Perché scrivere una lettera ad Anna Frank?
C’è in questi racconti di Fulvio Giannetti il tentativo di saldare insieme memoria storica e ricordi personali, fatto e creazione, testimonianza e sogno, lavoro ingrato che si riparte tra metastoria e metaletteratura.
Non starò a verificare se l’operazione sia riuscita e magari sia nato un genere nuovo, diverso persino dal racconto o dal romanzo storico. Quel che mi preme sottolineare è che Giannetti, dalla materia trattata, consapevolmente o meno, trae quattro motivi di riflessione, quattro “ragioni” nuove e diverse di porsi di fronte alla Shoah e, più in generale, di fronte alla vita.
Perché scrivere una lettera ad Anna Frank? C’è forse nell’autore il desiderio di compiacere i lettori? O è magari perché Anna “simboleggia i sei milioni di morti della Shoah”? Così come Miep Gies nega che sia, per affermare invece che “la vita e la morte di Anna sono un destino individuale”, anche se “accaduto sei milioni di volte”. ( Nulla di tutto ciò. E allora? La realtà è che Fulvio scrive oggi le pagine di un diario che Anna scrisse allora, quando lui aveva una decina d’anni meno di lei, e non sapeva ancora né leggere né scrivere, e che il Fulvio che ricorda quelle pagine non scritte parla con la consapevolezza dell’uomo maturo, dell’uomo che può commuoversi della propria “infanzia violata”, perché è almeno in grado di ricordarla. Dall’incontro del bambino di allora con l’uomo di oggi nasce la lettera che ognuno potrebbe scrivere alla propria compagna di giochi, trovandosi a vivere la medesima esperienza. La guerra e soprattutto l’identità ebraica.
Un pretesto per raccontare di sé? In un certo senso lo è, perché il bambino Fulvio non sa nulla della Prinsengracht 263 di Amsterdam né dell’alloggio segreto, non conosce la segregazione totale protratta per oltre due anni e bruscamente interrotta un mattino dalla Gestapo, quasi alla vigilia della Liberazione, né fortunatamente conosce i treni dai vagoni piombati e i tedeschi che li scortavano, non la fame, la sete e la vergogna di Westerbork, di Auschwiz e di Bergen-Belsen – campo, quest’ultimo, di cui pure ha sentito parlare dallo zio sopravvissuto – e l’uomo Fulvio potrebbe parlarne ma sarebbe lavoro di biografo. Il bambino Fulvio conosce invece la grotta-rifugio nella valle dell’Iri, dove apprende la morte del padre, della segregazione non ha che fugace esperienza anche se subisce il trauma del “sepolto vivo” e della fame conosce abbastanza da ricordarla, nel suo diario della memoria, quasi come un’ossessione. Certo, i‘suoi’ tedeschi sono diversi, non meno “orrendi”, ( ma almeno egli li vede da spettatore. E se è vero che danno fuoco al volto di Anita che chiede pane, quando ha con loro un incontro “ravvicinato”, ne riceve in dono persino un’enorme fetta di torta!
Ecco allora il senso dello scrivere una lettera ad Anna Frank che ogni bambino ebreo e non ebreo – oggi adulto – potrebbe scrivere commisurando la propria infanzia violata a quella dell’infelice Anna. Tante virtuali candeline accese per illuminare le coscienze e aiutarle a riconoscere il demone della guerra, dell’intolleranza, della violenza e delle persecuzioni.
Perché, se è vero – come scrive Anna Frank – che in ogni uomo c’è un “pezzetto” di Dio, occorre fare in modo che quel pezzetto s’impadronisca del “resto” dell’uomo e lo trasformi, altrimenti nulla potrà davvero cambiare.
In La vita di Cady, uno dei racconti più riusciti di Anna Frank e che non fa parte del Diario, nel colloquio tra Cady e una donna inferma, vicina di letto nel sanatorio, si misurano due concezioni, entrambe presenti nell’anima di Anna, reclusa nell’alloggio segreto. Da una parte la speranza, dall’altra un pessimismo che trascende anche la sua personale sorte, di cui, pure, il suo inconscio pare avvertito quasi con rassegnazione. Cady confida a se stessa che Dio si manifesta nei suoi pensieri e nelle sue parole, giacché Egli “prima d’inviare gli uomini nel mondo dà a ciascuno di essi un pezzetto di sé. È questo pezzetto che produce nell’uomo la differenza tra bene e male e che fornisce una risposta alle sue domande. Quel pezzetto è altrettanto naturale quanto la crescita dei fiori e il canto degli uccelli”. ( Ma la donna che giace nel letto accanto al suo è oscuramente profetica: “Io non credo – ella dice – nulla delle voci che dicono che fra qualche mese tutto sarà finito. Una guerra dura sempre più di quel che credono gli uomini”. (Anzi, conclude la donna, e Anna fa parlare qui l’altra metà della sua anima, la guerra è la condizione stessa del genere umano: “Dopo ogni guerra gli uomini dicono: ‘Questo non accadrà mai più, è stato così terribile, bisogna evitare a qualsiasi prezzo che si ripeta’ e sempre di nuovo gli uomini devono combattere gli uni contro gli altri, questo non cambierà mai: finché sulla terra vi saranno degli uomini saranno sempre in lotta e quando ci sarà la pace cercheranno nuovi pretesti per scontrarsi”. (
L’impunità degli assassini
Il racconto dell’eccidio di Caiazzo è emblematico per ciò che riguarda la questione dell’impunità degli assassini. Il caso Emden sta lì a testimoniare l’indifferenza, l’ignavia, la vigliaccheria e soprattutto le complicità che impedirono, in questo come in migliaia di altri casi, che fosse resa giustizia. Come pure, testimonia più spesso l’ipocrisia e la retorica di certi riconoscimenti tardivi e di certe celebrazioni postume.
Io credo, tuttavia, che il problema non sia più, ormai a distanza da quegli avvenimenti, chiedersi perché tanti assassini siano rimasti impuniti, quanto piuttosto interrogarsi sul perché l’opinione pubblica ha sempre ricevuto così scarsa informazione sul fenomeno dell’impunità dei criminali nazisti. Non sarebbe venuto il momento di raccogliere in un volume unico, tradotto in tutte le lingue, a disposizione delle scuole, delle università e delle biblioteche pubbliche – libro bianco della memoria e della vergogna – i “curricula” dei criminali nazisti e dei loro giudici, catalogati magari in sequenza alfabetica? Non certo per spirito di vendetta, quei fatti essendo ormai al di fuori delle possibili “intercettazioni” della giustizia ordinaria o straordinaria, e neppure per alimentare in qualche esaltato un privato desiderio di giustizia sommaria nei confronti di vecchi inermi e prossimi ormai alla resa dei conti. Per bisogno di sapere, giacché la conoscenza fu sempre per l’uomo strumento di salvezza e non di perdizione. O si crede davvero che fu la pietà a mitigare l’animo dei giudici o magari l’insufficienza delle prove? E sebbene la pietà sia sentimento nobile e divino, talora incomprensibile ad una coscienza altra e diversa da quella che l’assume, resta nondimeno necessario il tentativo di darne spiegazione per evitare che ciascuno operi a modo suo e finisca quasi legittimamente per pensare che il Piazzale Loreto di Benito Mussolini e di Claretta Petacci sia un Tribunale d’alta giustizia invece che l’ultimo anello della barbarie. Ed è vero – come insegna purtroppo la storia italiana passata e recente – che gli atti della giustizia sommaria, praticata anch’essa talora in nome e per conto del popolo sovrano, nascondono spesso i disegni di chi teme che le oscure connivenze dei vinti siano portate alla luce.
Sorprende invece, almeno che non sia ascrivibile a suprema bontà o a tacita e impalpabile “riconoscenza”, l’atteggiamento tenuto da Otto Frank, padre di Anna, nel corso del processo contro Karl Joseph Silberbauer, il capo reparto delle SS che, quel mattino del 4 Agosto del ’44, fece irruzione nell’alloggio segreto, causando la deportazione degli otto ebrei clandestini, tra cui Anna. Tornato tranquillamente a Vienna, sua città natale, nell’aprile del ’45, e in forza alla polizia viennese, Silberbauer, fu successivamente trattenuto in carcere per quattordici mesi con l’accusa di maltrattamenti compiuti durante un interrogatorio. Rientrato in polizia nel 1954, Silberbauer restò indisturbato sino all’Ottobre del 1963, anche perché mai denunciato da Otto Frank che depistò sempre la possibilità di accertarne l’identità, parlando piuttosto di un tale Silberthaler quale protagonista dell’irruzione in Prinsengracht 263. Furono le ricerche di Simon Wiesenthal ( ad assicurare alla giustizia il poliziotto viennese. Sospeso dal servizio, Silberbauer tornò tranquillamente al suo posto due anni più tardi, soprattutto grazie alla testimonianza resa da Otto Frank che parlò di comportamento corretto durante l’arresto.
Melissa Muller, in una recente biografia di Anna Frank, ha così ricostruito il dialogo più importante che si svolse quel giorno tra Otto Frank e Silberbauer:
“Di chi è quella cassa?”, chiede Silberbauer.
“È mia”, risponde Otto, dicendo la verità. In lettere ben leggibili il coperchio con i rinforzi in ferro riporta la scritta: “Sottotenente della riserva Otto Frank”.
“Durante la prima guerra mondiale ero ufficiale”.
“Ma…”, Karl Silberbauer è visibilmente a disagio. Quella cassa non dovrebbe essere lì. Turba la sua routine. “Ma perché non si è presentato?” Secondo la gerarchia militare Otto Frank è un suo superiore. Frank, un ebreo.
“Sarebbe andato a Theresienstadt”, puntualizza, come se il lager di Theresienstadt fosse una casa di cura per convalescenti.
Inquieto, l’uomo delle SS si guarda intorno, evitando di incontrare lo sguardo di Otto Frank, che se ne sta lì tranquillo”. (
C’è forse un altro aspetto, in questa vicenda, che meglio chiarisce l’atteggiamento del padre di Anna Frank. Miep Gies è colei che di fatto gestisce e rende possibile il rifugio nell’alloggio segreto. Nel 1994 la Germania le conferisce la Croce federale al merito, lo Yad Vashem di Gerusalemme le consegna la “Medaglia d’onore dei giusti” e la regina Beatrice d’Olanda la nomina Cavaliere dell’ordine di Orange-Nassau. Viennese come Silberbauer, al momento dell’arresto dei clandestini, la donna si sente gridare in faccia dal suo connazionale: “Traditrice, non si vergogna ad aiutare questa gentaglia ebrea?” ( Ma poi l’ira del capo reparto delle SS si stempera, egli non l’arresta e, al momento di andarsene le consente addirittura di restare nell’edificio. Sarà il gesto che consentirà a Miep Gies di raccogliere e nascondere il Diario e gli altri scritti di Anna.
Gli interrogativi “metafisici” del combattente Lello
Nel corso della breve intervista che Lello Perugia, il “Cesare” di Primo Levi, concede a Fulvio Giannetti emergono tre interrogativi inquietanti, ai quali, umilmente, l’intervistato non pretende di dare risposta, parendo il suo intento più un invito alla riflessione che un accertamento della verità.
“Perché i nazisti volevano far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra?”
In risposta alla sua stessa domanda, Lello osserva che questa volontà fu davvero diabolica e che, forse, l’intera questione è di natura metafisica, ciò che nelle sue intenzioni equivale ad affermare l’impossibilità della risposta, anche se egli si limita a dire che si tratta di una domanda alla quale è difficile rispondere. E infatti, sull’argomento sono stati scritti trattati che hanno dato solo spiegazioni parziali. Né potrebbe essere diversamente, le ragioni ultime dimorando pur sempre nelle profondità dell’inconscio individuale e collettivo, difficilmente accessibili all’indagine umana. Certo, la volontà del genocidio non sembra prerogativa esclusiva dell’anima del nazista. Ma poi è certo che i nazisti avessero un’anima? O non è piuttosto l’anima, d’après James Hillman, un “da farsi”, una costruzione individuale che procede per tentativi, dubbi e tra mille difficoltà? Ad ogni buon conto, la volontà del genocidio è stata sempre presente nella storia e ha centrato talora l’obiettivo, laddove si è trattato di distruggere o asservire altri popoli, per sostituirsi ad essi nel governo di territori e quando questi popoli non seppero far valere – avrebbe detto Hegel – la necessità storica e culturale del loro stesso sussistere o, ciò che è lo stesso, quando non rientravano più nei piani della cosiddetta Ragione storica. Insomma, la storia ci mostra esempi molteplici di massacri e distruzioni di massa, ma neppure un caso assimilabile alla “soluzione finale” progettata dai nazisti contro gli ebrei, che sono popolo solo agli occhi di Dio, ma che, per tutto il resto, seppero e sanno perfettamente integrarsi con tutti gli altri cittadini nei paesi d’appartenenza. A meno che non si affermi che la moderna idea di genocidio consista proprio nella volontà di cancellare dalla storia i propri nemici finanziari, coloro che controllano e dirigono i grandi capitali. Ma anche in tal caso il progetto nazista avrebbe il crisma dell’originalità e dell’unicità. Solo che questa folle idea non ha trovato mai effettivo riscontro nella realtà, perché gli ebrei tedeschi ricchi non erano parte di un ipotetico Capitalismo Ebraico Internazionale, si sentivano bensì parte integrante del popolo tedesco e della finanza tedesca. E questo vale per gli ebrei ricchi di ogni altro paese. Che dire poi dello slogan tanto diffuso anche nell’Italia di quegli anni, e cioè che “gli ebrei sono capitalisti, ma sono anche comunisti”?
Ha ragione Lello. Possiamo continuare ad esaminare la questione all’infinito, ma è difficile rispondere esaurientemente e in modo conclusivo.
“Perché Kappler chiese alla comunità ebraica di Roma proprio cinquanta chili d’oro?”
Ecco un secondo interrogativo che Lello definisce metafisico. Lui che si è sempre considerato un laico, butta lì improvvisamente una questione che potrebbe essere affrontata solo in una prospettiva religiosa o magari nell’ambito della tradizione ebraico-cabbalistica. Egli non si sente in grado di dare una risposta, ma lascia intendere che dietro quel numero, cinquanta, può nascondersi un significato preciso e magari un mistero sui quali altri e non lui sono forse in grado indagare. Egli non sa molto di ghematrie, ma ha sentito parlare dei numeri della tradizione, sa che cinquanta sono le Porte dell’intelligenza (Binah, la terza sephirah dell’albero della vita) e che 50 è anche la cifra dell’intera manifestazione (Kol, tutto l k cioè: 20+30=50) (e di Adamah, la terra di Adamo ( h m d a 1+4+40+5= 50). Non sa o non dice che 50 è anche la cifra di Yam, mare ( J y 10+40), simbolo dei segreti dell’inconscio, e di Mi, chi? ( y m 40+10=50), la possibilità stessa di effettuare domande. Non dice o non sa che, al negativo, 50 è anche la cifra di Tame, impuro ( a m f 9+40+1=50 ) e di Gezabel ( l b z y a 1+10+7+2+30=50 ), la regina malvagia, adoratrice di Baal e della dea Asera, che sterminò i profeti di Dio, ma 100 di loro furono soccorsi e nascosti in due grotte, 50 e 50, e si salvarono (I Re, 18, 13). E Gezabel finì sbranata dai cani.
“Perché ci siamo lasciati massacrare senza combattere?”
Lello considera metafisico anche questo interrogativo. Solo perché ai suoi occhi appare inconcepibile essersi lasciati massacrare in sei milioni e senza neppure opporre resistenza. Lui che, prima di essere deportato ad Auschwitz, i tedeschi li ha davvero combattuti. Lui che sembra far proprie le parole di sua madre Emma, che volentieri avrebbe destinato i 50 chili d’oro, da consegnare a Kappler in cambio di una improbabile salvezza, all’acquisto di armi per combattere. E anche laddove la ribellione gli appare inutile o impossibile, per la condizione disumana alla quale i nazisti li hanno ridotti nei campi di sterminio, non trattiene un moto spontaneo dell’anima nell’attribuire alla rivolta di Auschwitz del 6 Ottobre del ’44 – che portò alla distruzione di uno dei forni crematori – il merito di aver rallentato le esecuzioni con il gas.
I giusti tra le nazioni
Dalla cronaca delle vicende di Giovanni Palatucci, Fulvio Giannetti trae spunto per invitarci ad una riflessione sul significato del Noachismo. Non tanto per esaltare il primato etico di una fede condivisibile da parte di tutte le religioni, o per discutere se si tratti di una fede soltanto rudimentale dettata da Noè all’epoca del diluvio universale o magari di una sorta di religione ebraica minore, dagli ebrei elargita generosamente a tutti i non ebrei.
Non di questo si tratta o non solo di questo. Nei sei precetti negativi (divieti di bestemmia e idolatria, divieti di natura sessuale, divieti di disporre della vita e della proprietà altrui, divieto di crudeltà nei confronti degli animali) e nell’unico precetto positivo (istituzione dei tribunali di giustizia), di cui si compone il biblico patto noachide, si intravedono, infatti, i principi del moderno giusnaturalismo, fondamento del liberalismo e della democrazia.
Dal De jure belli ac pacis di Grozio del 1625, al Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau del 1762, passando attraverso autori come Cartesio, Locke, Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Hume, tanto per citare i maggiori, nella cultura occidentale è tutto un fiorire di scritti che per la prima volta rompono col Diritto canonico, basato sull’identificazione della legge naturale con la legge divina, dalla quale discende che se Dio non c’è, non c’è neppure una natura umana creata su cui il diritto naturale si possa fondare. (11) È Grozio a rompere per primo l’incantesimo, il diritto naturale ha per lui ragion d’essere “anche se si ammettesse ciò che non si può ammettere senza delitto: che Dio non c’è o che non si cura degli affari umani”, come scrive nel Prologo (Prg.11) del De Jure.
Il diritto naturale ha il suo fondamento nella ragione e la ragione trova a sua volta giustificazione nell’ordine naturale del tutto, nella Legge cosmica che governa l’universo, secondo la concezione antica degli Stoici, ripresa dall’ebreo Spinoza:
“Ciascuno esiste per supremo diritto di natura, e quindi ciascuno per supremo diritto di natura fa ciò che segue dalla necessità della sua natura; e perciò per supremo diritto di natura ciascuno giudica quale cosa sia buona, quale cattiva, e provvede alla sua utilità a suo talento e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio. Or se gli uomini vivessero sotto la guida della ragione, ciascuno possederebbe questo suo diritto senz’alcun danno per gli altri.” (
E quando più tardi il diritto naturale finisce col perdere il carattere di razionalità geometrica e necessaria, resta nondimeno principio indiscutibile della convivenza umana, tecnica almeno ragionevole di coesistenza pacifica.
Se si prescinde dal loro fondamento mitopoietico e teologico, e si guarda unicamente alla loro sostanza, ci si accorge che i precetti noachidi, contenuti nel Talmud, sono innanzi tutto norme di diritto naturale condivisibili da tutte le fedi religiose semplicemente perché non hanno in se stesse nulla di religioso e persino quel riferirsi al divieto di bestemmia e di idolatria, lungi dal rappresentare una qualche forma di “costrizione” teologica esprime piuttosto il principio della tolleranza religiosa e l’invito alla ragione umana di non abbassarsi ad adorare feticci.
Proprio come i principi del diritto naturale, i sette principi noachidi si caratterizzano, per così dire, per la loro elasticità e quindi per la loro capacità di evolversi e al tempo stesso restare immutabili, come già ricordava l’ebreo Benamozeg al cattolico e discepolo Pallière.
Così, per esempio, dal divieto di uccidere discende il precetto positivo di salvare una, cento, mille vite, come fecero Palatucci e gli altri, a buon diritto chiamati giusti tra le nazioni.