Più
di dieci anni fa la questione del “non voto” o del “voto bianco” era stata
posta con ironia e sarcasmo dal grande scrittore portoghese José Saramago in Ensajo sobre a
lucidez [“Saggio sulla lucidità”] del 2004, ripubblicato dall’ “Universale Economica Feltrinelli” nel
2011.
Il
segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale
che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I
rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale
quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:
“Sarebbe stato preferibile
rinviare le elezioni” è l’osservazione del rappresentante del p.d.m.
[Partito di mezzo o di centro], mentre il rappresentante del p.d.d. [Partito di
destra] si limita ad annuire e quello del p.d.s. [Partito di sinistra], se non
fosse stato trattenuto dall’improvviso arrivo di un membro del
seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago – che non avrebbe
mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo storico, con una frase
come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono persone che non si
intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a casa per quattro
misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[pp.11-12]
La
pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai
seggi ma, al termine dello scrutinio il risultato è imbarazzante, con meno del
25% di voti validi. La ripetizione della tornata elettorale non ha miglior
esito, con la percentuale dei votanti che si ferma al 17%:
“Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era
estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i
fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”[p.39].
A
nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare
strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il
diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il
convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo
fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra
tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e
nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino
ad allora il ministro della difesa, di convincere “i
degenerati, i delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i
propri errori e implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una
nuova tornata elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in
massa a purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere
mai più”[p.57].
La questione posta da Saramago, per quanto
paradossale possa sembrare [sempre meno paradosso e sempre più realtà, se si
considerano le recenti elezioni siciliane con una percentuale di votanti del
46% o quelle di Ostia, X municipio di Roma, con il 36%] pone inquietanti
interrogativi sull’esercizio del potere in una democrazia rappresentativa. Un “partito
dell’astensione” del 70-80% forse non è ipotizzabile perché, se lo fosse,
significherebbe che la maggioranza dei cittadini ha preso coscienza che la
democrazia si è trasformata in partitocrazia, il regime democratico in una
dittatura oligarchica e tirannica, e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera
di una rivoluzione. La questione che interessa è però un’altra: in simili
circostanze qual è la risposta che uno stato democratico deve dare per evitare
che il partito delle schede bianche impedisca il retto funzionamento delle
istituzioni democratiche, gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta
non è certo quella che Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente
sarcasmo, anche se non è difficile immaginare che in una situazione concreta
sarebbe l’unica ad essere adottata nelle nostre democrazie occidentali, più
rispettose delle forme che della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il
contratto sociale”? Chi, lo spirito liberale che è alla base della rinuncia
alla sovranità individuale? L’unica risposta possibile di fronte ad una forma
così vasta di dissenso, è quella che il potere si faccia da parte per
riscrivere da capo le regole del patto tra i cittadini.
Il lancio di un’assemblea costituente per la nascita di
un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista – almeno a giudicare dalle intenzioni dei proponenti
– non si muove nell’ottica di aggiungere l’ennesimo raggruppamento alla fitta
schiera di partiti, partitini e movimenti che si apprestano a dividersi la
magra fetta elettorale alle prossime elezioni politiche. L’ambizione è diversa
anche se consapevolmente orientata per
una lunga prospettiva: rifondare la grammatica e la sintassi di un discorso
politico che si va inaridendo sempre più e che sembra ormai aver messo da parte
ogni argomento che ne giustifichi l’ascolto da parte dei cittadini. Come già annotavo
in precedenti post, di cui di seguito ripropongo la sintesi, l’offerta
politica del costituendo PDP si basa su una lettura semplice della realtà: le
forze piccole o grandi che si richiamano al centrosinistra e persino alla
sinistra denunciano sempre più, con il frazionismo che le caratterizza, la
sostanziale accettazione del modello di sviluppo proposto dall’egemonia del
capitale finanziario. Le forze che si richiamano al centrodestra si dividono
tra quanti ostentano vecchie e mai mantenute misure demagogiche per mascherare
la logica dello sviluppo selvaggio e quanti, animati di fervore popolare, vagheggiano
di ritagliarsi uno spazio regionale e/o nazionale, con politiche
neoprotezionistiche e prospettando l’uscita dall’euro o addirittura
dall’Europa. Infine, il Movimento Cinque Stelle – al quale occorre riconoscere
il merito di aver cercato di opporsi alla deriva del centrosinistra e del
centrodestra – denuncia sempre più la mancanza di una classe politica
all’altezza della situazione, l’isolamento e la vaghezza di un progetto
politico che si limita ad alcune rivendicazioni sociali, senza tuttavia
affrontare alla radice il problema del modello di sviluppo che intende
perseguire.
Secondo
il Partito Democratico Progressista, il rovesciamento dell’attuale prospettiva
politica, con la conseguente subordinazione dell’economia al modello di società
che si intende realizzare, diventa possibile attraverso una triplice sfida: 1)
l’introduzione di “politiche economiche di carattere fortemente espansivo”
ispirate dalla grande tradizione keynesiana, opportunamente modificata dalle
esigenze contemporanee, 2) la riappropriazione del “patto sociale” da parte dei
cittadini e la formazione di una classe politica incorruttibile, 3) la piena
occupazione, con la reale applicazione del 4° Principio Fondamentale della
Costituzione Italiana: La
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilita` e la propria scelta, una attivita` o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa`.
I
punti fondativi che saranno portati al dibattito dell’assemblea costituente sembrano coerenti con l’idea di democrazia e
di progresso che costituisce la divisa di questo costituendo nuovo soggetto
politico: dal ripristino del potere monetario dello Stato, alle misure concrete
per valorizzare, finalmente e dopo tante inutili chiacchiere dei partiti
tradizionali, “il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, non solo a
testimonianza della storia di un popolo antico e della sua inesauribile
creatività, ma anche al fine di realizzare – attraverso una moderna ed
efficiente gestione pubblica – la creazione di nuovi posti di lavoro”; ad una
politica che metta la Scuola, l’Università e la Ricerca “al centro degli
interessi strategici dello Stato”, con la rivalutazione sociale, professionale
ed economica del ricercatore e del docente di ogni ordine e grado; ad un
sistema sanitario nazionale finalmente efficiente; ad un credito che sappia
distinguere tra banche d’affari e banche per il sostegno delle famiglie e delle
imprese; al diritto al lavoro sancito dal 4° principio fondamentale della
Costituzione, all’effettiva applicazione del concetto di “sovranità popolare”, attraverso
l’introduzione di forme sostanziali di democrazia e così via.
Nonostante
una certa rigidità dei principi fondamentali di questo nuovo Manifesto
Politico, occorre riconoscere la liberalità con cui si guarda alla futura
Assemblea Costituente, dando mandato agli iscritti, individui e gruppi, di
elaborare lo statuto e un reale programma di governo. Si legge infatti al
termine dei 21 punti fondativi: “Iscriversi all’Assemblea Costituente del PDP
significa – per singoli cittadini delusi dall’inconsistenza dell’offerta
politica corrente, per gli aderenti a gruppi, movimenti e partiti politici che
si sentano alternativi agli ormai logori e insignificanti “centrodestra” e
“centrosinistra” tradizionali, per gli stessi militanti, attivisti, dirigenti e
rappresentanti istituzionali di quelle forze politiche che hanno deluso gli
interessi degli italiani dal 1992 in avanti – partecipare alla
costruzione di una nuova, inedita e solida Casa Comune. Tutti i costituenti,
individualmente o organizzati legittimamente in correnti (in quanto magari
aderenti in blocco come membri di associazioni, movimenti o partiti
pre-esistenti) avranno la stessa titolarità e sovranità nel discutere,
determinare la confezione e l’approvazione dello Statuto PDP e nell’elaborare
un preciso programma di governo per l’Italia e i suoi territori”.
La novità più grande tuttavia – che qualifica l’offerta per tutti i
cittadini e in particolare per quanti siano stanchi e annoiati dalla politica e
delusi dalla costatazione che ogni scelta dei politici di professione continui
a passare sopra le loro teste – è rappresentata dalla proposta contenuta nel
21° principio fondativo che il PDP intende sottoporre all’attenzione della
futura Assemblea Costituente. Non ancora resa esplicita in modo
conclusivo, per lasciarne la cura definitiva alla sovranità dell’Assemblea,
tale proposta – è detto - si richiama ad “alcune innovative integrazioni
costituzionali, nell’interesse del popolo sovrano e della sostanzialità dei processi
democratici e della divisione dei poteri”. Ci si riferisce in particolare a
forme semplificate di referendum abrogativo e propositivo e soprattutto
all’introduzione della democrazia stocastica che prevede il sorteggio qualificato per l’elezione dei
membri della Camera dei deputati.
La
necessaria difesa della Costituzione Repubblicana non va scambiata con
l’immobilismo, e la giusta rivendicazione della sua piena attuazione deve farci
consapevoli che, se in circa settanta anni di vita molti dei suoi principi non
hanno trovato concreta attuazione, ciò significa che erano forse suscettibili
di varia interpretazione, secondo uno spirito di parte e in base alla volontà
dei governi che nel tempo si sono succeduti. Al contrario, più di una modifica
in senso peggiorativo è stata introdotta sbrigativamente nel testo che i padri
costituenti ci hanno consegnato nel lontano 1948. In questa ottica,
nel Convegno del Movimento Roosevelt, tenutosi a Roma presso il Teatro
Anfitrione lo scorso 4 novembre, sono state individuate proposte di modifica e
di integrazione del dettato costituzionale che saranno portate all’attenzione
della futura Assemblea Costituente del PDP.
Occorre rammentare che alcuni articoli della
Costituzione sono da considerarsi immodificabili: l’art. 138 che sottopone le
procedure di riforma costituzionale ad una precisa e complessa normativa,
l’art.139 che istituisce la forma repubblicana, gli articoli 2, 13-26, 24
e 27, in quanto attengono al diritto di libertà e ai diritti
inviolabili dell’uomo, l’art. 5 che sancisce l’unità e l’indivisibilità della
Repubblica. Sarebbero inoltre immodificabili, secondo la giurisprudenza
costituzionale, ma non in base ad un preciso dettato, anche tutti i primi 12
articoli, perché ritenuti i Principi Fondamentali che«appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la
Costituzione italiana». Così, per esempio, l’art. 1 sarebbe intangibile in
quanto sancisce che tutto l’ordinamento dello Stato si basa sul principio della
sovranità popolare. Il che significa che una modifica dell’art. 1, che
declini in modo più ampio e significativo il concetto di tale sovranità, debba
ritenersi possibile.
E
in effetti la riforma dell’art. 1 della Costituzione, proprio in questo senso,
è contemplata nelle proposte presentate al Convegno del Teatro Anfitrione di
Roma, divenendo una sorta di “cervello” di tutto il restante corpo
costituzionale, con l’avvertenza che qualora la giurisprudenza, per motivi
politico-giuridici più che sostanziali, valutasse l’articolo immodificabile,
tutto il suo contenuto troverebbe comunque legittimamente posto in altri
articoli della carta costituzionale, opportunamente modificabili in base alle
procedure previste dall’art.138. Altre proposte di modifica riguardano, almeno
per il momento, gli articoli 49, 56, 67, 75 e 81, la cui formulazione è
di seguito riprodotta, utilizzando il neretto per ciò che viene mantenuto, il
blu per ciò che si intende cancellare e il rosso per ciò che si propone di
inserire. L’art.49 aggiunge un secondo e un terzo comma per meglio regolare la
vita interna dei partiti e garantirne un tasso più elevato di democrazia. Con
gli articoli 56 e 67 è introdotta l’innovazione di maggiore portata, al
fine di rendere sostanziale un concetto di democrazia sempre più formale e di
rendere il cittadino – richiesto periodicamente solo di un voto rituale che
sancisca le decisioni delle segreterie dei partiti e al quale egli finisce
sempre più per sottrarsi, apprezzandone l’inutilità – vero protagonista della
vita politica e delle scelte che lo riguardano nel quotidiano. Con l’art. 75 si
propone, per rendere meno aleatorio il concetto di sovranità popolare, una
normativa semplificata del referendum. Infine, con l’art.81 si
demanda allo Stato la tutela del benessere sociale dei cittadini e si cancella
la norma sul pareggio di bilancio, introdotta proditoriamente e di recente da
tutti i partiti politici, con la sola eccezione del Movimento Cinque Stelle, i
cui rappresentanti non erano ancora presenti in Parlamento.
Il nome di questo nuovo
soggetto politico: Partito Democratico Progressista [PDP] fa pensare quasi ad una rifondazione dell’esistente
Partito Democratico, alla reintegrazione di quanto di recente s’è venuto
formando dalla sua costola, richiamandosi a vaghe idee di progresso,
all’inclusione persino di tutte quelle articolazioni che da tempo si agitano e
si spezzettano all’infinito e senza alcun costrutto alla sua sinistra. Niente
di meno vero. La connotazione di “progressista”, checché ne pensi il senso
comune, non caratterizza necessariamente le formazioni della sinistra, tant’è
che vi si richiamano ancora oggi nel mondo, e indifferentemente, partiti e
movimenti politici liberali, di centro, di destra e di sinistra. Ciò premesso,
la qualifica di “progressista” che caratterizza questo costituendo soggetto
politico attiene ad un concetto di progresso ben determinato e specifico
su cui vale la pena di soffermarsi allo scopo di coglierne le differenze con
l’idea generica di progresso, presente tanto nel Manifesto dei
valori del Partito Democratico, al momento della sua fondazione
[2008], quanto negli attuali e sedicenti campi progressisti, come il
recentissimo Liberi e uguali che
unifica piccoli raggruppamenti della sinistra [MDP, Possibile e Sinistra
italiana] nel nome, ritenuto accattivante, del presidente del Senato, ma che ha
come unico programma la reintroduzione della tassa sulla casa di abitazione
degli italiani nonché dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, limitandosi una
concezione della politica che non si distingue da quella governativa per ciò
che riguarda il pareggio di bilancio e l’austerità.
Quali le ragioni del fallimento dei governi di
centrodestra e di centrosinistra che hanno governato l’Italia nell’ultimo
quarto di secolo, trascinandola sull’orlo dell’abisso, e che rendono
impensabile per i cittadini affidarsi nuovamente a loro? Un identico modo di
gestire il potere: clientelismo, corporativismo, spreco, incompetenza,
corruzione generalizzata e un’identica propensione, nonostante le tante
promesse elettorali, a non risolvere i problemi della gente,
limitandosi alla mala gestione dell’ordinario e alla cura individuale del
carrierismo politico. Ciò che ha reso impalpabile agli occhi di molti la
differenza tra destra, sinistra e centro che pure storicamente e idealmente
esiste e non può non esistere! Ma la notte della politica italiana, in cui
“tutte le vacche sono nere” e i partiti intercambiabili fra loro, ha radici
sociologiche ben precise, determinate dal reclutamento delle classi dirigenti
negli ultimi decenni, accomunate non solo e non tanto dalla stessa estrazione
sociale, quanto piuttosto da formazione politica inadeguata, scarsa onestà e
mancanza di immaginazione.
E
ancora: non è che destra e sinistra siano la stessa cosa, ma ciò che ha caratterizzato
centrodestra e centrosinistra nei governi degli ultimi decenni è stata, come
dicevo, l’identica sostanziale accettazione del modello di sviluppo
imposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le uniche differenze sono state
le misure effimere adottate per rendere tale modello più digeribile al proprio
elettorato di riferimento. Così è stato e così sarà per il futuro, se i
cittadini non prenderanno coscienza di essere i soli titolari della sovranità
che legittima lo stato democratico. Pur tra conclamati obiettivi diversi, le
coalizioni che hanno governato il Paese negli ultimi decenni, hanno finito per
adottare le stesse politiche e oggi le ripropongono anche per il futuro: il
centrodestra attraverso l’amalgama tra i sedicenti moderati e
i cosiddetti populisti e con l’unico scopo di mantenere i privilegi
dello status quo, il centrosinistra mediante un contenitore più
disinvolto che ha finito con alimentare il frazionismo, il velleitarismo e
l’impotenza. Quanto al Movimento Cinque Stelle, al netto delle considerazioni
di cui sopra, l’attenzione con cui i pentastellati hanno riguardato i
cittadini emarginati dalle scelte che li riguardano, creando nel Paese le
condizioni di un massiccio voto di opinione in loro favore, non deve essere
trascurata e induce a riconoscere – finalmente senza pregiudizi di bandiera –
la bontà di molte intuizioni alle quali purtroppo è mancata la concretezza
dell’azione politica. Il fenomeno fa anche riflettere sull’esistenza di uno
spazio che può essere colmato da un soggetto politico nuovo, capace non tanto
di cavalcare lo scontento, ma di preparare una classe dirigente che si dimostri
all’altezza di coniugare insieme la domanda di partecipazione dei cittadini
alla gestione della cosa pubblica con la progettazione di autentiche misure di
riscatto e di trasformazione sociale.
Al Partito Democratico va invece riconosciuto
di essere nato con ben altre aspirazioni, come si legge nella relazione con la
quale Piero Fassino aprì il processo costituente:
“Diamo vita al Partito Democratico non per un'esigenza dei DS o della
Margherita o di un ceto politico. No. Il Partito Democratico è una necessità
del Paese, serve all'Italia. Vogliamo dare vita ad un soggetto politico non
moderato o centrista, bensì progressista, riformista e riformatore. Un partito
che faccia incontrare i valori storici per cui la sinistra è nata e vive -
libertà, democrazia, giustizia, uguaglianza, solidarietà, lavoro - con
l'alfabeto del nuovo secolo: cittadinanza, diritti, laicità, innovazione,
integrazione, merito, multi-culturalità, pari opportunità, sicurezza,
sostenibilità, sopranazionalità. E per questo dovrà essere un partito del
lavoro, dello sviluppo sostenibile, della cittadinanza e dei diritti,
dell'innovazione e del merito, del sapere e della conoscenza, della persona e
della laicità, della democrazia e dell'autogoverno locale, dell'Europa e
dell'integrazione sopranazionale, della pace e della sicurezza”.
Belle parole, ma
destinate subito a restare sulla carta, perché già il Manifesto del PD,
approvato il 16 febbraio del 2008, rende evidente il carattere astratto e
velleitario di formulazioni generiche – fatte più per la coesistenza e il
compromesso tra ceppi antichi e diversi [che il Manifesto chiama “grandi
tradizioni”], in passato spesso ostili tra loro – che per essere effettivamente
realizzate. Il Manifesto si articola in sette punti:
“1. Le ragioni del Partito
Democratico”, individuate:
a) nella necessità di fare un “Italia nuova” ricollocandola “negli inediti
scenari aperti dalla globalizzazione del mondo”, b) nell’obiettivo di un
“profondo rinnovamento della società italiana” e nella “formazione di una nuova
classe dirigente”, c) nella volontà di “dare adeguate risposte ai grandi
problemi del presente e del futuro”.
“2. Un partito aperto nel
mondo globalizzato”, che dichiara solennemente: a)
di battersi per l’universalità del sapere, considerata come “un
grande progetto di democrazia della conoscenza“, b) di riconoscere “la
centralità e l’universalità dei diritti umani”.
“3. Nel solco della Costituzione:
etica pubblica e laicità”, dove si ribadisce il valore della Costituzione
repubblicana, nata dalla Resistenza antifascista, e la necessità di realizzarne
la piena attuazione e l’aggiornamento “nel solco dell’esperienza delle grandi
democrazie europee, con riforme condivise”.
“4. Un’Italia più libera, più
giusta e più prospera”, con il quale si annuncia tra l’altro di volere “un’Italia
più libera, più giusta e più prospera […] una società aperta che consideri le
persone in base alle loro qualità, rimuovendo gli ostacoli economici e sociali,
e premiando il merito e non i privilegi. Vogliamo che a ciascuno sia garantita
la libertà di realizzarsi secondo i suoi talenti e le sue inclinazioni”.
“5. Il pluralismo
sociale, per una comunità forte e solidale”, dove,
a tutela della famiglia, si annuncia il “bonus bebè”, si considera
l’accoglienza dei migranti più un’opportunità che un problema e si proclama la
valorizzazione e la promozione delle autonomie locali, “la cultura della
sicurezza e della legalità”, la lotta contro “il degrado urbano e sociale […],
la corruzione e la criminalità organizzata”.
“6. L’educazione, la formazione, la
ricerca scientifica”, con la
proclamata centralità della scuola dove – è detto – “si
pongono le premesse della cultura democratica indispensabile alla convivenza in
una società sempre più plurale e multiculturale”, con “un sistema scolastico
pubblico, imperniato sulla valorizzazione del ruolo educativo degli insegnanti”
e il pieno sostegno “della libertà della ricerca scientifica”.
“7. La speranza della pace: la storia non è
finita”, dove si enfatizza l’aver tratteggiato “il profilo
di un partito nuovo” e si prospetta l’elaborazione di “una nuova idea di
progresso”.
Come si vede, il Manifesto dei valori del
Partito Democratico contiene già in nuce i segni della
retorica, del velleitarismo e dell’ impotenza. Se si eccettua il riferimento al
noto “bonus bebè”, una sorta di mancia elettorale che non ha certo risolto i
problemi delle famiglie italiane, tutti i solenni propositi contenuti
nei sette punti in cui il Manifesto si articola non sono sostenuti
dall’indicazione, non dico di misure, ma almeno di proposte per la loro
effettiva sostenibilità e realizzazione. A guardar bene, anzi, si
direbbe che la società vagheggiata astrattamente dai fondatori del Partito
Democratico, sia venuta evolvendosi proprio in senso contrario alle grandi
affermazioni di principio contenute nel citato Manifesto. E l’astrattezza dei
valori non è soltanto imputabile all’opportunismo politico che determinò la
nascita di questo partito, ma al fatto che il Partito Democratico fu
soprattutto un’unione di vecchie sigle e vecchie nomenklature, poco di
cittadini intenzionati a dar vita ad una nuova e diversa formazione politica e
animati dal desiderio di cambiare davvero le cattive abitudini di cui la classe
dirigente, già nel passato, aveva fornito prove eloquenti.
Alla generica idea di progresso presente nel Manifesto
dei valori del Partito Democratico, alla sua corruzione e
inconcludenza nell’azione politica, al velleitarismo dei cosiddetti movimenti e
campi che rivendicano la patente di progressisti, unicamente perché si
collocano alla sinistra del PD, dopo averne sempre condiviso le peggiori scelte
politiche ed economiche, all’Europa dell’austerità e dei summit franco-tedeschi,
alle promesse di risanamento sociale e nazionale, mai mantenute, dei sedicenti
moderati del centrodestra, alle lusinghe antieuropeistiche dei loro alleati,
destinate ad emarginare il Paese dal processo produttivo mondiale e a far
girare al contrario la ruota della Storia, ai pronunciamenti rivoluzionari del
Movimento Cinque Stelle, non suffragati nella realtà dal governo di alcune
città metropolitane, allo splendido isolamento che ne rappresenta insieme il
punto di forza e il limite, alla vaghezza di una proposta politica, ad una
classe dirigente impreparata a gestire l’ampio consenso ricevuto da milioni di
cittadini, il costituendo Partito Democratico Progressista oppone un progetto
di un’autentica trasformazione sociale, basato su un’idea di progresso, né
generico né velleitario, ma orientato su alcuni temi specifici che si
riferiscono:
1) Al
concetto di democrazia: l’istituto della democrazia rappresentativa e quello
della democrazia diretta, limitati alla delega, al referendum abrogativo
e alle leggi di iniziativa popolare con procedure complesse e farraginose che
ne scoraggiano l’utilizzo e che per di più non sono ammesse per alcune materie
fondamentali, va rivisto nella direzione di un progressivo allargamento
che contempli: a)forme più snelle di partecipazione diretta alla gestione della
cosa pubblica da parte dei cittadini, b)l’introduzione della democrazia
stocastica [sorteggio qualificato per l’elezione dei deputati], c)le primarie,
sancite per legge e limitate agli iscritti, per scegliere le cariche interne
dei partiti e i relativi candidati per ogni tipo di elezione, dove sia in gioco
la rappresentanza politica dei cittadini.
2) Alla
manifestazione della sovranità popolare che progressivamente abbandoni
ogni riferimento astratto, e si concretizzi in forme sempre più reali ed
efficaci.
3) Alla
pratica della delega in bianco, quale si manifesta attualmente per ogni tipo di
elezione, e che una visione progressista non può che
rimuovere, perché fa dei membri del Parlamento i rappresentanti della nazione e
non dei cittadini, praticamente inamovibili – se non per reati comuni e
attraverso complesse procedure – e che dunque rende gli eletti disponibili per
ogni genere di trasformismo.
4) Alla
piena, progressiva attuazione dei diritti civili, politici
e sociali contenuti nella Costituzione Italiana e nella
Dichiarazione universale dei diritti umani.
5) Alla
riaffermazione della sovranità monetaria dello Stato per rendere progressivamente ed
effettivamente possibile l’attuazione del 2° comma del 3° articolo
della Costituzione: “E` compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
6) Al progressivo raggiungimento
della piena occupazione, sancito ma sempre disatteso dalle attuali politiche,
volte a perseguire l’austerità e il pareggio di bilancio e non già il dettato
del 4° principio fondamentale della Costituzione italiana, il quale
recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”.
7) Ad un
benessere sociale, non più pensato come esclusivo appannaggio di determinate
classi, ma destinato progressivamente ad includere il maggior
numero possibile di cittadini.
8) Ad
una progressiva liberazione dell’Europa,
non più schiava delle oligarchie finanziarie e dell’egemonia tedesca con i suoi
lacchè francesi.
In conclusione, mi
sembra di poter dire che gli obiettivi del PDP siano concreti, perché indicano
già dei percorsi effettivi per la loro realizzazione. Ciò non significa che il
cammino sia semplice e occorrerà anche sciogliere alcuni nodi contenuti nei
principi fondativi da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente. Bisognerà poi risvegliare molte coscienze addormentate o ancora assopite
e preparare una nuova classe dirigente. In questa prospettiva il Movimento
Roosevelt - che resta una realtà politica ma non partitica – è chiamata a
svolgere una funzione determinante in fatto di informazione, cultura e
pedagogia. Perché è abbastanza evidente che nulla potrà mai cambiare veramente
se i tanti delusi dal linguaggio e dall’agire della politica non coglieranno
l’opportunità di una rivoluzione copernicana che rovesci il tradizionale
rapporto stato-cittadini: lo stato non più concepito come un’entità astratta
che impone i propri comandamenti, attraverso inamovibili oligarchie, ma
finalmente inteso come il risultato di un patto sociale nel quale i cittadini
si possano riconoscere.
sergio magaldi
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