domenica 22 novembre 2009

PEDRO ALMODOVAR, GLI ABBRACCI SPEZZATI




  L’ultimo film di Pedro Almodóvar, Los abrazos rotos, Gli abbracci spezzati, ha il pregio di mettere in evidenza l’importanza del montaggio nella finzione cinematografica, tanto da rendere evidente come il successo o meno di un film dipenda dall’abilità con cui si ricompongono tra loro, in sintesi armonica, le scene girate. Non diversamente funziona la vita: Jean Paul Sartre diceva che è solo con la morte che l’esistenza si muta in destino, nel duplice senso che l’uomo è libero delle proprie scelte finché vive, ma che ogni storia personale si colora di senso solo a partire dalla scena finale, allorché il “nastro” dell’esistenza viene per così dire riavvolto all’indietro, ricostruendo la vita secondo i significati che un determinato artefice ha inteso assegnarle. Trattasi, naturalmente di artefice umano, perché “la trama” di un eventuale artefice divino non siamo in grado di cogliere.

 A ciegas, alla cieca, è stato montato il film che il regista Mateo Blanco, interpretato da Lluis Homar, ha girato grazie al denaro del ricco e vecchio Ernesto Martel (José Luis Gomez), improvvisatosi produttore per soddisfare il desiderio di recitare da parte di Lena, la sua giovane amante (una Penélope Cruz sempre brava e splendida, ma più cinica e fredda del solito, secondo quanto richiede il suo ruolo). E il film di Blanco viene montato “alla cieca”, ma col preciso intento di sabotarlo, da parte del produttore allorché egli scopre il tradimento dell’amante e la fuga di Lena e Mateo sulle spiagge di Lanzarote. Complice del sabotaggio è Judit, la donna con cui Blanco ha avuto una fugace avventura, che ha tuttavia lasciato tracce profonde nella vita di entrambi.

 Un tragico incidente cambia completamente le carte in tavola: divenuto cieco, Mateo Blanco che ormai si ritiene morto rispetto al passato, muta il suo nome in quello di Harry Caine e detta, in virtù del prestigio acquisito nella “precedente esistenza”, soggetti, romanzi e sceneggiature. Lo assistono in qualità di agente “tuttofare” Judit (una Blanca Portillo che conferma la notevole interpretazione di Augustina in Volver), e Diego (Tamar Novas), il figlio di lei. Entrambi assumono improvvisamente una funzione catartica, quanto annunciata, nella vita di Mateo Blanco alias Harry Caine. Judit ha conservato una copia delle scene del film girato da Mateo, sottraendola al materiale prima utilizzato per sabotare, poi distrutto dal fuoco. Diego, entrato in rapporto sempre più confidenziale con Mateo, scopre in un cassetto frammenti di foto strappate di Mateo con Lena. Così, il film potrà essere nuovamente montato e le fotografie della storia d’amore ricomposte, saldando l’esistenza di Mateo Blanco con quella di Harry Caine e dandole un senso che prima non aveva.

 Come in Volver (2006), dunque, famiglia e “fuoco purificatore” sembrano le uniche vie di salvezza, ma di Volver, il film non raggiunge il patos né l’abilità narrativa e stilistica e talora appare persino noioso. Resta la testimonianza della cifra artistica di Almodóvar, capace come sempre di “scherzare” col cinema e con la vita, al ritmo di una zambra andalusa: A ciegas, di Quintero, León e Quiroga del 1953, che alla fine del film riecheggia a lungo nel canto di Miguel Poveda:

 “Yo muchas noches sentía /Cercano ya el día /Tu pasos en la sala. /Gracias a Dios que has llegato/Que no te ha pasado/Ninguna cosa mala.
En tu manos un aroma/Que transminaba como el clavel,/Pero yo lo echaba a broma/Porque era esclava de tu querer./ « Que me he entretenido…/ Las cosas del juego » /Y yo te decía cerrando los ojos/Lo mismo que un ciego:
No tienes que darme cuentas/A ciegas yo te he creído, /Yo voy por el mundo a tientas/Desde que te he conocido. /Llevo una venda en los ojos/ Como pintan a la fe/ No hay dolor como esta gloria/De estar creyendo sin ver. /Mi corazón no me engaňa/Ya tu caritad se entrega/Duerme tranquillo sentraňa/Que te estoy quierendo a ciegas (…)


sergio magaldi

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