martedì 29 ottobre 2019

SALVINI O DELLA DEMONIZZAZIONE VINCENTE




 La Lega e i suoi alleati conquistano l’Umbria con oltre 20 punti percentuali in più rispetto alla coalizione PD-LEU-M5S. Il dato, dal punto di vista numerico, si spiega con il crollo dei pentastellati che dimezzano il già modesto risultato delle ultime elezioni europee nella regione (dal 14% a poco più del 7%). Sotto il profilo politico si spiega invece con diversi fattori [gli scandali recenti del PD umbro, il successo che la Lega aveva già riportato in diverse città della regione, l’ostilità di una parte dell’elettorato grillino all’alleanza con i Dem etc…], non ultimo quello della quotidiana demonizzazione di Matteo Salvini, che imperversa sui media ormai dalle elezioni politiche di marzo 2018 e che è diventato un vero e proprio spot elettorale in suo favore. Demonizzazione che si è venuta arricchendo di valutazioni ossessive e sarcastiche circa il comportamento ingenuo del capo della Lega che in un giorno di agosto – si è detto – sotto l’effetto di un mojito di troppo, ha tolto la fiducia al governo nazionale per poi pentirsi qualche giorno dopo e offrire la presidenza del Consiglio dei ministri a Di Maio.

Sulla sfiducia di Salvini al governo gialloverde ho già avuto modo in un precedente post (vedi, nel blog,  Matteo Salvini tra Lega e Lega Nord, cliccando sul titolo per leggere) di chiarire il mio punto di vista, aggiungo ora che quello che si è attribuito alla debolezza e al pentimento del leader leghista altro non era che l’estremo tentativo di convincere Di Maio a sottrarsi all’egemonia di Conte e a continuare con il programma riformista sancito in un contratto al momento di formare il governo.

Senonché, nell’illusione di riguadagnare il consenso perduto tra le politiche di marzo 2018 e le europee di maggio 2019 – la cui responsabilità è stata attribuita allo strapotere di Salvini e mai ad una riflessione sulla propria inconcludenza, di cui la vergogna di Roma è purtroppo l’emblema – il Movimento Cinquestelle è caduto nella trappola dell’altro Matteo (Renzi) e con la benedizione del suo capo storico e della cosiddetta sinistra del Movimento si è infilato giulivo in un governo di coalizione con il PD e LEU. Senza radici storiche, autodefinendosi né di destra né di sinistra, movimento di opinione che aveva sfondato nell’elettorato con la promessa di cambiare tutto, i pentastellati si sono di fatto rassegnati a fare la ruota di scorta del PD, cioè di una sinistra scialba e incolore che ha perso a sua volta e da tempo la propria ragion d’essere.

D’altra parte, l’ipotesi che il ritrovato centrodestra, passando di vittoria in vittoria nelle elezioni regionali, giunga infine ad impossessarsi democraticamente del governo nazionale non può non essere riguardato con qualche inquietudine. Dalle élite sarebbe infatti considerato un governo di estrema destra con tutte le prevedibili ritorsioni sul piano interno, europeo e internazionale. Ancorché la Lega storicamente non sia mai stato un partito di estrema destra. Prima di tutto perché la sua origine, che data ormai da quarant’anni, nasce prevalentemente da militanti e/o simpatizzanti del vecchio PC ed è solo al contatto con la Liga Veneta che si viene radicalizzando su posizioni secessionistiche e talora destrorze che tuttavia nulla hanno a che fare con l’estrema destra nostalgica, tant’è che Berlusconi farà alleanze separate: al nord con la Lega e al sud con il Movimento Sociale, per l’incompatibilità dichiarata tra i suoi alleati.  Poi perché, se è vero che la Lega di Bossi ha fatto parte dei governi Berlusconi, occorre ricordare che in più di una occasione è stata alleata della sinistra:

«Correva l’anno 1995. Dopo essersi alleata con Berlusconi ed un Fini appena “depurato” grazie all’acqua di Fiuggi (ma con la fiamma ancora nel logo ed i missini hardcore nel partito), la Lega mandò a casa il primo governo di destra della Seconda Repubblica. Tanto bastò a tutto l’allora campo progressista a considerala un referente affidabile ed a compiere forti aperture sul suo tema più gettonato: il federalismo. D’Alema si spinse oltre. Intervistato da Il Manifesto, il 30 novembre 1995 disse: «La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra».
La Lega, quindi, “costola della sinistra” e “partito operaio”.
Il Pds (che poi divenne Ds e quindi Pd) non fu l’unico a subire il fascino del “celodurismo” bossiano. Rifondazione Comunista non si fece troppi problemi ad individuare nel Carroccio un compagno di viaggio. A quel tempo dentro il Prc ci stavano tutti, ma proprio tutti: Bertinotti, Cossutta, Vendola, Diliberto, Ferrero, Grassi, Rizzo, Acerbo, Turigliatto e Ferrando.
E non si registrarono un grande dibattito ed aspre opposizioni quando si trattò di correre assieme alla Lega alle elezioni regionali ed amministrative. Tali alleanze “contro natura” si materializzarono in importanti regioni del Centro e del Sud. Nel Lazio, dove la Lega non aveva il potenziale elettorale odierno ed ottenne un misero 0,48% (Rifondazione conseguì il 9,22%), comunque determinante per far vincere il presidente indicato dal centrosinistra, Piero Badaloni. Pds, Prc e Lega corsero insieme perfino in Puglia, quella che sarebbe diventata la roccaforte di Nichi Vendola. Comunisti e leghisti diedero vita a delle giunte rossoverdi in diversi comuni del Nord, pure di una certa entità, anche negli anni successivi, quando il dialogo nazionale tra Bossi e la dirigenza del centrosinistra si interruppe» [Omar Minniti, https://www.lantidiplomatico.it/].

Il governo Cinquestelle-Lega aveva in programma diverse riforme e soprattutto nasceva da una giusta intuizione: rompere con le tradizionali e fallimentari politiche del centrodestra e del centrosinistra, bilanciando istanze tradizionali della sinistra (reddito di cittadinanza, salario minimo, lotta all’evasione fiscale, giustizia sociale) con quelle considerate auspicabili da un elettorato di centrodestra e non solo (riduzione delle tasse, quota 100, politiche per contenere l’immigrazione e per rilanciare gli investimenti produttivi). L’esito elettorale delle europee ha spaventato i Cinquestelle che si sono precipitati a fare marcia indietro, bloccando ogni iniziativa riformistica e costringendo la Lega di Salvini a trarne tutte le conseguenze. Con il risultato di spaccare il Paese in due:  da una parte una sinistra nominalistica e impotente formata di tante correnti (compresi i Cinquestelle), dall’altra un centrodestra condizionato fortemente dagli eredi del Movimento Sociale che diventerebbero l’ago della bilancia di un governo nazionale a conduzione leghista. Il governo gialloverde, se avesse continuato a funzionare dopo l’approvazione delle prime riforme, avrebbe impedito una polarizzazione che non porterà bene al Paese comunque vada a finire, sia che a prevalere sia il centrodestra, sia che l’armata Brancaleone delle cosiddette sinistre in un modo o nell’altro riesca a conservare il potere.


sergio magaldi

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