Edoardo Nesi, Storia della mia gente,Bompiani,Milano,2010
Dopo aver letto circa la metà di questo romanzo di non più di 150 pagine, mi sono chiesto in virtù di quale magia avesse vinto lo Strega 2011. Può apparire sorprendente che qualcuno si meravigli dei “criteri” che guidano pubblico [si fa per dire] e giuria nell’assegnazione dei premi letterari, eppure io riesco ancora a stupirmene! In un paese come l’Italia, con una tradizione corporativa ininterrotta che dal Medioevo giunge a noi senza soluzione di continuità. Una struttura sociale rivitalizzata dal Fascismo, religiosamente conservata nei 50 anni di Democrazia Cristiana, mantenuta intatta da tutti i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica: uno Stato fondato sulle corporazioni, sui privilegi e sulle clientele, più che sul lavoro, sul diritto e sul merito, e dove nulla può ancora destare stupore.
Tuttavia, nella seconda metà del libro, ho trovato la risposta che cercavo. L’analisi semplice, incalzante e non priva di efficacia con la quale Edoardo Nesi “spiega” la crisi della Lanificio T.O. Nesi & Figli, nel contesto del fallimento dell’industria tessile a Prato e più in generale nella progressiva scomparsa della piccola industria italiana. Un’analisi che deve aver convinto anche la giuria dello Strega. Un’accusa garbata, ma al tempo stesso spietata e senza appello nei confronti di una classe politica che sta mandando o ha già mandato il paese in rovina.
Distrutto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dai tedeschi in fuga da Prato, il Lanificio T.O. Nesi & Figli, seppe riprendersi sino a costituire, insieme a decine e decine di altre aziende pratesi, il fiore all’occhiello dell’industria tessile nazionale. Poi arrivarono l’euro e il mercato globale:
“Erano i giorni in cui ero ancora arrabbiato, quelli a cavallo del nuovo millennio, quando il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto, all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome dell’azienda e alla sua storia”.
Persino i tedeschi, che erano tra i migliori clienti, cominciarono a guardare al “prezzo romeno” dei tessuti prodotti in Transilvania, mentre i nostri imprenditori continuavano a comprare Mercedes e Audi, “quelle dannate, muscolari macchine tedesche”. Già, e – aggiungo io – continuano ancora oggi e non solo gli imprenditori, perché gran parte degli italiani compra macchine tedesche, ma anche francesi, giapponesi, persino sud-coreane, tutte tranne le italiane Fiat, Alfa Romeo, Lancia. Perché le auto straniere sono più competitive, si suole dire, nel prezzo e nella qualità. Ciò che non è vero, ma questa è la legge del libero mercato, di quel mercato globale che avrebbe finito col rovinare gli imprenditori tessili di Prato e non solo:
“Correvano a tuffarsi in tutte le maledette aste senza badare al prezzo a cui se le aggiudicavano, senza accorgersi che a quel punto erano bell’e pronti per consegnarsi alle grandi aziende dell’abbigliamento mondiale così adorate dai giornalisti economici, quei titanici gruppi stranieri che vendono in tutto il mondo i loro cenci senz’anima e senza fantasia, e sono i veri beneficiari della globalizzazione; ai padroni del nostro spaurito mondo globale, quelli che credono fermamente giusto che il prezzo ideale di un prodotto lo decida il mercato e solo il mercato, perché il mercato sono loro […]”.
Fu così che il Lanificio T. O. Nesi & Figli – un’azienda appartenuta alla stessa famiglia per tre generazioni – dovette vendere, prima che la rovina fosse completa, mentre Francesco Giavazzi si esercitava sul Corriere della Sera [come del resto la maggior parte della stampa] nel sostenere “l’infinita bontà della globalizzazione […] e l’incapacità di grandissima parte dell’industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato”. E con lui, i politici che, nelle difficoltà oggettive in cui vennero improvvisamente a trovarsi le piccole imprese, non trovarono di meglio, per affossarle definitivamente, che introdurre con Prodi e Visco la tassa denominata IRAP:
“Un’invenzione infernale che ti costringe a pagare non in base all’eventuale utile conseguito, ma in base al fatturato che realizzi e al numero dei dipendenti che hai e agli interessi che paghi alle banche e persino alle perdite sui crediti […]”.
Ed ecco arrivare nei capannoni di Prato, lasciati liberi dalle tante aziende fallite, l’esercito dei cinesi, con capi intraprendenti e senza scrupoli alla guida di un proletariato avvezzo a lavorare dalla mattina alla sera in condizioni subumane e senza igiene. Nella consapevolezza che per ogni capannone chiuso dalle autorità, un altro se ne sarebbe subito aperto, perché in Italia “le leggi sono timide come ragazzine”, aggiungo io, mutuando l’espressione da Franz Kafka:
“Tutto è sporco, orribilmente sporco. Lerci sono il pavimento, le cucitrici, i cubicoli senza finestre e senz’aria dove sono ricavati i giacigli. Lerce le coperte, lerci i bagni. Tutto è orribilmente trascurato, come se fosse impossibile pulire ciò che comincia subito a risporcarsi, folle l’idea di considerare casa quel grandissimo casino, ridicolo il solo pensiero di abbellire ciò che non può essere abbellito”.
Questa, l’inevitabile conseguenza – osserva Nesi narratore – di quanto era accaduto nell’ultimo decennio del secolo, quando fu concesso alle merci cinesi d’invadere l’Occidente, mentre in Italia si coltivava l’illusione da parte dei soliti politici e degli economisti che “la totale liberalizzazione degli scambi commerciali” avrebbe recato enormi vantaggi al nostro paese. Non solo, infatti, la globalizzazione, spazzando via dazi e protezioni, avrebbe consentito d’importare beni di consumo, come pc, lavatrici, televisori, prodotti dell’abbigliamento ecc. a basso prezzo, ci avrebbe anche permesso di esportare in Cina il Made in Italy [tessuti, piastrelle, mobili, prodotti sanitari, scarpe, salumi ecc.], invadendo così un mercato di un miliardo e mezzo di consumatori, affascinati dai nostri prodotti e sempre più in grado di comprare.
“Queste fandonie ottimistiche – osserva ancora Edoardo Nesi – non rappresentavano che i corollari della favola bella che ogni giorno, per anni c’era stata raccontata dai giornali, dalle televisioni, dalle radio, e che voleva il mondo ormai spiegato, risolto, uno […]”.
Cosa accadde invece? Che i cinesi non comprarono il Made in Italy, ma cominciarono a produrlo e a diffonderlo in Occidente con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. E i politici italiani che fecero per difendere il Sistema Italia, un sistema che negli anni aveva garantito benessere per tutti? Non certo quello che hanno fatto gli altri paesi europei:
“È un gigantesco complesso d’inferiorità, quello che impedì e impedisce ancor oggi ai nostri politici di difendere gli interessi dell’industria manifatturiera e dei milioni di persone che direttamente o indirettamente ne campano? Dopotutto i politici francesi hanno difeso e difendono con i denti e contro ogni logica [globalizzante, aggiungo io] i sussidi alla loro agricoltura e ai loro contadini; i politici tedeschi fanno scudo coi corpi alla loro potentissima industria chimica; gli svedesi e i danesi non sono nemmeno entrati nell’euro per paura di veder snaturato il proprio stato sociale; gli inglesi si sono tenuti la sterlina e non hanno nemmeno firmato l’accordo di Schengen.
Cosa pensavano, invece, i nostri politici quando firmavano quei fogli per conto nostro e svendevano la nostra industria manifatturiera? Davvero credevano che si potesse trovare il modo di rivaleggiare con chi produce i nostri stessi articoli a una frazione del nostro costo?”
Cosa si poteva fare che invece non si è fatto? Si domanda ancora Nesi e la sua risposta appare quasi profetica, se si pensa che egli ha terminato il romanzo, un anno e mezzo prima che arrivasse il governo dei tecnici e il cosiddetto decreto Salva Italia:
“Bisognava lottare con le unghie e con i denti, a palmo a palmo, come hanno fatto tutte le altre nazioni. Bisognava trattare, trattare e trattare, non stancarsi di portare le nostre ragioni, e mandare a trattare quelli bravi davvero […] quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non i professori, non quei conigli bagnati che si facevano zittire a scapaccioni ogni volta che provavano ad aprir bocca, umiliati alla sola menzione di quel colossale debito pubblico che pure avevano visto lievitare ogni anno senza riuscire a far nulla, e che a Bruxelles gli veniva continuamente sventolato davanti agli occhi come il marchio dell’infamia”.
Dove Edoardo Nesi diventa incredibilmente profetico è però nelle pagine finali, quasi avesse previsto tanto tempo prima quale sarebbe stato l’esito della crisi italiana e a chi sarebbero state affidate le chiavi del governo. Quasi ce ne dispiace per il presidente Giorgio Napolitano, che la stampa che conta ha indicato quasi all’unanimità come l’artefice provvido e lungimirante che ha insediato Monti a Palazzo Chigi. Perché salvasse l’Italia, tassando gli italiani come nessun altro in passato e gettasse il paese nella recessione più profonda:
“Questa è la mie gente, professor Monti. La mia gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare. Siamo milioni, e mi perdonerà se la coinvolgo in questo libro dolente, in questa disperata battaglia che le parrà di retroguardia, ma è assolutamente necessario che da ora in poi lei si ricordi di noi quando ragiona di politiche comunitarie con le persone più potenti del mondo, altrimenti ci metto poco a mandarle a Milano Tacabanda e i suoi ragazzi, a scuotere i cancelli della Bocconi”.
sergio magaldi
i miei complimenti,bello davvero.
RispondiEliminaAntonello
It is a very informative and useful post thanks it is good material to read this post increases my knowledge. Psicologo prato rabbia
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