
finto sempre indifferenza per i tradimenti del marito, e per sua figlia che,
scandalizzata dalla frode del padre [che poi è solo una frode per falso in bilancio,
reato che, com’è noto, nell’ordinamento giuridico italiano è stato
depenalizzato negli anni recenti], lo condanna duramente. Così, mentre Robert,
ormai consapevole e pieno di rimorsi, cerca di salvare il salvabile – non per sé ormai, ma per gli altri che
dipendono da lui – con uno stratagemma che ne ribadisce il fiuto negli affari e
le capacità manageriali, lo spettatore riceve un messaggio di cui
è più o meno incosciamente consapevole: se si accetta il denaro come
unico dio, tutto gli sarà sottomesso, in particolare l’amore e ogni altro
sentimento. Ma la morale del film è anche più cinica, nel fare di Robert un
personaggio più autentico e simpatico di coloro che lo circondano: chi è più
responsabile della frode? Colui che la fa? O coloro che senza sporcarsi
le mani, e magari condannandola, ne traggono profitto?
sergio magaldi
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