giovedì 29 dicembre 2011

'STORIA DELLA MIA GENTE' OVVERO LA DECADENZA ITALIANA TRA EURO E MERCATO GLOBALE


















Edoardo Nesi, Storia della mia gente,Bompiani,Milano,2010
                                                       Edizione Mondolibro




Dopo aver letto circa la metà di questo romanzo di non più di 150 pagine, mi sono chiesto in virtù di quale magia avesse vinto lo Strega 2011. Può apparire sorprendente che qualcuno si meravigli dei “criteri” che guidano pubblico [si fa per dire] e giuria nell’assegnazione dei premi letterari, eppure io riesco ancora a stupirmene! In un paese come l’Italia, con una tradizione corporativa ininterrotta che dal Medioevo giunge a noi senza soluzione di continuità. Una struttura sociale rivitalizzata dal Fascismo, religiosamente conservata nei 50 anni di Democrazia Cristiana, mantenuta intatta da tutti i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica: uno Stato fondato sulle corporazioni, sui privilegi e sulle clientele, più che sul lavoro, sul diritto e sul merito, e dove nulla può ancora destare stupore.

Tuttavia, nella seconda metà del libro, ho trovato la risposta che cercavo. L’analisi semplice, incalzante e non priva di efficacia con la quale Edoardo Nesi “spiega” la crisi della Lanificio T.O. Nesi & Figli, nel contesto del fallimento dell’industria tessile a Prato e più in generale nella progressiva scomparsa della piccola industria italiana. Un’analisi che deve aver convinto anche la giuria dello Strega. Un’accusa garbata, ma al tempo stesso spietata e senza appello nei confronti di una classe politica che sta mandando o ha già mandato il paese in rovina.

Distrutto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dai tedeschi in fuga da Prato, il Lanificio T.O. Nesi & Figli, seppe riprendersi sino a costituire, insieme a decine e decine di altre aziende pratesi, il fiore all’occhiello dell’industria tessile nazionale. Poi arrivarono l’euro e il mercato globale:

“Erano i giorni in cui ero ancora arrabbiato, quelli a cavallo del nuovo millennio, quando il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto, all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome dell’azienda e alla sua storia”.

Persino i tedeschi, che erano tra i migliori clienti, cominciarono a guardare al “prezzo romeno” dei tessuti prodotti in Transilvania, mentre i nostri imprenditori continuavano a comprare Mercedes e Audi, “quelle dannate, muscolari macchine tedesche”. Già, e – aggiungo io – continuano ancora oggi e non solo gli imprenditori, perché gran parte degli italiani compra macchine tedesche, ma anche francesi, giapponesi, persino sud-coreane, tutte tranne le italiane Fiat, Alfa Romeo, Lancia. Perché le auto straniere sono più competitive, si suole dire, nel prezzo e nella qualità. Ciò che non è vero, ma questa è la legge del libero mercato, di quel mercato globale che avrebbe finito col rovinare gli imprenditori tessili di Prato e non solo:

“Correvano a tuffarsi in tutte le maledette aste senza badare al prezzo a cui se le aggiudicavano, senza accorgersi che a quel punto erano bell’e pronti per consegnarsi alle grandi aziende dell’abbigliamento mondiale così adorate dai giornalisti economici, quei titanici gruppi stranieri che vendono in tutto il mondo i loro cenci senz’anima e senza fantasia, e sono i veri beneficiari della globalizzazione; ai padroni del nostro spaurito mondo globale, quelli che credono fermamente giusto che il prezzo ideale di un prodotto lo decida il mercato e solo il mercato, perché il mercato sono loro […]”.

Fu così che il Lanificio T. O. Nesi & Figli – un’azienda appartenuta alla stessa famiglia per tre generazioni – dovette vendere, prima che la rovina fosse completa, mentre Francesco Giavazzi si esercitava sul Corriere della Sera [come del resto la maggior parte della stampa] nel sostenere “l’infinita bontà della globalizzazione […] e l’incapacità di grandissima parte dell’industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato”. E con lui, i politici che, nelle difficoltà oggettive in cui vennero improvvisamente a trovarsi le piccole imprese, non trovarono di meglio, per affossarle definitivamente, che introdurre con Prodi e Visco la tassa denominata IRAP:

“Un’invenzione infernale che ti costringe a pagare non in base all’eventuale utile conseguito, ma in base al fatturato che realizzi e al numero dei dipendenti che hai e agli interessi che paghi alle banche e persino alle perdite sui crediti […]”.

Ed ecco arrivare nei capannoni di Prato, lasciati liberi dalle tante aziende fallite, l’esercito dei cinesi, con capi intraprendenti e senza scrupoli alla guida di un proletariato avvezzo a lavorare dalla mattina alla sera in condizioni subumane e senza igiene. Nella consapevolezza che per ogni capannone chiuso dalle autorità, un altro se ne sarebbe subito aperto, perché in Italia “le leggi sono timide come ragazzine”, aggiungo io, mutuando l’espressione da Franz Kafka:

“Tutto è sporco, orribilmente sporco. Lerci sono il pavimento, le cucitrici, i cubicoli senza finestre e senz’aria dove sono ricavati i giacigli. Lerce le coperte, lerci i bagni. Tutto è orribilmente trascurato, come se fosse impossibile pulire ciò che comincia subito a risporcarsi, folle l’idea di considerare casa quel grandissimo casino, ridicolo il solo pensiero di abbellire ciò che non può essere abbellito”.

Questa, l’inevitabile conseguenza – osserva Nesi narratore – di quanto era accaduto nell’ultimo decennio del secolo, quando fu concesso alle merci cinesi d’invadere l’Occidente, mentre in Italia si coltivava l’illusione da parte dei soliti politici e degli economisti che “la totale liberalizzazione degli scambi commerciali” avrebbe recato enormi vantaggi al nostro paese. Non solo, infatti, la globalizzazione, spazzando via dazi e protezioni, avrebbe consentito d’importare beni di consumo, come pc, lavatrici, televisori, prodotti dell’abbigliamento ecc. a basso prezzo, ci avrebbe anche permesso di esportare in Cina il Made in Italy [tessuti, piastrelle, mobili, prodotti sanitari, scarpe, salumi ecc.], invadendo così un mercato di un miliardo e mezzo di consumatori, affascinati dai nostri prodotti e sempre più in grado di comprare.

“Queste fandonie ottimistiche – osserva ancora Edoardo Nesi – non rappresentavano che i corollari della favola bella che ogni giorno, per anni c’era stata raccontata dai giornali, dalle televisioni, dalle radio, e che voleva il mondo ormai spiegato, risolto, uno […]”.

Cosa accadde invece? Che i cinesi non comprarono il Made in Italy, ma cominciarono a produrlo e a diffonderlo in Occidente con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. E i politici italiani che fecero per difendere il Sistema Italia, un sistema che negli anni aveva garantito benessere per tutti? Non certo quello che hanno fatto gli altri paesi europei:

“È un gigantesco complesso d’inferiorità, quello che impedì e impedisce ancor oggi ai nostri politici di difendere gli interessi dell’industria manifatturiera e dei milioni di persone che direttamente o indirettamente ne campano? Dopotutto i politici francesi hanno difeso e difendono con i denti e contro ogni logica [globalizzante, aggiungo io] i sussidi alla loro agricoltura e ai loro contadini; i politici tedeschi fanno scudo coi corpi alla loro potentissima industria chimica; gli svedesi e i danesi non sono nemmeno entrati nell’euro per paura di veder snaturato il proprio stato sociale; gli inglesi si sono tenuti la sterlina e non hanno nemmeno firmato l’accordo di Schengen.

Cosa pensavano, invece, i nostri politici quando firmavano quei fogli per conto nostro e svendevano la nostra industria manifatturiera? Davvero credevano che si potesse trovare il modo di rivaleggiare con chi produce i nostri stessi articoli a una frazione del nostro costo?”

Cosa si poteva fare che invece non si è fatto? Si domanda ancora Nesi e la sua risposta appare quasi profetica, se si pensa che egli ha terminato il romanzo, un anno e mezzo prima che arrivasse il governo dei tecnici e il cosiddetto decreto Salva Italia:

“Bisognava lottare con le unghie e con i denti, a palmo a palmo, come hanno fatto tutte le altre nazioni. Bisognava trattare, trattare e trattare, non stancarsi di portare le nostre ragioni, e mandare a trattare quelli bravi davvero […] quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non i professori, non quei conigli bagnati che si facevano zittire a scapaccioni ogni volta che provavano ad aprir bocca, umiliati alla sola menzione di quel colossale debito pubblico che pure avevano visto lievitare ogni anno senza riuscire a far nulla, e che a Bruxelles gli veniva continuamente sventolato davanti agli occhi come il marchio dell’infamia”.

Dove Edoardo Nesi diventa incredibilmente profetico è però nelle pagine finali, quasi avesse previsto tanto tempo prima quale sarebbe stato l’esito della crisi italiana e a chi sarebbero state affidate le chiavi del governo. Quasi ce ne dispiace per il presidente Giorgio Napolitano, che la stampa che conta ha indicato quasi all’unanimità come l’artefice provvido e lungimirante che ha insediato Monti a Palazzo Chigi. Perché salvasse l’Italia, tassando gli italiani come nessun altro in passato e gettasse il paese nella recessione più profonda:

“Questa è la mie gente, professor Monti. La mia gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare. Siamo milioni, e mi perdonerà se la coinvolgo in questo libro dolente, in questa disperata battaglia che le parrà di retroguardia, ma è assolutamente necessario che da ora in poi lei si ricordi di noi quando ragiona di politiche comunitarie con le persone più potenti del mondo, altrimenti ci metto poco a mandarle a Milano Tacabanda e i suoi ragazzi, a scuotere i cancelli della Bocconi”.



sergio magaldi










domenica 18 dicembre 2011

LEIELUI, romanzo di ANDREA DE CARLO























LEIELUI, romanzo di Andrea De Carlo, Bompiani, Ottobre 2010, pp.568





A circa un anno dall’uscita dell’ultimo romanzo di Andrea De Carlo, mi chiedo ancora perché la critica, soprattutto quella [femminile] che circola in rete, più letta ormai di quella delle riviste cartacee specializzate, si sia esercitata in un’analisi così distruttiva nei confronti di questo LEIELUI, tanto più che stiamo parlando di una letteratura [quella italiana] che da tempo ormai si caratterizza per la mediocrità di autori e contenuti, né le cose potrebbero andare diversamente da quanto l’editoria nazionale che conta ha inteso fare cassetta pubblicando le fantasie e i racconti di conduttori di talk show, politici, giornalisti, cantanti, attori ecc… tutti meno che scrittori, ma già noti ai circuiti mediatici e al vasto pubblico televisivo che ne comprerà i libri magari senza leggerli.


Andrea De Carlo scrittore lo è di sicuro, il suo torto forse è quello di misurarsi con una storia d’amore. “Seicento pagine di sciroppo d’amore” annunciava Gloria M.Ghioni su Criticaletteraria, nel presentare il libro, posticipando erroneamente di un anno la data di pubblicazione, e Geraldine Meyer, la più critica di tutte, responsabile della libreria “Il Trittico” di Milano, gli dedicava a distanza di qualche mese una lunga e analitica recensione del seguente tenore:


“ […] La storia, banale dall’inizio alla fine, si dipana tra stereotipi letterari e scrittura finto alta per nascondere un vuoto totale di fantasia e inventiva […] Tutti i personaggi, nessuno escluso, sono di una antipatia quasi ridicola tanto diviene caricaturale […] Tra tentennamenti, paure, incertezze si troveranno ovviamente incapaci di resistere a quella corrente sotterranea di attrazione e di ineluttabilità. Trascorreranno due giorni nella più classica coreografia provenzale: mercatini colorati, profumi, sole, colori. Gesti trattenuti a stento, tensione fisica e sessuale che finalmente si scioglie in una notte di sesso che, statene certi, non è solo sesso ma comunicazione di anime. Poi, ovviamente sensi di colpa e ore insonni passate a discettare sui massimi sistemi dell’amore, dei ruoli maschili e femminili. Sublime dialogo, sublime nella sua assoluta pochezza e artificiosità […] I registri linguistici dei personaggi sono uguali tra loro; Daniel parla come Claire che parla come le sue colleghe che parlano come Stefano che parla come sua madre […] Ciò che resta di questo tomo di più di cinquecento inutili pagine è solo freddezza e senso del ridicolo. Senso che non ha fermato la mano dello scrittore in tempo per salvarsi almeno dal grottesco…”


Il grottesco cui si riferisce la Meyer è il finale del romanzo, quella sorta di corsa agli ostacoli in cui lui cerca di raggiungere lei. Io, per la verità, non lo definirei grottesco, al più lo chiamerei improbabile, nemmeno impossibile: Sartre diceva che l’immaginario, nell’arte, nella poesia, nella letteratura, ha il compito di mostrarci la realtà quale sarebbe se avesse il suo fondamento interamente nella libertà umana. Certo, raccontare una storia d’amore è difficile, perché si rischia il déjà vu, l’ovvio, la pornografia o, come dice la Ghioni, lo sciroppo. Penso però che Andrea De Carlo non sia “scivolato” in alcuna di queste categorie, anche perché quella che racconta, più che una storia d’amore vera e propria, mi sembra piuttosto una “psicologia dell’innamoramento” e delle sue contraddizioni.


Vediamo: lei è Claire, una giovane donna italo-americana che lavora nel call center di una grande compagnia di assicurazioni. Ha lasciato l’America, dov’è nata, e per amore ha trovato rifugio in un paesino della Liguria, nella casa che era stata di suo padre. Per disamore s’è poi trasferita a Milano, sperando in un altro legame appena intrecciato e adattandosi ad un lavoro modesto. Lui è Daniel, uno scrittore milanese già avanti negli anni, pluriseparato, con due figli che raramente lo vengono a trovare, e sempre in cerca di nuove emozioni. Lei è nell’Audi di Stefano, il fidanzato prevedibile e fin troppo sicuro di sé. Lui è ubriaco per il “male di vivere” e guida una vecchia Jaguar verde che presto finirà addosso all’Audi. Lei lo soccorre. Quel che accade dopo, il lettore lo indovina facilmente. Non è scontato invece quel particolare modo che i due hanno di innamorarsi, tra piacere e incomunicabilità, tra voglia di fuggire e desiderio di rivedersi, tra gesti d’abbandono e vissuto di sofferenza, quel perenne oscillare tra le contraddizioni della realtà di cui solo un grande amore è capace:


“Lui la guarda da pochi centimetri alla luce del mattino: con gli occhi chiusi, i capelli confusi dalla notte e dalle danze, l’aspetto di donna e di ragazzina. Gli sembra che i suoi lineamenti e le sue forme corrispondano con perfetta naturalezza a qualunque sogno abbia mai coltivato, colmino qualunque vuoto abbia mai provato”.


Poi, all’improvviso, ecco insorgere tra loro lo spettro della non-comunicazione, quando si comincia con una domanda alla quale si finisce col rispondere con un'altra domanda e lui pensa che l’armonia che s’era creata tra loro se n’è andata. E il sarcasmo di lui che offende lei e la costringe a fuggire. Lei che in quel gesto crede per un attimo di aver ritrovato le certezze smarrite. L’ansia di lui che percorre su e giù un appartamento “irrimediabilmente vuoto e ingombro”, non perché lei l’abbia mai abitato ma solo perché nella mente e negli occhi di lui ormai non c’è che lei. Lei che torna a cercarlo e trova solo tracce di altre donne. Lui che la rincorre invano per la città. Lei che pensa di sentirsi meglio, tagliando un nodo che è convinta di non poter sciogliere, e che decide di andarsene per sempre, senza parlargli e senza neppure ascoltarlo. In una sequenza che sa di destino e di coincidenze e dove si delinea soprattutto l’animo femminile. Una donna che in cuor suo è convinta di amare. Un uomo innamorato mai si comporterebbe così e infatti Daniel non si rassegna e continua a cercarla sino a quel finale che la Meyer giudica grottesco e sul quale giura di non aver mai riso tanto. Punti di vista, il mio è diverso.



sergio magaldi





venerdì 16 dicembre 2011

I SI' E I NO DEL GOVERNO MONTI PER L'EUROPA






Non starò più a commentare i singoli provvedimenti del decreto Monti, quel “togli e aggiungi” su cui si sono esercitati i media per tanti giorni. Della manovra approvata dai partiti del centro, del centro-destra e del centro-sinistra [UDC – PDL –PD], con l’opposizione della Lega Nord e dell’Italia dei valori, esaminerò brevemente nelle conclusioni, lo “spirito” che ha guidato il governo, quali classi sociali siano state “chiamate” ai maggiori sacrifici, quali siano state risparmiate e perché.

Auspicavo [Cfr. in questo stesso blog: “Il governo Monti e la casta delle caste”] che il presidente Monti sottoponesse il decreto “Salva Italia” così com’era, per quanto recessivo e iniquo, alla fiducia delle Camere. Temevo ciò che poi sarebbe accaduto. In cambio di una provvisoria mancia di qualche euro per i redditi sino a circa 1000-1100 euro netti mensili [!], di qualche parziale aggiustamento per alcune tipologie di pensioni di anzianità e di un lieve innalzamento della franchigia sull’ICI solo per le famiglie con figli a carico, sono stati introdotti nuovi balzelli per la maggior parte degli italiani, tra cui una riedizione ancora peggiore del famoso prelievo di Giuliano Amato sui conti correnti. Quello era un provvedimento una tantum, questo diventa una tassa stabile. Temevo poi soprattutto che sparisse dal decreto il “rivoluzionario” taglio dei costi della politica, limitato peraltro alla riduzione dello stipendio dei parlamentari e alla soppressione delle giunte provinciali. Ciò che è puntualmente avvenuto. Queste “sparizioni” ne hanno trascinate altre con loro, dando all’insieme del decreto “Salva Italia” una connotazione ancora più classista di prima.

Eppure Monti, che è uomo d’onore, continua a sostenere che il suo decreto è equo, perché oltre ai “soliti noti” sarebbero stati colpiti, come ha detto testualmente, anche “nuovi noti” che però Monti, che è uomo d’onore, si guarda bene dal dire chi siano. E il presidente Napolitano, anche lui uomo d’onore, ritiene la misura equa perché – ha sostenuto – i sacrifici sono stati chiesti a tutti i ceti sociali. Per non parlare degli esponenti del centro-sinistra, anche loro uomini d’onore, felici in fondo, nonostante qualche lamentela di facciata, di votare la fiducia ad un governo che non solo per il momento li libera del fantasma di Berlusconi, ma che, secondo le loro stesse parole [Si veda l’intervento  dell’on. Marina Sereni a “Porta a Porta”], per la prima volta tassa anche i ricchi. Dove i “ricchi” sarebbero i possessori di una seconda casa sulla quale, com’è noto, graverà una tassa [IMU] ben più pesante della vecchia ICI, frutto sia dell’aumento dell’aliquota, sia della rivalutazione del 60% del valore dell’estimo catastale. Per la verità, non risulta che i ricchi investano molto nelle case. Come i politici, che preferiscono prendere in affitto [talora anche molto agevolato] persino la casa dove vivono abitualmente, anche i ricchi non amano vedersi intestatari di proprietà immobiliari di alcun tipo, eventualità che potrebbe ricondurre ad accertamenti di natura fiscale. D’altra parte, i ricchi proprietari di case date in affitto [seconda,terza,quarta casa ecc…] avranno più di una compensazione ai nuovi balzelli, grazie alla “cedolare secca” sulle civili abitazioni, introdotta dall’ultimo governo. Dunque, l’unico a pagare veramente sarà il ceto medio che tiene a disposizione la seconda casa per le proprie vacanze…

Ripeto ancora un concetto già espresso su questo blog e che, più che una convinzione personale, sembra sempre più un dato inequivocabile. Il partito che si vedrà maggiormente penalizzato dal proprio elettorato sarà quello Democratico [PD], sia per l’opposizione dell’Italia dei valori [IDV] alla sua sinistra, sia per la crescente disoccupazione e “cinesizzazione” dei ceti piccoli e medi. D’altra parte, lo spirito classista del governo Monti è ben visibile dai provvedimenti adottati e più ancora da quelli non adottati. Di seguito li riassumo brevemente:

-TASSE SULLA CASA E SUI REDDITI FISSI [Ex-ICI e MAGGIORE IRPEF]

-AUMENTO DELLA BENZINA

-RIDUZIONE DELLE PENSIONI [Soppressione dell’indicizzazione per quelle esistenti sopra i 1100 euro circa mensili e passaggio al metodo contributivo per quelle future]

-TASSA SUI CONTO-CORRENTI [Che inciderà soprattutto sui redditi del ceto medio]

-AUMENTO DEL TABACCO DA FIUTO[!!!]

-AUMENTO DELL'IVA SINO AL 23%

-NON PAGHERA’ L’ICI LA CHIESA E LE BANCHE PAGHERANNO IN MISURA RIDOTTA E SARANNO FAVORITE DALLA MAGGIORE CIRCOLAZIONE DI DENARO ELETTRONICO, CARTE DI CREDITO E ASSEGNI

-NON SARANNO TAGLIATI GLI STIPENDI DEI PARLAMENTARI E TUTTI I PRIVILEGI RESTERANNO, COMPRESA L’ASSISTENZA SANITARIA INTEGRALE [Dentista compreso] DEI PROPRI CONVIVENTI MORE UXORIO [Legge, sembra, voluta a suo tempo dall’on. Casini dell’U.D.C.]

-NON SARANNO LIBERALIZZATI GLI ORDINI PROFESSIONALI E NEPPURE TAXI E FARMACIE

-NON È PREVISTA L’INTRODUZIONE DEI CONTROLLI INCROCIATI DELLE FATTURE, LA SOLA MISURA EFFICACE CONTRO LA DIFFUSA EVASIONE FISCALE DI COLORO CHE NON HANNO LA TRATTENUTA DEL REDDITO ALLA FONTE

-NON SARA’ TOCCATO IL BILANCIO DELLO STATO PER TAGLIARE LE SPESE E GLI SPRECHI [Tra cui la somma di circa 30 miliardi all’anno che lo Stato versa a pioggia e senza verifiche alle IMPRESE, gli altrettanti 30 miliardi di spese all’anno per la politica e per le istituzioni ecc.]

-NON SARA’ POSTO UN TETTO SU STIPENDI PENSIONI E LIQUIDAZIONI DEI DIRIGENTI PUBBLICI E DI QUELLI DELLE AZIENDE A PARTECIPAZIONE STATALE.

-NON SARANNO MESSE ALL’ASTA LE FREQUENZE TELEVISIVE MA REGALATE AI SOLITI NOTI [RAI E MEDIASET]. ANCHE SE ALL'ULTIMO MOMENTO SEMBRA NASCERE UN RIPENSAMENTO

ECCO PIU’ O MENO LA MANOVRA “EQUA E PER NULLA RECESSIVA” DEL GOVERNO MONTI!

Resta un interrogativo. È l’Europa, anzi la Commissione Europea, che ha diretto la scure di Monti, uomo d’onore, sui redditi di sopravvivenza o di poco superiori degli italiani oppure, a cifre invariate, il presidente del consiglio avrebbe potuto liberamente volgerla sui redditi più alti, sugli evasori, sulle tante caste, tagliando contestualmente anche le spese e gli sprechi ingiustificati dello Stato? La risposta non è facile ma potrebbe essere inutile. Monti è stato portato a Palazzo Chigi dal vento neo-liberista che viene da lontano, che ispira l’Europa che conta e che ha introdotto – come un nuovo cavallo di Troia – l’euro in 17 paesi europei, facendone una moneta non sovrana e perciò destinata a scomparire, dopo aver fatto il “lavoro sporco”. Unitamente a Draghi, è uno dei pochi italiani che gode di grande fiducia da parte della Commissione Europea. Si può ipotizzare con qualche credibilità che le sue idee in materia di politica economica e di risanamento dei conti pubblici siano così diverse da quelle dei suoi sponsor? Intanto, nonostante la manovra “equa e saggia” appena approvata, la Borsa italiana chiude ancora in calo la settimana, mentre l’ormai celebre spread continua a salire. In queste condizioni, non è difficile prevedere a breve [magari subito dopo le sante feste] la seconda e non ultima puntata di questo drammatico sceneggiato in chiave neo-liberista.


sergio magaldi








martedì 13 dicembre 2011

ROMA-JUVENTUS: LA PARTITA DEGLI ERRORI



































ROMA - JUVENTUS






In quella che è ormai diventata una sfida classica del nostro campionato, gli errori sono iniziati ancor prima che le squadre scendessero in campo. Cominciava Conti, vecchia bandiera juventina e oggi ottimo allenatore dei bianconeri, ripetendo una scelta che non ha mai dato buoni frutti, quella del solo Matri in attacco. Dopo pochi minuti, era la volta del centrocampista Vidal a ciccare il rinvio di una innocua palla davanti ad uno stupito Buffon. Dov’erano i difensori? Tanto più che non si è trattato di un tiro improvviso ma di un calcio d’angolo, battuto magistralmente da Totti, con la palla finita sui piedi di un De Rossi lasciato completamente incustodito. Persino inutile aggiungere che il duplice errore ha portato i giallorossi in vantaggio.



La sagra degli errori è continuata per tutto il primo tempo, soprattutto da parte della Juve: Pepe, che ormai deve sentirsi un grande campione, giocava a tutto campo, tornante, centrocampista, centravanti, con tanta confusione e mai passando una palla a Matri, vero finalizzatore della squadra bianconera, al quale neppure dagli altri compagni è arrivato un passaggio degno di questo nome. Nel secondo tempo, persino il goal del pareggio juventino è nato da un errore di un Estigarribia, a volte pregevole ma talora imbarazzante [da Conte schierato titolare al posto di una punta che avrebbe messo Matri in condizione di giocare come sa fare], che “ciabattava” una palla per il colpo di testa vincente di Chiellini. Gli errori si susseguivano poi con i tanti passaggi sbagliati, dall’una e dall’altra parte, e raggiungevano l’apice con il rigore tirato dal capitano giallorosso tra le braccia di Buffon, un grande campione, ma certamente non avvezzo a parare i rigori, tant’è che l’ultima volta che aveva respinto un tiro dal dischetto risale al 2002.



La partita è stata interessante per non più di un quarto d’ora, proprio dopo il rigore sbagliato dalla Roma, quando le due squadre sul punteggio di parità sembravano a tutti i costi cercare la vittoria. E, per la verità, se c’era una squadra che ieri sera meritava la vittoria, questa era la Roma. Come sempre inconcludente in attacco, con un Borriello entrato negli ultimi cinque minuti e solo perché Bojan era squalificato, ma apparsa per la prima volta ben registrata in difesa, non si sa se per merito di un grande De Rossi, schierato nel ruolo inedito di centrale di difesa, o per la quasi inesistenza dell’attacco juventino, fattasi totale allorché Conte ha sostituito Matri con uno spento Quagliarella che, per ritrovare la forma, ha forse bisogno di giocare di più e che dunque va girato in prestito a Gennaio. Convincente la Roma anche nei contrasti di centrocampo, forse per la cattiva serata in cui sono incorsi Pirlo, talora stucchevole e lento, Vidal con la sua peggiore partita in maglia bianconera e persino Marchisio che, dopo i tanti goal e le eccellenti prestazioni, ieri sera è parso evanescente.



Quali conclusioni si possono trarre da questa classica del campionato italiano? Luis Enrique merita di continuare e la sfida della settimana prossima in casa del Napoli sarà un ottimo banco di prova per lui e per la squadra. Alla Juve va detto che, se davvero quest’anno vuol puntare allo scudetto, deve almeno acquistare al più presto, non tanto un centrale difensivo come si dice da più parti, quanto un terzino sinistro capace di difendere e di offendere, riportando Chiellini al suo ruolo naturale. Per la verità, questa Juve avrebbe bisogno anche di un grande attaccante, da affiancare a Matri [liberandosi delle tante punte che tiene inutilmente in tribuna] e forse di un centrocampista centrale in grado all’occorrenza di non far rimpiangere i tre titolari. A Conte, che ha già fatto molto con una squadra che per 8/11 è quella dello scorso anno, va detto soltanto di non intestardirsi su certe scelte: quella per esempio non del tutto comprensibile di “tagliare” un giocatore come Krasic, migliore in campo nello scorso campionato, benché Del Neri gli facesse fare il terzino, e quella di escludere sistematicamente un campione come Del Piero. L’impressione è che la Juve, nonostante la forza fisica mostrata anche ieri sera, stia lentamente esaurendo lucidità e fantasia, e quando questo accade [se ne avvertono i sintomi già da qualche partita] si rivede purtroppo la squadra sin troppo “operaia” degli ultimi campionati. Sarebbe un peccato, perché mai come quest’anno, per i meriti dei suoi dirigenti e soprattutto del suo nuovo allenatore, la Juve ha la possibilità di tornare tra le grandi del calcio europeo.



Sergio Magaldi

domenica 11 dicembre 2011

IL GOVERNO MONTI E LA CASTA DELLE CASTE



Il colubro, l'innocuo serpente del caduceo di Esculapio,

il suo occhio indaga e rivela le cose nascoste.


Dopo aver individuato l’estrema debolezza del recente decreto governativo “Salva Italia”, nella spirale recessiva che si scatenerà nel paese e nella rivolta sociale che probabilmente ne deriverà - una manovra che piace all’Europa che conta, meno ai mercati, che non gradiscono investire in titoli pubblici di paesi in recessione - occorre fare qualche ulteriore riflessione.

Il presidente Monti “ha preso” lì dove era facile prendere, senza soluzione di continuità rispetto ai governi che lo hanno preceduto, sia di centro-destra, sia di centro-sinistra. Perché? L’uomo non ha “fantasia”? Condivide la logica classista di coloro che lo hanno preceduto? Era nell’impossibilità di fare altro, prigioniero com’è della “grande coalizione”? La risposta è forse impossibile. E porsi simili interrogativi é addirittura inutile, dal momento che il governo Monti ha mantenuto saldamente la consueta tendenza di far pagare i poveri per salvare i ricchi, senza intervenire sull’aliquota Irpef dei redditi più alti per alleggerire quella dei redditi medio-bassi. Conti alla mano, facendo addirittura il contrario.

Sembra perfino anacronistico, in questo discorso, usare categorie ottocentesche, come “poveri” e “ricchi”. Ma tant’è, se è vero che nel nostro Paese il 10% della popolazione controlla oltre la metà della ricchezza nazionale e se quella che un tempo le tante “vestali” della sinistra già lamentavano come una “forbice salariale” sin troppo larga, negli ultimi anni si è andata ulteriormente allargando come in nessun altro paese d’Europa.

Un inciso: di recente è stato istruttivo “scoprire” cosa lo stato italiano, che spende oltre 30 miliardi di euro all’anno solo per la politica e centinaia di milioni per le liquidazioni dei propri “boiardi”, intenda per reddito medio-basso. A giudicare dalle accalorate dispute di oggi sulla indicizzazione delle pensioni, si può scommettere che un reddito basso è quello sotto i 936 euro al mese e uno medio quello sotto i 1400 [lordi!!!]. Sembra incredibile ma è così e persino partiti e sindacati legittimano queste cifre. In quale paese vivono le classi dirigenti? Non si sono accorti che gli italiani, soprattutto a reddito fisso, che sono la maggior parte, ricevono ancora le “vecchie lire”, ma sono costretti a pagare in euro?

Immaginiamo, tuttavia, per un attimo che il governo Monti avesse preso misure per ridistribuire il reddito, diminuendo l’aliquota Irpef per i redditi medio-bassi e alzandola per quelli più alti. Nessuno pretende che il presidente Monti abbia la vocazione di un Robin Hood, né gli si chiede di “rubare ai ricchi per dare ai poveri”, ma certo, mai come questa volta, c’era l’opportunità per inaugurare in Italia una politica di maggiore giustizia sociale. Quando i politici torneranno a gestire il potere in prima persona, niente sarà più possibile. Sento a questo punto levarsi la madre di tutte le obiezioni: la fascia dei redditi più alti, così incredibilmente ristretta in percentuale, non è in grado di assicurare, attraverso le tasse, un gettito per le casse dello stato, pari a quello fornito dalle fasce di reddito inferiore. Perfetto. A giudicare dal prelievo fiscale ciò è abbastanza vero. Come è vero che, stando ai redditi dichiarati, gli italiani siano un popolo di poveracci! Eppure, c’è chi a buon diritto, per essere il beneficiario di larghe fette di consumo, sostiene il contrario: “Gli italiani, nella media, sono benestanti e semmai è lo stato ad essere povero”. A parte il fatto che desta sorpresa che a fare tali dichiarazioni siano politici che hanno governato il Paese e che avrebbero dovuto avvertire l’esigenza di porre riparo alla contraddizione, resta da chiedersi come mai sia potuto accadere che lo stato sia sempre più povero e una parte dei cittadini sempre più ricca. Di sicuro, c’entrano gli sprechi, facilmente misurabili al confronto con gli altri paesi europei. E non solo, perché il ceto politico più illuminato scopre all’improvviso che il fenomeno dipende anche dall’evasione fiscale, solo nel Sud d’Italia condivisa dal 65% della popolazione [Dato ufficiale. Resta il mistero di come una volta accertata l’entità dell’evasione, non sia possibile combatterla efficacemente]. Eppure, ogni governo italiano ha sempre dichiarato il fermo proposito di combattere l’evasione, ma come osservava acutamente qualche giorno fa, in un talk-show, il sindaco di Verona, non viene adottata l’unica misura in grado di combatterla davvero, come per esempio negli Stati Uniti e in Germania: se ogni cittadino potesse dedurre la maggior parte delle spese, l’evasione parziale, più grave forse di quella totale, finirebbe con l’emergere, grazie ai facili “controlli incrociati”. Perché questo è un Paese dove l’evasione fiscale è capillare, un vero e proprio sport nazionale in cui si cimentano, in gran parte, i professionisti delle arti e dei mestieri e non solo.

Tutto ciò premesso, lo scenario di un Monti che alza le aliquote dei redditi più alti per diminuire quelle dei redditi più bassi e accompagna la misura con controlli realistici, e non con quelli cervellotici e scarsamente interessati che si appresterebbero a fare le banche, sarebbe oggettivamente possibile? Credo proprio di no e questo senza entrare nel merito delle inclinazioni e della volontà dell’uomo Monti, come dicevo prima. Proposte simili non avrebbero la fiducia di questo parlamento, formato in buona parte, oltre che da funzionari di partito e poco altro, dalla casta delle cosiddette libere professioni che mai accetterebbe di vedere controllate le proprie finanze, tant’è che per lo più, una volta eletti in parlamento, i suoi membri non chiudono gli “Studi”, ma vi lasciano fedeli sostituti che, per la nuova posizione assunta dal titolare temporaneamente assente, avranno il merito di moltiplicare le entrate.

Ne volete una prova? Nel decreto, il Presidente Monti aveva timidamente introdotto un comma che fissava al 31 Dicembre, dopo le opportune valutazioni, la data per adeguare la retribuzione dei parlamentari italiani a quello medio dei sei paesi europei con gli stipendi più alti per i cosiddetti rappresentanti del popolo. Di una riduzione, dunque si tratta, giacché attualmente l’Italia non è solo il paese europeo con il maggior numero di parlamentari, ma anche quello che li paga di più. Quale è stata la reazione della casta delle caste, quella sempre più ineffabile della politica, quando ha scoperto che nel decreto del governo Monti, sotto un piccolo comma si annidava l’occhio lungimirante della serpe? Tutti i parlamentari e i partiti di cui fanno parte, pare con l’eccezione dell’Italia dei valori [IDV], hanno gridato allo scandalo, ritenendo che ogni misura che riguardi i parlamentari, secondo una logica corporativa impossibile da sconfiggere nel nostro Paese, debba essere di competenza esclusiva del parlamento. Con ciò, il presidente Monti è avvertito di togliere al più presto la “serpe” dal decreto “Salva Italia”. Quasi mi verrebbe voglia di auspicare, nonostante la convinzione che si tratti di un provvedimento recessivo e poco equo, che Monti abbia il coraggio e l’autorevolezza di chiedere in parlamento la fiducia sul decreto così com’è.


sergio magaldi

mercoledì 7 dicembre 2011

DOPO LA STANGATA: RECESSIONE E...SECESSIONE?




LA MONETA UNICA E LE VECCHIE MONETE





Tutto è andato come avevo anticipato Domenica su questo blog [cfr. Aspettanto la stangata]. Anzi peggio. Nel decreto del governo Monti, già controfirmato dal Presidente della Repubblica, non c’è traccia del taglio dei costi della politica. Perché - si dice - questo dipende dalla Politica! [si badi bene: per antica consuetudine non per legge].

Non c’è la proposta di un serio accertamento per far pagare le tasse, non tanto a coloro che risultano sconosciuti al Fisco e che tali resteranno forse per sempre, ma agli appartenenti alle corporazioni che da sempre in Italia occultano almeno i 2/3 dei propri guadagni: professionisti ai quali spesso ci rivolgiamo e che ci lasciano scegliere se volere la fattura o farne a meno in cambio di qualche euro di sconto; negozianti e affini con i quali abbiamo a che fare ogni giorno, e quanti vengono talora in casa a riparare l’impianto idraulico, quello elettrico o la TV, a tinteggiare pareti o a costruire un armadio a muro: questi ultimi non ci chiedono neppure se la vogliamo la fattura, e se gliela domandiamo, quando avremo ancora bisogno di loro, state pur certi che non si faranno più vedere. E dire che l’on. Enrico Letta, autorevole esponente del Partito Democratico, nelle sue frequenti incursioni a “Porta a Porta” e non solo, aveva lasciato intendere che il governo Monti, nella sua sete di equità, avrebbe inaugurato la politica degli “incroci”, consentendo ai cittadini di dedurre dalle spese tutte le fatture o quasi tutte, così da far emergere i guadagni in nero della casta delle professioni e dei mestieri. L’on. Letta deve aver dimenticato di parlare con Monti, e forse col suo stesso partito, di quella che evidentemente era solo una sua, peraltro pregevole, idea.


Nel decreto “Salva Italia” non è previsto un tetto massimo per le pensioni e neppure per le liquidazioni in milioni di euro di tanti dirigenti. Non sono previste tassazioni sui patrimoni complessivi superiori al milione e mezzo o ai due milioni e, contrariamente a quello si mormorava, non c’è neppure l’aumento delle aliquote Irpef per i redditi superiori ai 75.000 Euro, misura che per quanto poco gradevole, avrebbe potuto consentire l’abbattimento di almeno un punto sull’aliquota dei redditi più bassi o quantomeno consentire l’indicizzazione delle pensioni almeno sino a 3000 Euro mensili [Di questi tempi, non certo pensioni d’oro, come persino Eugenio Scalfari ha osservato lo scorso Lunedì, intervenendo all’Infedele di Gad Lerner]. E di questo mancato intervento sull’Irpef il presidente Monti si è fatto un vanto ieri sera, nel salotto buono di Bruno Vespa, di fronte a milioni di telespettatori. Questa vicenda me ne ha ricordata una simile svoltasi la scorsa estate. Ricordate quando si parlava di aumentare le aliquote Irpef dei redditi sopra i 100.000 Euro? Poi con un ripensamento solo quelli dai 200.000 in su? Ricordate come poi non se ne facesse più niente? A distanza di pochi mesi si è verificata la stessa cosa: prima s’è parlato di aumenti per le aliquote dei redditi superiori ai 55.000 Euro l’anno, poi solo per quelli oltre i 75.000. Infine, tutto è rimasto come prima.


Dove, allora “SuperMario” [da non confondere con il calciatore Mario Balotelli] ha trovato i mezzi per “salvare” il “treno Italia dal sicuro deragliamento”, secondo le sue stesse parole? Naturalmente dalle pensioni, con la scure che si abbatte così pesantemente tanto da far piangere in diretta TV il nuovo ministro del Lavoro, la garbata e sinceramente commossa prof.ssa Elsa Fornero. Devo essere serio, la misura per quanto appaia impopolare e dettata da eccessivo rigore, ci può anche stare, con l’introduzione per tutti del metodo contributivo, lo slittamento delle pensioni di anzianità, l’età pensionabile delle donne protratta sin d’ora a 62 anni per raggiungere gradualmente, nel 2018, i 67 anni, come per gli uomini. Ci può stare dicevo, anche se è una misura dolorosa e all’apparenza iniqua, perché fa pagare a chi è già in procinto di lasciare il lavoro colpe non proprie. Serve tuttavia per allinearci agli altri paesi europei, ridurre la spesa degli enti previdenziali, riparare gli errori del passato. Ma la cosa che suscita scandalo e vergogna, tanto da provocare le lacrime del neoministro, è che è stata tolta l’indicizzazione delle pensioni dai 936 Euro mensili in su, con l’aggiunta che l’adeguamento parziale all’aumento del costo della vita per le pensioni sino a 935 Euro è reso possibile grazie al prelievo aggiuntivo di un punto e mezzo sui cosiddetti capitali scudati, quei capitali che erano stati fatti rientrare in Italia nell’anonimato e senza penale, versando il 5% del loro ammontare. Prelievo aggiuntivo che non sarà facile esigere, perché fioccheranno i ricorsi di chi si sente forte per aver già firmato un patto con lo stato. Sulla questione dell’indicizzazione e interrompendo il gelido e catastrofico monologo del presidente Monti, l’ineffabile Bruno Vespa ha intrattenuto le platee televisive, raccontando di un amico tedesco che gli ricordava come in Germania non fossero previsti adeguamenti automatici delle pensioni, ma solo un aumento direttamente proporzionale alla crescita del Paese. Benissimo, perché l’inossidabile partner di ogni governo italiano non ha ricordato che le pensioni minime in Germania sono almeno il doppio o il triplo di quelle italiane?


Dove, oltre alle pensioni dei poveri, s’è esercitata maggiormente la fantasia di SuperMario, per “salvare” l’Italia? Naturalmente sulla casa. Con tasse a raffica che sembrano quasi passare inosservate ai partiti, ai sindacati, ai tanti giornalisti che intervengono nei talk-show e di cui gli inermi telespettatori si accorgeranno solo in futuro. Viene introdotta di nuovo l’aliquota sulla prima casa, e questo lo si sapeva, ma questa d'ora in avanti inciderà sull’estimo catastale rivalutato, udite, udite, non già del 30%, come si pensava, bensì del doppio: il 60%. C'è solo da augurarsi che, per quanto riguarda l'Irpef, continui almeno la deducibiltà della rendita catastale sulla prima casa, altrimenti la nuova tassa andrebbe ad aggiungersi al reddito di lavoro, componendo un assai più oneroso imponibile sul quale calcolare l’Irpef. Non parliamo poi della seconda casa. L’aumento sale dello 07,60 ma i comuni possono aumentarla ancora di 3 punti. Vale la pena di aggiungere, anche perché non l'ha detto ancora nessuno, che in questo caso la misura [quasi il doppio dell’ICI che si pagava sino ad ora] graverà pesantemente anche sull'Irpef e, naturalmente, in misura doppia [anno in corso e anticipo del 95% per l’anno successivo]. Le aliquote ICI inoltre salgono ancora in misura progressiva per ogni ulteriore casa che si possieda e sempre incidendo sul calcolo dell'Irpef. Ecco la vera manovra! E come già dicevo Domenica scorsa, molti italiani saranno costretti a svendere le proprie case a chi può vantare ingenti profitti in nero o lauti stipendi a carico dello stato e/o delle sue molteplici e costosissime diramazioni [Aziende pubbliche e/o semi-pubbliche, RAI, ecc…]. Al danno forse irreparabile, il governo Monti aggiunge anche la beffa: la polvere gettata negli occhi dei cittadini, con quel ridicolo prelievo che non vale più di 400 milioni [a fronte dei 30 miliardi di Euro estorti ai poveri e alla piccola e media borghesia] sulle barche, le auto di grossa cilindrata, gli aerei [!] con cui finge di voler colpire i ricchi. E intanto già da domani, come primo regalo di Natale, il governo Monti aumenterà la benzina per tutti.


Chi, oltre allo stato, beneficerà di questa manovra lacrime e sangue [ma non per tutti!]? Di sicuro le banche [esonerate dagli aumenti dell’ICI e con i vantaggi che derivano dalla quasi soppressione del contante, dalla conseguente moltiplicazione delle carte di credito e dai risparmi ricavati dalla circolazione elettronica del denaro] e parzialmente le imprese, che dovrebbero essere incentivate a nuovi investimenti e nuove assunzioni: le cosiddette misure per la crescita. Ma ammesso, e assolutamente non concesso, che queste siano misure adeguate allo sviluppo, a che servirà crescere se diminuirà il numero dei consumatori con una recessione di proporzioni incalcolabili, anche per effetto di ulteriori due punti di aumento dell'IVA a metà del 2012, e quale effetto benefico potranno avere sull'occupazione tali manovre se l’aumento dell’età pensionabile “congelerà” tanti posti di lavoro?


Dicevo Domenica che l’unica equità che il governo Monti avrebbe adottato sarebbe stata quella di dare un colpo al cerchio e uno alla botte [PD e PDL] . Mi sbagliavo, perché il Partito Democratico esce con le ossa rotte dal decreto “salva Italia”. Encomiabile persino il comportamento del centro-sinistra se davvero con questo decreto si riuscisse a “salvare” l’Italia. Encomiabile davvero l’entusiasmo con cui i militanti del PD guardano il governo Monti, come si evince dai sondaggi che circolavano ieri, di gente che non ha ancora compreso l’entità della manovra che finirà per schiacciarli. O forse ha compreso, ma è disposta a sopportare tutto, paga di essere riuscita finalmente a scacciare l’odiato Berlusconi. Per uno strano paradosso, minore è l’entusiasmo del tradizionale elettorato di centro-destra per SuperMario, forse perché s’è già fatto un po’ di conti. Eppure il PDL esce bene, nel complesso, dalla manovra e si dice che otterrà ancora una volta [unitamente alla Rai] il regalo delle frequenze televisive per Mediaset, per un valore commerciale stimato in 16 miliardi, ciòè più del 50% del valore dell’intera manovra governativa. E inoltre i dirigenti del PDL già intravedono all’orizzonte l’ennesima sconfitta del Partito Democratico alle prossime elezioni politiche, magari alleandosi con l’UDC, e fidando nel malcontento che inevitabilmente si riverserà sul Partito Democratico quando gran parte del suo elettorato si accorgerà della vera portata di queste misure di “salvezza” approntate dal governo Monti.


Non per fare “catastrofismo”, ma ognuno vede che con queste manovre l’Italia non sarà “salvata” ma condotta alla più nera recessione e c’è persino da temere che la secessione minacciata dalla Lega Nord non sia più soltanto una trovata folcloristica e propagandistica. Eppure c’è già chi si consola, osservando come lo spread sui BPT decennali sia sceso ieri sino a 368 punti per merito delle misure adottate dal governo Monti. Non si è accorto che nelle stesse ore si sono ridotti gli spread di tutti gli altri paesi, quello della Spagna a 286 da oltre i 400 dei giorni scorsi, quello della Francia passato da 150 a 91. Si è trattato dunque di una particolare e fortuita congiuntura, tant’è che lo spread sui BPT biennali è cresciuto già ieri sino a 535 punti, che oggi l’indice di Borsa ha perso un punto e mezzo e che anche lo spread sui BPT decennali è tornato a salire. La verità è che il Mercato non si fida di tante tasse e dei pochi tagli apportati alla spesa corrente, sicuri indici di recessione e di possibilità di crescita del tutto inesistenti.


sergio magaldi































































FULVIO GIANNETTI, LETTERA PER UN AMICO CRISTIANO, Sovera Edizioni, Roma 2011









Con la prefazione di Deborah Fait, corrispondente da Israele, e l’introduzione di Salvatore Merra, esce questa Lettera per un amico cristiano di Fulvio Giannetti, nella quale l’autore si rivolge ad un ipotetico amico cristiano, immaginando che, a prescindere dalla propria fede, egli si riconosca, come ogni ebreo, cristiano, musulmano o di qualsiasi altra religione, nel comune valore delle “sette leggi universali”.

Nei sei precetti negativi [1. Non rubare. 2. Non uccidere. 3. Non commettere incesti né accoppiamenti bestiali. 4. Non smembrare un animale vivo. 5. Non commettere atti di idolatria. 6. Non bestemmiare] e nell’unico precetto positivo [7.Dovere di istituire tribunali di giustizia], di cui si compone il biblico patto noachide, si intravedono, infatti, i principi del moderno giusnaturalismo, fondamento del liberalismo e della democrazia. Se si prescinde dal loro riferimento mitopoietico e teologico, e si guarda unicamente alla sostanza, ci si accorge che i precetti noachidi, contenuti nel Talmud, sono innanzi tutto norme di diritto naturale condivisibili da tutte le fedi religiose semplicemente perché non hanno in se stesse nulla di religioso e persino quel riferirsi al divieto di bestemmia e di idolatria, lungi dal rappresentare una qualche forma di “costrizione” teologica esprimono piuttosto il principio della tolleranza religiosa e l’invito alla ragione umana di non abbassarsi ad adorare feticci.

Proprio come i principi del diritto naturale, i sette principi noachidi si caratterizzano, per così dire, per la loro elasticità e quindi per la loro capacità di evolversi e al tempo stesso restare immutabili, come già ricordava l’ebreo Benamozeg al cattolico e discepolo Pallière. Così, per esempio, dal divieto di uccidere discende il precetto positivo di salvare una, cento, mille vite, come fecero coloro che, a buon diritto, nel triste e funesto tempo dell’olocausto, furono detti giusti tra le nazioni.

L’intento della Lettera si può riassumere in tre motivazioni. Per un verso Fulvio Giannetti cerca di abbattere un pregiudizio che da oltre duemila anni si annida nelle coscienze dei cristiani: la convinzione che gli ebrei siano stati i principali, se non gli unici responsabili della passione e della morte di Gesù Cristo. Per altro verso egli cerca di dimostrare, in ciò confortato dalle vicende storiche che precedettero lo sterminio nazista, che fu proprio l’ingiustificata accusa di deicidio a provocare l’odio antisemita che nei secoli si diffuse nell’Europa cristiana e conobbe il suo apice con il massacro di sei milioni di ebrei. Infine, l’autore si dice convinto che proprio da quell’antico pregiudizio – più difficile da rompere di quanto non lo sia un atomo, secondo una citazione di Einstein – discenda l’attuale antisionismo con cui si cerca oggi di abbattere lo stato di Israele.

Quali argomenti utilizza Giannetti per dimostrare l’infondatezza dell’accusa di deicidio? Innanzi tutto -egli dice- la narrazione evangelica si dimostra lacunosa e si basa su testimonianze di seconda e terza mano. Ma, non voglio togliere al lettore il piacere di una “scoperta” che lo porterà, passo dopo passo, a comprendere le ragioni che condussero il crudele Ponzio Pilato e non il Sinedrio a commettere il delitto [Lui era ebreo, uno di noi! Osserva ripetutamente Giannetti] e i motivi per i quali si diffuse nelle nascenti comunità cristiane la leggenda dell’uccisione di Cristo da parte degli ebrei.

sergio magaldi


Fulvio Giannetti, Lettera per un amico cristiano, Sovera Edizioni, Roma 2011, Euro 7.50

I libro si può ordinare su http://www.ibs.it/ A Roma è possibile acquistarlo, tra l'altro, presso "la Feltrinelli" di Via Appia Nuova 167 o presso "la Feltrinelli" di Viale Libia 186.

martedì 6 dicembre 2011

MIDNIGHT IN PARIS, film di WOODY ALLEN, 2011

















MIDNIGHT IN PARIS, Woody Allen, 2011, 94 minuti





Woody Allen non si discute. I suoi film sono sempre piacevoli e quando hai trascorso un’ora e mezza in compagnia dei suoi personaggi [l’unità di misura temporale delle sue opere, tranne qualche rara eccezione, come Match Point che dura 124 minuti], vorresti continuare ad intrattenerti con loro. Tuttavia, dopo questo Midnight in Paris si ha sempre più l’impressione che il grande regista si muova più a suo agio nella Manhattan di sempre e più in generale nell’habitat anglo- americano di cui conosce pregi e difetti, piuttosto che nella complessa e articolata realtà del continente europeo di lingua e cultura latina. Non è un caso infatti che egli realizzi quattro film in Inghilterra, tra cui Match Point, il suo miglior film degli ultimi anni, mentre dedichi per così dire un’opera soltanto alla Spagna, con Vichy Cristina Barcellona [2008], una alla Francia con questo Midnight in Paris [2011], una all’Italia, in programmazione nel 2012.



Già il Woody Allen “spagnolo” dava l’impressione di voler mettere da parte se stesso, in parte rinunciando alle sue più recenti e intriganti incursioni sui temi del fato, dell’amore, della fortuna e del caso, e alle tante perle di saggezza disseminate nei dialoghi della sceneggiatura, per dare piuttosto spazio e voce agli stereotipi che un vasto pubblico è in grado di riconoscere immediatamente e di apprezzare, pagando volentieri il proprio tributo di denaro e di stima a un grande maestro del cinema. Cosa ci si aspetta di vedere della Spagna, nella coscienza collettiva? Il fascino del macho, la passione fatale che sa di amore e di sangue e poi, naturalmente, l’arte e la poesia. Ingredienti che da soli non fanno un film ma che, affidati alle mani e alle possibilità di un regista di fama planetaria, con attori che non potrebbero essere più bravi e adatti al ruolo che rappresentano, certamente ne determinano il successo.



Più o meno la stessa cosa accade con Midnight in Paris. Si comincia con alcuni minuti di reverente ossequio alla bellezza di Parigi: con “cartoline” di strade, piazze e monumenti della città che lo spettatore ha sempre il piacere di “rivedere”. Un dialogo improvviso ci sospinge nella trama [con uno stile che ricorda altri film di Allen]: una coppia di giovani americani arriva a Parigi insieme agli inquietanti e ultra-conservatori genitori di lei. I due sono in procinto di sposarsi e molto ricordano i fidanzati americani che si ritrovano a Barcellona. Lì, era lei a perdere la bussola, a lasciarsi andare per ascoltare il richiamo del desiderio e del cuore, mettendo temporaneamente da parte le regole dei “benpensanti”. Qui, accade esattamente il contrario. Gil [Owen Wilson] è uno sceneggiatore di successo di Hollywood che anela diventare un vero scrittore. Dove potrebbe se non a Parigi? Parla e si muove proprio come il giovane Woody Allen protagonista dei propri film. Bravura sia del regista che dell’attore? Inez [Rachel McAdams] è quella che oggi si direbbe una donna pratica e concreta: lo lascia fare ritenendo che il fidanzato sia in cerca solo di fugaci evasioni. E d’altronde, lei non disdegna le proprie: turismo erudito, divertimento a base di cene e festini convenzionali, un’avventura banale, tutto nello spirito di una giovane americana di buona famiglia in viaggio di piacere nella “capitale” del vecchio continente. Non cessa tuttavia di mostrare una certa insofferenza nei confronti del fidanzato, cui si concede raramente, e del quale non è in grado di comprendere né la natura romantica né il bisogno d’assoluto. Per strana e paradossale coincidenza [ma è davvero tale o non si tratta piuttosto di genialità del regista?] questa Rachel McAdams, nel fisico, nei movimenti e nello sguardo ricorda insieme, appena un po’ più superficiali, Cristina e Vichy, cioè Scarlet Johansson e Rebecca Hall, le protagoniste del film spagnolo.



Il sogno di Gil non è solo quello di diventare un grande scrittore. La trama del romanzo che sta portando a termine rivela la grande ammirazione che egli nutre per la Parigi degli anni Venti. Non poteva che essere così: è la realtà parigina che Woody Allen conosce meglio, quando una folla di intellettuali americani, con Ernest Hemingway, Scott e Zelda Fitzgerald e tanti altri, si stabilirono più o meno temporaneamente nella città francese, subito dopo la prima guerra mondiale, dandosi convegno insieme ad artisti europei, come Pablo Ricasso, nel salotto di Rue de Fleurus numero 27 di Gertrude Stein, un’altra famosa americana che si era trasferita a Parigi sin dal 1902. Ed è proprio in questo passato esaltante che Gil incontra l’amore, quello vero, non quello “finto”, sgarbato e insofferente che gli offre la fidanzata americana. La donna del sogno è Adriana [Marion Cotillard], già amante di Pablo Picasso e di Ernest Hemingway, sul cui volto “francese” si coglie tanta spiritualità [merito ancora una volta delle scelte del regista] ma che, proprio come Gil, coltiva una passione per il passato: la Parigi di fine Ottocento, quella della Belle époque, quando carrozze e cavalli si aggiravano per le strade e nei teatri si ballava al suono del French Cancan, un quadretto che gli internauti troveranno in un raro filmato che gira on line!



La reiterata nostalgia del passato consente di annunciare l’ovvia filosofia del film: “Che nessuno è felice dove si trova” [la battuta che lo scrittore Antoine de Saint Exupery fa dire ad uno dei suoi personaggi], ma che dobbiamo sforzarci di trovare la felicità lì dove siamo, e la “chiave” di questa ricerca è l’amore. Proprio come accadrà a Gil nel finale del film allorché incontra la giovanissima Gabrielle [Léa Seydoux] - un altro volto “francese” che nel fisico ricorda insieme sia Adriana che Inez - e sotto la pioggia s’incammina con lei mano nella mano lungo i ponti di Parigi, consapevole di una considerazione meno ovvia e cioè che “solo l’amore può far scordare la paura della morte”. Scena che più romantica non si può e che insieme a tutto il resto [compresa la presenza di Carla Bruni, moglie del presidente francese, nel ruolo di guida del museo] e alle note finali del Can-Can completano il “medaglione” con cui il famosissimo regista ebreo-americano ha inteso rendere omaggio a Parigi e alla Francia.



Gli stereotipi non mancano, come pure i luoghi comuni. Ma Woody Allen sa bene cosa il grosso pubblico - quello che decreta il successo economico di un film - vuole. In un linguaggio semplice, con ammiccamenti e satira sottile, con raffinatezza e genialità egli ci conduce per mano a vedere quello che vogliamo vedere perché lo conosciamo e non ci spaventa.


Sergio Magaldi