L'Ombra del Vento, Oscar Mondadori, 2006 |
Può sembrare sciocco o
ispirato da mero anticonformismo parlare, nei termini che seguono, di un libro
che ha ottenuto largo successo di critica e di pubblico (8 milioni di copie
vendute) e che è stato definito “più-che-magnetico”, “magico”, “mirabile”,
dotato, come del resto il suo autore, di “grande forza sensoriale” etc…, ma L’ombra
del vento dello spagnolo Carlos Ruiz Zafón – romanzo di cui non intendo
presentare qui neppure una breve sinossi da aggiungere a quelle più o meno
lunghe, ampiamente reperibili su internet – mi appare, dopo una prima e ancor
più dopo una seconda lettura, come una costruzione di generi letterari di
successo miscelati con sapienza editoriale più che letteraria e dati in pasto
ad un pubblico di palato debole ancorché desideroso di sapori forti almeno
all’apparenza.
Le prime pagine per la verità lasciano ben sperare, per quanto
si respiri un’atmosfera che il lettore esperto non tarda a riconoscere come
ispirata da E.T.A. Hoffmann. Gustavo Barceló e Clara, la nipote priva della
vista – che persino nel nome ricorda certi personaggi femminili del grande
scrittore tedesco – sono presentati in un’aura di mistero che mai si dissolve
semplicemente perché in loro non esiste alcun mistero. Daniel, l’adolescente
protagonista che s’innamora di Clara, ricorda da vicino uno studente Anselmo
dei nostri giorni, perdutamente innamorato di Serpentina. Clara, è vero, non è
una serpe, ma per cecità ed atteggiamenti la giovane si pone egualmente fuori
della cosiddetta normalità, senza contare che proprio come una serpe si
mostrerà presto agli occhi del giovane innamorato.
Non si può negare, d’altra parte, che la
suggestione creata da queste pagine iniziali funzioni e funziona soprattutto
perché abbiamo in mente, più o meno consapevolmente, il superbo modello. Man
mano che ci s’addentra nella vicenda, tuttavia, il caos diviene sempre più
funzionale a contaminare tra loro generi letterari diversi: il gotico, il
poliziesco, l’esoterico, l’avventuroso, il fumetto, il rosa, il drammatico e la
favola – genere quest’ultimo nel quale lo scrittore si trova particolarmente a
suo agio per essersi cimentato in gioventù nei libri per l’infanzia – con
personaggi che più che di realtà o di fantasia sanno di stereotipi ai quali,
peraltro, è concesso evolversi.
Abbiamo così lo “scrittore maledetto” che si
riscatta, il barbone che di volta in volta si trasforma in consulente librario,
investigatore e sposo felice, l’ispettore di polizia Fumero, bimbo frustrato e
poi, adulto, vera e propria incarnazione del demonio, padri-padroni
ossessionati da inconfessabili colpe e da queste trascinati alla rovina o resi
in apparenza docili per merito del destino. Abbiamo Penelope, vergine
dolcissima per metà Giulietta di shakespeariana memoria e per l’altra metà
eroina di tragedia greca, che pagherà con la vita un amore incestuoso ancorché
inconsapevole, poi c’è Beatriz femmina provocante prima e madre premurosa dopo
che, realizzando la felice coppia umana con l’ex-adolescente ormai adulto,
“riscatterà” infine la triste vicenda amorosa dello “scrittore maledetto”.
Insomma, un guazzabuglio di fatti e di personaggi tutti poco credibili per un
lieto fine che il lettore medio si attende come premio della difficile
“navigazione”alla quale è stato costretto dall’autore per oltre quattrocento
pagine. Certo, un romanzo dei nostri tempi così convulsi e caotici ma di cui è
facile indovinare non resterà traccia che per essere stato un buon affare
editoriale.
sergio magaldi
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