domenica 10 dicembre 2017

IL COME E IL PERCHE’ DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO






 L’esigenza di lanciare un nuovo soggetto politico, a pochi mesi di distanza dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento nazionale, può apparire come una delle tante operazioni che in questi giorni si susseguono – a destra come a sinistra – per approfittare di una legge elettorale che testimonia dell’impotenza di un’intera classe politica e che sembra fatta apposta per favorire la frammentazione, impedire il primato di una solo partito, formare una maggioranza – se mai sarà possibile realizzarla – attraverso le coalizioni dei soliti noti che renderanno ancora più debole, di quanto non sia già oggi, il governo del Paese. E il bello [o il drammatico, secondo i punti di vista] è che gli addetti ai lavori della politica, pur essendo consapevoli di tutto ciò, corrono incontro alla ingovernabilità, lieti di avere finalmente qualcosa da fare per il presente e per il futuro, che non sia risolvere i problemi dei cittadini. Tutto ciò non impedirà ai “signori della politica” di lamentarsi del crescente astensionismo dal voto, forse ormai l’unica arma rimasta in mano agli elettori, consapevoli al tempo stesso: a) di non contare nulla, b) di non poter cambiare nulla.

 Più di dieci anni fa la questione del “non voto” o del “voto bianco” era stata posta con ironia e sarcasmo dal grande scrittore portoghese José  Saramago in Ensajo sobre a lucidez [“Saggio sulla lucidità”] del 2004, ripubblicato dall’ “Universale Economica Feltrinelli” nel 2011.

 Il segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:

 Sarebbe stato preferibile rinviare le elezioni” è l’osservazione del rappresentante del p.d.m. [Partito di mezzo o di centro], mentre il rappresentante del p.d.d. [Partito di destra] si limita ad annuire e quello del p.d.s. [Partito di sinistra], se non fosse stato trattenuto dall’improvviso arrivo di un membro del seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago – che non avrebbe mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo storico, con una frase come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono persone che non si intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a casa per quattro misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[pp.11-12]

 La pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai seggi ma, al termine dello scrutinio il risultato è imbarazzante, con meno del 25% di voti validi. La ripetizione della tornata elettorale non ha miglior esito, con la percentuale dei votanti che si ferma al 17%:

Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”[p.39].

 A nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino ad allora il ministro della difesa, di convincere “i degenerati, i delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i propri errori e implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una nuova tornata elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in massa a purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere mai più”[p.57].

 La questione posta da Saramago, per quanto paradossale possa sembrare [sempre meno paradosso e sempre più realtà, se si considerano le recenti elezioni siciliane con una percentuale di votanti del 46% o quelle di Ostia, X municipio di Roma, con il 36%] pone inquietanti interrogativi sull’esercizio del potere in una democrazia rappresentativa. Un “partito dell’astensione” del 70-80% forse non è ipotizzabile perché, se lo fosse, significherebbe che la maggioranza dei cittadini ha preso coscienza che la democrazia si è trasformata in partitocrazia, il regime democratico in una dittatura oligarchica e tirannica, e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera di una rivoluzione. La questione che interessa è però un’altra: in simili circostanze qual è la risposta che uno stato democratico deve dare per evitare che il partito delle schede bianche impedisca il retto funzionamento delle istituzioni democratiche, gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta non è certo quella che Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente sarcasmo, anche se non è difficile immaginare che in una situazione concreta sarebbe l’unica ad essere adottata nelle nostre democrazie occidentali, più rispettose delle forme che della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il contratto sociale”? Chi, lo spirito liberale che è alla base della rinuncia alla sovranità individuale? L’unica risposta possibile di fronte ad una forma così vasta di dissenso, è quella che il potere si faccia da parte per riscrivere da capo le regole del patto tra i cittadini. 

 Il lancio di un’assemblea costituente per la nascita di un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista – almeno a giudicare dalle intenzioni dei proponenti – non si muove nell’ottica di aggiungere l’ennesimo raggruppamento alla fitta schiera di partiti, partitini e movimenti che si apprestano a dividersi la magra fetta elettorale alle prossime elezioni politiche. L’ambizione è diversa anche se consapevolmente orientata per una lunga prospettiva: rifondare la grammatica e la sintassi di un discorso politico che si va inaridendo sempre più e che sembra ormai aver messo da parte ogni argomento che ne giustifichi l’ascolto da parte dei cittadini. Come già annotavo in precedenti post, di cui di seguito ripropongo la sintesi, l’offerta politica del costituendo PDP si basa su una lettura semplice della realtà: le forze piccole o grandi che si richiamano al centrosinistra e persino alla sinistra denunciano sempre più, con il frazionismo che le caratterizza, la sostanziale accettazione del modello di sviluppo proposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le forze che si richiamano al centrodestra si dividono tra quanti ostentano vecchie e mai mantenute misure demagogiche per mascherare la logica dello sviluppo selvaggio e quanti, animati di fervore popolare, vagheggiano di ritagliarsi uno spazio regionale e/o nazionale, con politiche neoprotezionistiche e prospettando l’uscita dall’euro o addirittura dall’Europa. Infine, il Movimento Cinque Stelle – al quale occorre riconoscere il merito di aver cercato di opporsi alla deriva del centrosinistra e del centrodestra – denuncia sempre più la mancanza di una classe politica all’altezza della situazione, l’isolamento e la vaghezza di un progetto politico che si limita ad alcune rivendicazioni sociali, senza tuttavia affrontare alla radice il problema del modello di sviluppo che intende perseguire.

 Secondo il Partito Democratico Progressista, il rovesciamento dell’attuale prospettiva politica, con la conseguente subordinazione dell’economia al modello di società che si intende realizzare, diventa possibile attraverso una triplice sfida: 1) l’introduzione di “politiche economiche di carattere fortemente espansivo” ispirate dalla grande tradizione keynesiana, opportunamente modificata dalle esigenze contemporanee, 2) la riappropriazione del “patto sociale” da parte dei cittadini e la formazione di una classe politica incorruttibile, 3) la piena occupazione, con la reale applicazione del 4° Principio Fondamentale della Costituzione Italiana: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilita` e la propria scelta, una attivita` o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa`.

  I punti fondativi che saranno portati al dibattito dell’assemblea costituente sembrano coerenti con l’idea di democrazia e di progresso che costituisce la divisa di questo costituendo nuovo soggetto politico: dal ripristino del potere monetario dello Stato, alle misure concrete per valorizzare, finalmente e dopo tante inutili chiacchiere dei partiti tradizionali, “il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, non solo a testimonianza della storia di un popolo antico e della sua inesauribile creatività, ma anche al fine di realizzare – attraverso una moderna ed efficiente gestione pubblica – la creazione di nuovi posti di lavoro”; ad una politica che metta la Scuola, l’Università e la Ricerca “al centro degli interessi strategici dello Stato”, con la rivalutazione sociale, professionale ed economica del ricercatore e del docente di ogni ordine e grado; ad un sistema sanitario nazionale finalmente efficiente; ad un credito che sappia distinguere tra banche d’affari e banche per il sostegno delle famiglie e delle imprese; al diritto al lavoro sancito dal 4° principio fondamentale della Costituzione, all’effettiva applicazione del concetto di “sovranità popolare”, attraverso l’introduzione di forme sostanziali di democrazia e così via.

 Nonostante una certa rigidità dei principi fondamentali di questo nuovo Manifesto Politico, occorre riconoscere la liberalità con cui si guarda alla futura Assemblea Costituente, dando mandato agli iscritti, individui e gruppi, di elaborare lo statuto e un reale programma di governo. Si legge infatti al termine dei 21 punti fondativi: “Iscriversi all’Assemblea Costituente del PDP significa – per singoli cittadini delusi dall’inconsistenza dell’offerta politica corrente, per gli aderenti a gruppi, movimenti e partiti politici che si sentano alternativi agli ormai logori e insignificanti “centrodestra” e “centrosinistra” tradizionali, per gli stessi militanti, attivisti, dirigenti e rappresentanti istituzionali di quelle forze politiche che hanno deluso gli interessi degli italiani dal 1992 in avanti – partecipare alla costruzione di una nuova, inedita e solida Casa Comune. Tutti i costituenti, individualmente o organizzati legittimamente in correnti (in quanto magari aderenti in blocco come membri di associazioni, movimenti o partiti pre-esistenti) avranno la stessa titolarità e sovranità nel discutere, determinare la confezione e l’approvazione dello Statuto PDP e nell’elaborare un preciso programma di governo per l’Italia e i suoi territori”.

 La novità più grande tuttavia – che qualifica l’offerta per tutti i cittadini e in particolare per quanti siano stanchi e annoiati dalla politica e delusi dalla costatazione che ogni scelta dei politici di professione continui a passare sopra le loro teste – è rappresentata dalla proposta contenuta nel 21° principio fondativo che il PDP intende sottoporre all’attenzione della futura Assemblea Costituente. Non ancora resa esplicita in modo conclusivo, per lasciarne la cura definitiva alla sovranità dell’Assemblea, tale proposta – è detto - si richiama ad “alcune innovative integrazioni costituzionali, nell’interesse del popolo sovrano e della sostanzialità dei processi democratici e della divisione dei poteri”. Ci si riferisce in particolare a forme semplificate di referendum abrogativo e propositivo e soprattutto all’introduzione della democrazia stocastica che prevede il sorteggio qualificato per l’elezione dei membri della Camera dei deputati.

 La necessaria difesa della Costituzione Repubblicana non va scambiata con l’immobilismo, e la giusta rivendicazione della sua piena attuazione deve farci consapevoli che, se in circa settanta anni di vita molti dei suoi principi non hanno trovato concreta attuazione, ciò significa che erano forse suscettibili di varia interpretazione, secondo uno spirito di parte e in base alla volontà dei governi che nel tempo si sono succeduti. Al contrario, più di una modifica in senso peggiorativo è stata introdotta sbrigativamente nel testo che i padri costituenti ci hanno consegnato nel lontano 1948. In questa ottica, nel Convegno del Movimento Roosevelt, tenutosi a Roma presso il Teatro Anfitrione lo scorso 4 novembre, sono state individuate proposte di modifica e di integrazione del dettato costituzionale che saranno portate all’attenzione della futura Assemblea Costituente del PDP.

 Occorre rammentare che alcuni articoli della Costituzione sono da considerarsi immodificabili: l’art. 138 che sottopone le procedure di riforma costituzionale ad una precisa e complessa normativa, l’art.139 che istituisce la forma repubblicana, gli articoli 2, 13-26, 24 e 27, in quanto attengono al diritto di libertà e ai diritti inviolabili dell’uomo, l’art. 5 che sancisce l’unità e l’indivisibilità della Repubblica. Sarebbero inoltre immodificabili, secondo la giurisprudenza costituzionale, ma non in base ad un preciso dettato, anche tutti i primi 12 articoli, perché ritenuti i Principi Fondamentali che«appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Così, per esempio, l’art. 1 sarebbe intangibile in quanto sancisce che tutto l’ordinamento dello Stato si basa sul principio della sovranità popolare. Il che significa che una modifica dell’art. 1, che declini in modo più ampio e significativo il concetto di tale sovranità, debba ritenersi possibile.  

 E in effetti la riforma dell’art. 1 della Costituzione, proprio in questo senso, è contemplata nelle proposte presentate al Convegno del Teatro Anfitrione di Roma, divenendo una sorta di “cervello” di tutto il restante corpo costituzionale, con l’avvertenza che qualora la giurisprudenza, per motivi politico-giuridici più che sostanziali, valutasse l’articolo immodificabile, tutto il suo contenuto troverebbe comunque legittimamente posto in altri articoli della carta costituzionale, opportunamente modificabili in base alle procedure previste dall’art.138. Altre proposte di modifica riguardano, almeno per il momento, gli articoli  49, 56, 67, 75 e 81, la cui formulazione è di seguito riprodotta, utilizzando il neretto per ciò che viene mantenuto, il blu per ciò che si intende cancellare e il rosso per ciò che si propone di inserire. L’art.49 aggiunge un secondo e un terzo comma per meglio regolare la vita interna dei partiti e garantirne un tasso più elevato di democrazia. Con gli articoli  56 e 67 è introdotta l’innovazione di maggiore portata, al fine di rendere sostanziale un concetto di democrazia sempre più formale e di rendere il cittadino – richiesto periodicamente solo di un voto rituale che sancisca le decisioni delle segreterie dei partiti e al quale egli finisce sempre più per sottrarsi, apprezzandone l’inutilità – vero protagonista della vita politica e delle scelte che lo riguardano nel quotidiano. Con l’art. 75 si propone, per rendere meno aleatorio il concetto di sovranità popolare, una normativa semplificata del referendum. Infine, con l’art.81 si demanda allo Stato la tutela del benessere sociale dei cittadini e si cancella la norma sul pareggio di bilancio, introdotta proditoriamente e di recente da tutti i partiti politici, con la sola eccezione del Movimento Cinque Stelle, i cui rappresentanti non erano ancora presenti in Parlamento.

 Il nome di questo nuovo soggetto politico: Partito Democratico Progressista [PDP] fa pensare quasi ad una rifondazione dell’esistente Partito Democratico, alla reintegrazione di quanto di recente s’è venuto formando dalla sua costola, richiamandosi a vaghe idee di progresso, all’inclusione persino di tutte quelle articolazioni che da tempo si agitano e si spezzettano all’infinito e senza alcun costrutto alla sua sinistra. Niente di meno vero. La connotazione di “progressista”, checché ne pensi il senso comune, non caratterizza necessariamente le formazioni della sinistra, tant’è che vi si richiamano ancora oggi nel mondo, e indifferentemente, partiti e movimenti politici liberali, di centro, di destra e di sinistra. Ciò premesso, la qualifica di “progressista” che caratterizza questo costituendo soggetto politico attiene ad un concetto di progresso ben  determinato e specifico su cui vale la pena di soffermarsi allo scopo di coglierne le differenze con l’idea generica di progresso, presente tanto nel Manifesto dei valori del Partito Democratico, al momento della sua fondazione [2008], quanto negli attuali e sedicenti campi progressisti, come il recentissimo Liberi e uguali che unifica piccoli raggruppamenti della sinistra [MDP, Possibile e Sinistra italiana] nel nome, ritenuto accattivante, del presidente del Senato, ma che ha come unico programma la reintroduzione della tassa sulla casa di abitazione degli italiani nonché dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, limitandosi una concezione della politica che non si distingue da quella governativa per ciò che riguarda il pareggio di bilancio e l’austerità.

 Quali le ragioni del fallimento dei governi di centrodestra e di centrosinistra che hanno governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo, trascinandola sull’orlo dell’abisso, e che rendono impensabile per i cittadini affidarsi nuovamente a loro? Un identico modo di gestire il potere: clientelismo, corporativismo, spreco, incompetenza, corruzione generalizzata e un’identica propensione, nonostante le tante promesse elettorali, a non risolvere i problemi della gente, limitandosi alla mala gestione dell’ordinario e alla cura individuale del carrierismo politico. Ciò che ha reso impalpabile agli occhi di molti la differenza tra destra, sinistra e centro che pure storicamente e idealmente esiste e non può non esistere! Ma la notte della politica italiana, in cui “tutte le vacche sono nere” e i partiti intercambiabili fra loro, ha radici sociologiche ben precise, determinate dal reclutamento delle classi dirigenti negli ultimi decenni, accomunate non solo e non tanto dalla stessa estrazione sociale, quanto piuttosto da formazione politica inadeguata, scarsa onestà e mancanza di immaginazione.

 E ancora: non è che destra e sinistra siano la stessa cosa, ma ciò che ha caratterizzato centrodestra e centrosinistra nei governi degli ultimi decenni è stata, come dicevo, l’identica sostanziale accettazione del modello di sviluppo imposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le uniche differenze sono state le misure effimere adottate per rendere tale modello più digeribile al proprio elettorato di riferimento. Così è stato e così sarà per il futuro, se i cittadini non prenderanno coscienza di essere i soli titolari della sovranità che legittima lo stato democratico. Pur tra conclamati obiettivi diversi, le coalizioni che hanno governato il Paese negli ultimi decenni, hanno finito per adottare le stesse politiche e oggi le ripropongono anche per il futuro: il centrodestra attraverso l’amalgama tra i sedicenti moderati e i cosiddetti populisti e con l’unico scopo di mantenere i privilegi dello status quo, il centrosinistra mediante un contenitore più disinvolto che ha finito con alimentare il frazionismo, il velleitarismo e l’impotenza. Quanto al Movimento Cinque Stelle, al netto delle considerazioni di cui sopra, l’attenzione con cui i pentastellati  hanno riguardato i cittadini emarginati dalle scelte che li riguardano, creando nel Paese le condizioni di un massiccio voto di opinione in loro favore, non deve essere trascurata e induce a riconoscere – finalmente senza pregiudizi di bandiera – la bontà di molte intuizioni alle quali purtroppo è mancata la concretezza dell’azione politica. Il fenomeno fa anche riflettere sull’esistenza di uno spazio che può essere colmato da un soggetto politico nuovo, capace non tanto di cavalcare lo scontento, ma di preparare una classe dirigente che si dimostri all’altezza di coniugare insieme la domanda di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica con la progettazione di autentiche misure di riscatto e di trasformazione sociale.

 Al Partito Democratico va invece riconosciuto di essere nato con ben altre aspirazioni, come si legge nella relazione con la quale Piero Fassino aprì il processo costituente:

  “Diamo vita al Partito Democratico non per un'esigenza dei DS o della Margherita o di un ceto politico. No. Il Partito Democratico è una necessità del Paese, serve all'Italia. Vogliamo dare vita ad un soggetto politico non moderato o centrista, bensì progressista, riformista e riformatore. Un partito che faccia incontrare i valori storici per cui la sinistra è nata e vive - libertà, democrazia, giustizia, uguaglianza, solidarietà, lavoro - con l'alfabeto del nuovo secolo: cittadinanza, diritti, laicità, innovazione, integrazione, merito, multi-culturalità, pari opportunità, sicurezza, sostenibilità, sopranazionalità. E per questo dovrà essere un partito del lavoro, dello sviluppo sostenibile, della cittadinanza e dei diritti, dell'innovazione e del merito, del sapere e della conoscenza, della persona e della laicità, della democrazia e dell'autogoverno locale, dell'Europa e dell'integrazione sopranazionale, della pace e della sicurezza”.

 Belle parole, ma destinate subito a restare sulla carta, perché già il Manifesto del PD, approvato il 16 febbraio del 2008, rende evidente il carattere astratto e velleitario di formulazioni generiche – fatte più per la coesistenza e il compromesso tra ceppi antichi e diversi [che il Manifesto chiama “grandi tradizioni”], in passato spesso ostili tra loro – che per essere effettivamente realizzate. Il Manifesto si articola in sette punti:

 1. Le ragioni del Partito Democratico”, individuate: a) nella necessità di fare un “Italia nuova” ricollocandola “negli inediti scenari aperti dalla globalizzazione del mondo”, b) nell’obiettivo di un “profondo rinnovamento della società italiana” e nella “formazione di una nuova classe dirigente”, c) nella volontà di “dare adeguate risposte ai grandi problemi del presente e del futuro”.

2. Un partito aperto nel mondo globalizzato”, che dichiara solennemente: a) di battersi per l’universalità del sapere, considerata come “un grande progetto di democrazia della conoscenza“, b) di riconoscere “la centralità e l’universalità dei diritti umani”.

3. Nel solco della Costituzione: etica pubblica e laicità”, dove si ribadisce il valore della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza antifascista, e la necessità di realizzarne la piena attuazione e l’aggiornamento “nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise”.

4. Un’Italia più libera, più giusta e più prospera”, con il quale si annuncia tra l’altro di volere “un’Italia più libera, più giusta e più prospera […] una società aperta che consideri le persone in base alle loro qualità, rimuovendo gli ostacoli economici e sociali, e premiando il merito e non i privilegi. Vogliamo che a ciascuno sia garantita la libertà di realizzarsi secondo i suoi talenti e le sue inclinazioni”.

5. Il pluralismo sociale, per una comunità forte e solidale”, dove, a tutela della famiglia, si annuncia il “bonus bebè”, si considera l’accoglienza dei migranti più un’opportunità che un problema e si proclama la valorizzazione e la promozione delle autonomie locali, “la cultura della sicurezza e della legalità”, la lotta contro “il degrado urbano e sociale […], la corruzione e la criminalità organizzata”.

6. L’educazione, la formazione, la ricerca scientifica”, con la proclamata centralità della scuola dove – è detto – “si pongono le premesse della cultura democratica indispensabile alla convivenza in una società sempre più plurale e multiculturale”, con “un sistema scolastico pubblico, imperniato sulla valorizzazione del ruolo educativo degli insegnanti” e il pieno sostegno “della libertà della ricerca scientifica”.

7. La speranza della pace: la storia non è finita”, dove si enfatizza l’aver tratteggiato “il profilo di un partito nuovo” e si prospetta l’elaborazione di “una nuova idea di progresso”.

 Come si vede, il Manifesto dei valori del Partito Democratico contiene già in nuce i segni della retorica, del velleitarismo e dell’ impotenza. Se si eccettua il riferimento al noto “bonus bebè”, una sorta di mancia elettorale che non ha certo risolto i problemi delle famiglie italiane, tutti i solenni propositi contenuti nei sette punti in cui il Manifesto si articola non sono sostenuti dall’indicazione, non dico di misure, ma almeno di proposte per la loro effettiva sostenibilità e realizzazione. A guardar bene, anzi, si direbbe che la società vagheggiata astrattamente dai fondatori del Partito Democratico, sia venuta evolvendosi proprio in senso contrario alle grandi affermazioni di principio contenute nel citato Manifesto. E l’astrattezza dei valori non è soltanto imputabile all’opportunismo politico che determinò la nascita di questo partito, ma al fatto che il Partito Democratico fu soprattutto un’unione di vecchie sigle e vecchie nomenklature, poco di cittadini intenzionati a dar vita ad una nuova e diversa formazione politica e animati dal desiderio di cambiare davvero le cattive abitudini di cui la classe dirigente, già nel passato, aveva fornito prove eloquenti.

 Alla generica idea di progresso presente nel Manifesto dei valori del Partito Democratico, alla sua corruzione e inconcludenza nell’azione politica, al velleitarismo dei cosiddetti movimenti e campi che rivendicano la patente di progressisti, unicamente perché si collocano alla sinistra del PD, dopo averne sempre condiviso le peggiori scelte politiche ed economiche, all’Europa dell’austerità e dei summit franco-tedeschi, alle promesse di risanamento sociale e nazionale, mai mantenute, dei sedicenti moderati del centrodestra, alle lusinghe antieuropeistiche dei loro alleati, destinate ad emarginare il Paese dal processo produttivo mondiale e a far girare al contrario la ruota della Storia, ai pronunciamenti rivoluzionari del Movimento Cinque Stelle, non suffragati nella realtà dal governo di alcune città metropolitane, allo splendido isolamento che ne rappresenta insieme il punto di forza e il limite, alla vaghezza di una proposta politica, ad una classe dirigente impreparata a gestire l’ampio consenso ricevuto da milioni di cittadini, il costituendo Partito Democratico Progressista oppone un progetto di un’autentica trasformazione sociale, basato su un’idea di progresso, né generico né velleitario, ma orientato su alcuni temi specifici che si riferiscono:

1) Al concetto di democrazia: l’istituto della democrazia rappresentativa e quello della democrazia diretta, limitati alla delega, al referendum abrogativo e alle leggi di iniziativa popolare con procedure complesse e farraginose che ne scoraggiano l’utilizzo e che per di più non sono ammesse per alcune materie fondamentali, va rivisto nella direzione di un progressivo allargamento che contempli: a)forme più snelle di partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica da parte dei cittadini, b)l’introduzione della democrazia stocastica [sorteggio qualificato per l’elezione dei deputati], c)le primarie, sancite per legge e limitate agli iscritti, per scegliere le cariche interne dei partiti e i relativi candidati per ogni tipo di elezione, dove sia in gioco la rappresentanza politica dei cittadini.

2) Alla manifestazione della sovranità popolare che progressivamente abbandoni ogni riferimento astratto, e si concretizzi in forme sempre più reali ed efficaci.

3) Alla pratica della delega in bianco, quale si manifesta attualmente per ogni tipo di elezione, e che una visione progressista non può che rimuovere, perché fa dei membri del Parlamento i rappresentanti della nazione e non dei cittadini, praticamente inamovibili – se non per reati comuni e attraverso complesse procedure – e che dunque rende gli eletti disponibili per ogni genere di trasformismo.

4) Alla piena, progressiva attuazione dei diritti civili, politici e sociali contenuti nella Costituzione Italiana e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

5) Alla riaffermazione della sovranità monetaria dello Stato per rendere progressivamente ed effettivamente possibile l’attuazione del 2° comma del 3° articolo della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 

6) Al progressivo raggiungimento della piena occupazione, sancito ma sempre disatteso dalle attuali politiche, volte a perseguire l’austerità e il pareggio di bilancio e non già il dettato del 4° principio fondamentale della Costituzione italiana, il quale recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

7) Ad un benessere sociale, non più pensato come esclusivo appannaggio di determinate classi, ma  destinato progressivamente ad includere il maggior numero possibile di cittadini.

8) Ad una progressiva liberazione dell’Europa, non più schiava delle oligarchie finanziarie e dell’egemonia tedesca con i suoi lacchè francesi.

 In conclusione, mi sembra di poter dire che gli obiettivi del PDP siano concreti, perché indicano già dei percorsi effettivi per la loro realizzazione. Ciò non significa che il cammino sia semplice e occorrerà anche sciogliere alcuni nodi contenuti nei principi fondativi da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente. Bisognerà poi risvegliare molte coscienze addormentate o ancora assopite e preparare una nuova classe dirigente. In questa prospettiva il Movimento Roosevelt - che resta una realtà politica ma non partitica – è chiamata a svolgere una funzione determinante in fatto di informazione, cultura e pedagogia. Perché è abbastanza evidente che nulla potrà mai cambiare veramente se i tanti delusi dal linguaggio e dall’agire della politica non coglieranno l’opportunità di una rivoluzione copernicana che rovesci il tradizionale rapporto stato-cittadini: lo stato non più concepito come un’entità astratta che impone i propri comandamenti, attraverso inamovibili oligarchie, ma finalmente inteso come il risultato di un patto sociale nel quale i cittadini si possano riconoscere. 

sergio magaldi


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