Song of Songs no 5 EGON TSCHIRCH 1923 |
SEGUE DA:
NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia (clicca sul titolo per leggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte II, antecedenti storici dello Zohar (clicca sul titolo per leggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte III, astrologia cabbalistica (clicca sul
titolo per leggere)
NOTE SULLA QABBALAH: parte IV, l’uno e le porte della conoscenza
(clicca sul titolo per leggere)
Al di là delle molteplici chiavi interpretative del Cantico[1], se utilizziamo il Pardès [formato dalle iniziali di Peshat-Remmèz-Derash e Sod], otteniamo quattro possibili modalità di lettura di questo testo, con riferimento alla Qabbalah e all'albero sephirotico: Peshat, o interpretazione letterale, per una rappresentazione dell'unione dell'uomo e della donna, del re e della regina (Tiphereth - Malchuth) mediante i tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod); Remmèz, o interpretazione allegorica, per simboleggiare l'unione completa di Tiphereth e di Malchuth attraverso tutte le membra, cioè per mezzo delle cinque sephiroth del piano inferiore; Derash, o interpretazione anagogica, a significare un’ascesa, mediante l'unificazione delle sephiroth del piano inferiore con Binah e Hochmah, sino alla conoscenza superiore di Daat [la sephirah non sephirah nascosta sull’Albero tra Tipheret e Kether]; Sod, o interpretazione segreta, per elevarsi nella direzione di Ein Soph tramite la triade superiore Binah-Hochmah-Kether. Sod e 'segreto indicibile' proprio perché attiene ai rapporti di Binah e di Hochmah con la Corona (Kether), con quell'uno che si ritrae in Ein Soph e si rivela in Hochmah, cioè nella diade come principio. Si legge, in un altro passo dello Zohar, a proposito dell'unione tra l'uomo e la donna:
“Qui
la donna si unisce al suo sposo. E quando si siano stretti l'un l'altro in un
abbraccio, allora bisogna che le loro membra siano aderenti e i loro
tabernacoli congiunti, come se fossero uno, e che la loro comunione si
diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per potersi
elevare nella direzione di 'Ein-Soph', affinchè tutto si unisca laggiù per
fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo”.[2]
Cosa
s’intende con “essere come uno” e con l’elevarsi nella direzione di Ein Soph?
Essere come uno non significa divenire uno, bensì cogliersi nella diade
originaria o principio. Elevarsi nella direzione di Ein Soph non significa
partecipazione mistica della medesimezza con l'uno, bensì intenzione verso
quella “trascendenza indicibile”, pensabile solo come negazione del
principio e della fine, allorché si realizzi l'uno nella sola forma possibile,
quella dell’unificato. Si spiega, così, perché nel Sanhedrin
talmudico è scritto che “colui che legge un versetto del Cantico dei Cantici
e lo considera come un canto erotico, attira la sciagura sul mondo”[3].
Altrettanto errato è fare dell'unione dell'uomo e della donna una sorta di
ierogamia finalizzata alla dissoluzione della diade nell'androgino originario,
archetipo antropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo e
la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del principio e della
fine. Del principio che è due (il 'Bereshith Bara Elohìm Eth' del Genesi
) e della fine che, ogni volta, torna ad essere principio. Altrimenti detto,
quando l'uomo e la donna si uniscono il principio e la fine sono sempre
altrove, non lì dove ci aspetteremmo di trovarli, sono Ein Soph. La
trascendenza è sempre al di là, come ‘indicibile lontananza’ si offre alla
‘Qavvanah’ (intenzione) e alla ‘Devequth’ (comunione) attraverso
l'unificazione delle sephiroth. Scrive in proposito lo Scholem:
“Devequth
non è dunque ‘unio’, ma ‘communio’. Nel senso che il temine ha nel vocabolario
dei kabbalisti, esso richiede sempre, malgrado il suo carattere d'intimità, un
elemento di distanza..... La "Kavvanà" è lo strumento di questo
processo. Isacco e i suoi allievi non parlano di un'estasi, di un atto unico
che fa uscire da se stessi, nel quale si annulla la coscienza umana. La
‘Devequth’ non consiste nel penetrare impetuosamente in Dio e nell' assorbirsi
in lui; è uno stato costante, che s'alimenta con la meditazione e che per
mezzo suo si rinnova.”[4].
IL
SEPHER BAHIR
Tra i testi
che circolarono maggiormente nelle scuole dei cabbalisti storici, ci fu il Sepher
Bahir (Libro Fulgido) erroneamente attribuito, come già si è detto, a
Isacco il Cieco. In realtà l’opera apparve in Provenza tra il 1150 e il 1200
proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Le sue fonti
principali si ritrovano, oltre che nel Sepher Yetzirah, tra le opere dei
Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo [5],
nel misticismo della Merkavà e in
particolare nel Razà Rabbà o Il Grande Mistero, libro andato perduto,
ma ripetutamente citato, soprattutto da autori caraiti. Pare fosse stato
composto tra il Quinto e l’Ottavo secolo, dunque in una fase successiva a
quella dei testi più importanti della Merkavà.
Il contenuto magico e angelologico di questo libro è attestato da tutti e
sarebbe parte di quella gnosi ebraica che - a giudizio dello Scholem -
deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Si vedrà poi, analizzando il Sepher
Bahir, come il giudizio dello Scholem possa essere rovesciato e portare
alla conclusione, sostenuta da più di uno studioso, di una derivazione dello
Gnosticismo addirittura dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette
ebree’ (Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo
con violente polemiche.
Esaminero ora alcuni punti del Sepher Bahir,
ricorrendo per la citazione di passi significativi alla traduzione di Giulio
Busi (Sefer ha-Bahir, in Mistica Ebraica,
Einaudi, Torino, 1995, pp.151-212). In parentesi tonda sono riportati in
neretto i numeri dei paragrafi del testo dai quali è attinta la citazione. I
passi sono nell’ordine quelli che riguardano: Luce-Tenebra, Tohu-Bohu,
Bene-Male, Acqua-Fuoco, Albero-Giardino e sono tutti
determinanti per la comprensione di ulteriori speculazioni cabbalistiche, quali
soprattutto quelle contenute in Zohar.
Luce:
Gli uomini non sopportano la vista della luce troppo fulgida (bahir), il buio è per te come la luce (1).Solo
della luce c’è sostanza, non così della tenebra che, pure, è creata da Dio (13).
La luce precedette il mondo (16).Nessuna creatura può guardare la prima
luce (147). Qual è il nascondiglio della potenza di Dio? E’ la luce che
ha celato e nascosto e che tiene in serbo per i giusti del ‘olam ha-ba o mondo a venire, quella che rimane è per coloro che
confidano in Dio, osservano la Torah, compiono i suoi precetti, santificano il
suo Nome e ne proclamano l’unità in segreto e in pubblico (148).La Torah
è una luce (149).Fu così creata una grande luce, che nessuna creatura
avrebbe potuto sopportare. Il Santo, sia Egli benedetto,vide che nessuno poteva
tollerarla: ne prese allora la settima parte, e la sostituì, per essi
all’intero. Il resto lo ripose per i giusti a venire (160). E’ scritto:
E Dio disse: Sia la luce, e la luce fu. In verità, questo ci insegna che la
luce era assai grande, né alcuna creatura poteva fissarla (190).
I concetti contenuti nei
paragrafi sopra citati richiamano una continuità sia con il Sepher Yetzirah che con il Sepher Zohar. In particolare, per il
paragrafo (1) si veda il Sepher Yetzirah 1,7 dove si parla delle
fiamme che divampano alimentate dal carbone ardente. In riferimento ai
paragrafi (1) e (13) si veda Zohar, II, 30 b:
“Elohim separò la luce dalle tenebre… Ora non
bisogna credere che si tratti di una vera separazione”. L’idea di una ‘doppia’
oscurità è inoltre contenuta in Zohar allorché si intende distinguere
tra la tenebra separata da Elohim e l’Oscurità o Luce troppo oscura per essere
vista: “Questa luce scaturì dal cuore dell’Oscurità (…) dalla luce nascosta
prese forma una segreta via d’accesso grazie all’oscurità del mondo di quaggiù
e la luce poté manifestarsi.” Poco più avanti, Rabbi Yossi chiarisce che
l’oscurità che consente alla luce di manifestarsi nelle cose del mondo non ha nulla a che vedere con l’Oscurità originaria:
“Rabbi Yossi lo spiega così: (non si tratta dell’oscurità originaria) perché se
tu affermi che è di questa Oscurità chiusa che sono state scoperte le
profondità, sappi che tutte le supreme corone sono lì ancora nascoste e che per
questo sono dette ‘profondità’.”
Tohu-Bohu (Caos e
informità): La terra era caos e informità. Significa che era già caos. Era
Tohu e tornò ad essere Bohu (2). I concetti di materia e forma si
collegano a quelli di luce e tenebra. La riconoscibilità del bene attraverso il
male, come la luce attraverso la tenebra. La terra era caos perché prodotta
dalla condensazione della luce originaria
che si era ridotta per poter essere vista, nella parte mancante della
luce originaria subentra la tenebra, la luce condensata o materia caotica. Dio ha fatto una cosa contrapposta all’altra
(Eccl.7.14) Creò l’informità (bohu)
e la collocò nella pace. Creò il caos (tohu)
e lo collocò nel male, creò l’informità e la collocò nella pace, nel bene (11).
Da dove si deduce che il caos è nel male? Dal versetto: Colui che opera il bene e crea il male-(Is.45.7). La forma o
informità viene dunque creata per limitare o circoscrivere il male. E’ la luce
rimasta dopo la riduzione della luce originaria e che serve a rimettere ordine
nel caos (Ordo ab Chao) della materia
(12). E’ il tohu dal quale
proviene il male che stupisce gli uomini (135). ‘…Compi il tuo lavoro
nella tua dimora…In tal modo, non potranno vederti né nuocerti, giacché essi…
si tengono lontani da ogni condotta buona e scelgono il cattivo comportamento.
Quando vedono che un uomo s’avvia lungo una strada onesta, e la percorre, lo
prendono in odio. Che cos’è? È Satana. Questo ci insegna che il Santo, sia Egli
benedetto, ha un attributo il cui nome è male (162). E tohu significa male che frastorna il mondo
affinché pecchi. Ogni cattiva inclinazione dell’uomo proviene di là… Perché l’istinto del cuore umano è inclinato
al male fin dalla sua adolescenza (Gen.8.21) e il compito dell’uomo è nel
vincere le cattive inclinazioni, nel mettere ordine nel caos dei desideri, nel
dare forma alla sua vita nella materia (167).
Male-Bene. Appare qui evidente il collegamento di questa
coppia con la precedente:
[…] Che significa il versetto: E avvenne che, quando Mosè teneva la sua
mano alzata, Israele era più forte, ma quando egli faceva riposare la sua mano,
Amalec era più forte (Es.17.11)? Ci insegna che il mondo esiste grazie
all’elevazione delle mani. Per quella forza che è stata data a Giacobbe nostro
padre, il cui nome è Israele. Ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe furono date
forze, una a ciascuno di essi, in base all’attributo secondo il quale ognuno
regolava la propria condotta. Abramo era caritatevole verso il mondo… (135).
[6]
Quando Mosè chiese di conoscere il Nome glorioso e terribile, sia benedetto…
domandò perché a un giusto tocchi in sorte il bene e a un altro il male, e
parimenti, a un malvagio tocchi in sorte il bene e a un altro il male. Ma non
gli fu dato di saperlo (194). Perché a un giusto tocca in sorte il bene
e a un altro il male? Giacché quel giusto, a cui tocca il male, era stato in
precedenza un malvagio, e ora incorre nella punizione. E’ possibile che lo si
punisca per quanto compiuto durante la giovinezza?… Gli rispose: Non parlo di
questa vita, ma di quanto è già accaduto nel passato… A che cosa si può
paragonare? A un uomo che piantò una vigna nel proprio giardino, con la
speranza di produrre buona uva, ma non ne ottenne che di scadente. Quando vide
che non aveva avuto successo, la piantò, la recintò, la rafforzò, ripulì i
grappoli buoni dai cattivi, e poi la ripiantò una seconda volta, ma vide che
non era riuscito; la piantò ancora e la recintò, dopo averla ripulita; ancora
non riuscì: sradicò e piantò nuovamente. Per quante volte? Per mille generazioni… (195). Se non
vi fossero le vostre colpe non vi sarebbe differenza tra voi e lui... L'uomo
avrebbe un’anima superiore se non fosse per le colpe. L’hai fatto poco meno di un Dio (Sal.8.6) Cosa significa poco meno? Che egli ha colpe, ma il
Santo, sia Egli benedetto, non ne ha, che Egli sia benedetto e benedetto il suo
Nome in eterno. Egli non ha colpe e tuttavia la cattiva inclinazione proviene
da lui! (196).
Sergio Magaldi
[
S E G U E ]
[1] Per l'interpretazione di senso alchemico
dello Shirah-Shirin, oltre alla vasta letteratura sull'argomento, cfr.,
soprattutto: Cantico dei Cantici, I-5, I-6, II-4, II-7, II-I2, III-1,
III-6, IV-16, V-9, V-14, VI-7, VIII-4, VIII-8. Per l'interpretazione
cabbalistica occorre riferirsi all'intero corpo della letteratura zoharica. Per
una prima introduzione, cfr. Zohar, ed.cit.,vol.I,t.II,p.I28, note
456-7; p.I7I,n.22; p.I72, nn.29-30; p.246,n.40; p.274,n.204;
p.328,n.257;p. 394,n. 876; p.395,nn.877 e 880; p.396,n.895; p.429,nn.98-9;
p.49I,n.35
[2] Zohar, II-216 a-b
[5] Sul Chassidismo tedesco nel Medioevo cfr.
G.Scholem, Le Grandi Correnti della
Mistica Ebraica, il melangolo, Genova, 1990, pp. 95-126.
[6] L’episodio biblico di Amalec, che secondo
l’interpretazione di Isacco il Cieco - come si è visto sopra - determina la
frattura del Nome di Dio, sembra corrispondere qui alla frattura della Luce
originaria da cui derivano le tenebre, il caos e il male. Il collegamento tra
Nome-Luce-Tenebre-Forma-Materia-Bene-Male s’intuisce anche dal prg. 196 (in
parte citato di seguito) del Sepher Bahir.
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