mercoledì 30 maggio 2012

IL CALCIO DI RIGOR MONTIS

   


  Che a Rigor Montis non piacesse il calcio l’ho sempre sospettato. Quei toni grigi e falsamente dimessi in cui è solito esprimersi, poco si conciliano con la vitalità del gioco del pallone, quasi una danza con la quale gli antichi simulavano il contatto con la sfera del Sole che dà vita e calore alla Terra. Rigor Montis però sostiene di essere stato un tifoso quando il calcio era diverso… quando cioè, aggiungo io, non c’erano né la volontà né gli strumenti per indagare sulle partite truccate. Deve riferirsi a quando era bambino, perché ricordo ancora lo scandalo che coinvolse diversi campioni già prima del mondiale vinto dall’Italia nel 1982. 

  Comunque sia, la proposta di “abolire il calcio” per due o tre anni potrebbe inserirsi nel quadro delle riforme utili a salvare il Paese, alcune delle quali si sono dimostrate già così efficaci. Basterebbe solo qualche sacrificio in più da parte degli italiani. Che so, una nuova stretta sulle pensioni, un aumento dell’IMU, della benzina, o magari dell’IVA, tanto più che per Ottobre è già previsto un innalzamento di due punti: dal 21 al 23%! Se i punti, invece che due, fossero tre [quanti ne guadagna la squadra che vince una partita di calcio] o addirittura quattro, il gioco sarebbe fatto! Già, perché per abolire il calcio in Italia serve una copertura finanziaria. Se “l’abolizione” durasse tre anni, occorrerebbero almeno 3 miliardi di Euro, quanti il Fisco ne incassa dal “Sistema calcio”, una delle poche industrie ancora vitali nel nostro Paese, con un volume di affari che supera i dieci miliardi all’anno, senza contare i giornali sportivi, gli addetti ai lavori della carta stampata, le televisioni, le radio e quant’altro.

 Certo, l’idea di abolire le istituzioni corrotte è affascinante e geniale e poteva venire in mente solo ad un uomo di grande spessore, un duce benefico, svincolato da piccoli e grandi interessi, personali e internazionali. E non è detto che ogni altra “abolizione”, a parte quella del calcio, purtroppo costosa, sarebbe onerosa per le casse dello Stato. Al contrario! Pensate, tanto per fare solo qualche esempio, a quanti miliardi si potrebbero risparmiare con l’abolizione del “Sistema della politica”. Più di 18 miliardi all’anno sostiene qualcuno di quelli che s’intendono di conti! E se è vero quanto dice l’on. Di Pietro, e cioè che l’organo di massima rappresentanza politica dei cittadini è formato per metà di avvocati e per l’altra metà di imputati, pensate a quanto si potrebbe risparmiare ancora!

   Non basta, se tutte le istituzioni corrotte fossero cancellate, quanto si risparmierebbe ancora sulla riduzione dell’organico della Magistratura?

  Insomma, dopo averci a lungo pensato, Rigor Montis ha forse trovato la chiave di volta, la parola di passo [“Abolire le istituzioni corrotte”] per salvare l’Italia. Resta solo da chiedersi cosa avverrebbe dopo. Mi viene in mente solo “Se comannassi io ne restassimo pochi in Italia”, battuta che, se non ricordo male, Pasolini mette in bocca a Franco Citti nel film Accattone. Per dirla con altre parole c’è forte il rischio che, una volta abolite le istituzioni corrotte, in Italia resterebbe solo Rigor Montis. Forse, non sarebbe male studiare qualche altra soluzione…


Sergio Magaldi
       

                                                            

venerdì 25 maggio 2012

LUCIANO LUCIANI uomo ballerino coreografo artista

Luciano Luciani in una foto di circa 10 anni fa




 Voglio ricordare un uomo, un artista, un amico scomparso da alcuni mesi.

 Luciano Luciani non è stato soltanto un artista che ha dato il meglio di sé nella danza e nella coreografia, che si è cimentato nel teatro, nel cinema e nella pittura. Luciano è stato innanzi tutto uno spirito grande, e tutti quelli che lo hanno conosciuto non possono dimenticare la sua bontà e quel suo modo umile, sereno e insieme entusiastico di affrontare la vita, anche nelle avversità.


 Non ho mai scritto un epitaffio e non voglio cominciare proprio da lui: lontane le mie parole da quell’intento retorico che accompagna i vivi nel ricordare le persone che li precedono nel mondo dei più. Luciano era davvero una persona speciale, capace sempre di trovare la parola di cui sentivi la necessità e di farti sorridere anche quando non ne avevi voglia. Di fede cattolica, la sua religiosità era davvero universale perché abbracciava idealmente gli uomini di ogni religione, i non credenti, i massoni. Fortunato chi, come me, l’ha incontrato sulla propria strada, perché rare sono nel corso di un’esistenza le occasioni di imbattersi in una persona come lui.

La sua grande sensibilità lo portò ad innamorarsi della danza sin da ragazzo e più tardi a cimentarsi sui palcoscenici di tutto il mondo, ma fu soprattutto in Brasile, dove complessivamente dimorò per circa trent’anni, che egli conobbe il successo come ballerino e ancor più come coreografo, lavorando nei teatri più importanti del Paese e per la Globo, la televisione nazionale brasiliana, sino a fondare, nel pieno centro di San Paolo, l’Academia de Ballet Moderno Luciano Luciani, che ebbe il merito di diffondere nell’intero Brasile la conoscenza della danza moderna. In Italia, purtroppo, fece solo rare apparizioni, ma fu maestro di Paolo Gozlino, il noto ballerino, attore, regista e coreografo che tra gli anni Sessanta e Settanta divenne popolare nelle case degli italiani con spettacoli televisivi come Studio Uno.

Spesso, durante queste pause italiane, Luciano Luciani fu chiamato a recitare in teatro e anche nel cinema, chiamato ad interpretare piccole, ma significative parti, dai più noti registi italiani. Il grande Federico Fellini lo “utilizzò” più di una volta e lo chiamò a sfilare nella celebre sequenza di moda ecclesiastica inserita nel film Roma, di cui i lettori troveranno il video, in calce al post

In un mio romanzo, Tiphereth-Sentieri d’armonia, Roma, 2004, pp.480, ho parlato in alcune pagine di Luciano Luciani. Di seguito un breve estratto:




[…]Lungo tutto il percorso Luciano chiese ai viaggiatori se conoscevano la pensione di Doña Soledad. Non sarebbe stato difficile trovarla.
“... sulla plaza mayor, en frente de una fuente, cerca de una carniceria… le aveva detto al telefono Soledad in persona.
L’auto di linea si fermò davanti alla porta principale del paese. Luciano scaricò a terra i suoi bagagli e per vincere caldo e stanchezza pensò bene di sedersi su una panchina di peperino, all’ombra di un grande platano. Di lì, aspirando il fumo di un grosso sigaro, ammirò l’opera del Borromini. La porta gli ricordò immediatamente quella romana di Castel S. Angelo.
Si stancava facilmente Luciano nonostante il fisico asciutto e la destrezza di ballerino che lo aveva portato sui palcoscenici di mezzo mondo. Chi o che cosa lo spingeva in quel luogo? Lui che amava il chiasso delle metropoli, il via vai frenetico della gente, le luci degli spettacoli notturni protratti sino all’alba tra taverne, caffè e compagnie di artisti.
Un vecchietto seduto poco distante prese a fissarlo: non sarebbe passato inosservato in quel borgo sì e no di mille anime, con la tuta bianca che ne esaltava l’abbronzatura del sole tropicale, la figura atletica, i capelli brizzolati, i larghi baffi spioventi sopra il sigaro acceso, lo sguardo ironico e indagatore, la flemma dei movimenti, la bocca pronta a sorridere e a salutare i rari passanti.
Oltre la porta del paese, Luciano intravide la piazza che gli era stata indicata e, in cima ad una ripida ascesa, gli apparve sorprendente una Abbazia di fine gotico circestense. Le lancette del grande orologio di uno dei due campanili segnavano le tre del pomeriggio. Avrebbe volentieri bevuto un goccetto, lo tratteneva l’immagine del fastidioso bagaglio sparpagliato a terra. Decise infine di avviarsi da Doña Soledad, sorrise e salutò il vecchio che lo fissava.
Suonò al portone di un palazzo secentesco. Ebbe tutto il tempo di riaccendere il sigaro che teneva spento in bocca. Udì un armeggiare di chiavistelli e dopo interminabili istanti gli apparve una spilungona di colore con gli occhiali. Pensando di trovarsi ancora in Brasile, Luciano si rivolse a lei in portoghese. La donna, che non aveva capito una parola, balbettò qualcosa in un francese  dall’accento coloniale.
“Ah! Bon! Siete francese?” domandò Luciano con un gran sorriso.
Oui monsieur” rispose laconica la donna.
“La Francia! Nella mia vita artistica ho abitato per molto tempo a Parigi, prima di partire per il Brasile. Lavoravo a L’oreille du bois vicino all’Arco di Trionfo...”
Connais pas, monsieur, ni Paris, ni la France” lo interruppe la donna.
“Ah! Bon! Siete algerina?”
Non pas, monsieur, je viens de Seychelles...
“Ah... le isole tropicali! Figuriamoci il calore! – disse Luciano, vedendo scorrere gocce di sudore sulla fronte della donna – Anch’io ho vissuto ai Tropici per più di trent’anni, conosco quel caldo torrido che si appiccica alla pelle!”
La spilungona di colore lo guardò imbambolata.
“Dico queste cose – seguitò Luciano – perché al telefono mi sono già presentato... ho dato le mie referenze a Doña Soledad. Posso entrare... sì?!”
Senza attendere risposta, spinse col piede due enormi valigie contro il portone, ne sollevò una terza, mentre con la mano libera cercò di afferrare qualcuna delle quattro borse da viaggio che, con un cavalletto e diverse buste di plastica, completavano il suo bagaglio.
“Una mano, per favore... sì?!”
Oui monsieur…
    [Op.cit.,pp. 21-23]
  
Tra Michele e Luciano fu subito amicizia. Passeggiando o seduti al bar sino a notte fonda, Luciano raccontava il Brasile e la sua vita. Dal Copacabana Palace di Rio al Teatro Castro Alves di Bahia, alla Sala Azzurra del Teatro Natal di San Paolo. Luciano mostrò a Michele le foto che lo ritraevano sul palcoscenico e gli articoli dei giornali che parlavano di lui. Da quell’album di ricordi Michele lesse a caso:

Luciano Luciani e Wilma Camargo dao um novo toque no teatro musicado, com Fogo na Barba, que encenam na Sala Azul do Teatro Natal. Quaisquer elogios serao poucos para a qualidade desse espetaculo... [Luciano Luciani e Wilma Camargo danno un tocco nuovo al teatro musicale, con ‘Fogo na Barba’ che si rappresenta nella Sala Azzurra del Teatro Natal. Qualsiasi elogio sarebbe poco per descrivere la qualità di questo spettacolo…]

Sotto l’immagine di un giornale, che ritraeva Luciano nell’atto di ricevere il premio più importante della televisione brasiliana, si leggeva in italiano:

Domenica sera, in una sfarzosa cornice, nella sala del Teatro Record, si è svolta l’assegnazione dei premi  ‘'Roquete Pinto’... Due italiani hanno ottenuto l’ambito premio: il maestro Enrico Simonetti (che s’avvia a battere Fellini in fatto di premi) e Luciano Luciani quale coreografo e per il suo impeccabile balletto.

Luciano esibiva quei trofei con la modestia e l’ironia che Michele imparò presto a riconoscergli ma anche dissimulando a stento una velata nostalgia.
Più che dal mondo dello spettacolo, Michele era attratto dalla magia del candomblé di cui aveva sentito parlare nei romanzi di Jorge Amado.
Luciano parlava degli spiriti con tanta familiarità che Michele lo credette un medium o un uomo che mancasse di qualche rotella. Ancora a pochi mesi dalla morte della madre, Michele si rese conto di aver bisogno di lui, così come aveva avuto bisogno dei mondiali di calcio. Venuto dal Brasile con le sue storie di magia, di danze rituali, di spiriti-guida, di fluidi buoni e cattivi, Luciano finì per influenzarlo, in quel delicato momento della sua vita, come mai avrebbe potuto in un altro periodo. Fu per questo che gli capitarono fenomeni a dir poco sconcertanti?
  [pp.34-35]

“E dunque! Ma che facciamo in piedi… Sediamoci… Prendiamo una cosa… Un goccetto!”
“Grazie... Prima di pranzo... No” rispose Michele, sedendo sotto il pergolato.
“E tu... Massimiliano... Non mi fai compagnia... Non bevi una cosa con me?!”
“Grazie. Anch’io prima di mangiare non bevo... Ho una fame!”
“Sì... Sì... Ora ordiniamo... Ho una fame ‘impazzita’... Prima, però, se permettete... Vorrei bere una cosa…”
Con lo sguardo cercò il cameriere. Si avvicinò una ragazza.
“Monica, sei tu?... Non c’è Sandro, oggi?”
“No... E’ a Roma... Alla partita…”
“Ah!... Eh?!... L’è a Roma il tu’ fratello e la tu’ mamma?” chiese ancora Luciano che si divertiva un mondo nel toscaneggiare.
Monica sollevò le spalle.
“E’ di là... Come al solito” rispose.
“È  in cucina che prepara gli intingoli ‘boni’! Tu l’aiuti, non è vero?”
Luciano non attese risposta. Continuò in quella specie di monologo che Michele e Massimiliano trovavano spesso imbarazzante ma sempre divertente.
“Conosci gli amici?” chiese a Monica alludendo ai commensali.
“Sì… Mi pare di averli già visti... Forse solo il signore...”
“L’altro è il figlio... Allora... Monica... Stai bene... No?! Che ci porti di buono?”
“Quello che volete” rispose la ragazza sorridendo.
“Vorremmo mangiare, ma prima una cosa da bere... Tanto per ‘aprire’ lo stomaco…”
“Tre aperitivi... Porto tre aperitivi?”
“No... Loro non bevono... Per me un goccetto di whisky di quello ‘bono’... Che tu sai...”
La ragazza non doveva saperlo, perché si rivolse a Luciano in tono professionale:
“Preferisce il Ballantine... Il Civas o il Macallan?”
“Cos’é questo ‘Macmillan’?”domandò Luciano, mentre Massimiliano cominciò a contorcersi dalle risate.
“Macallan? E’ di sette anni...” tagliò corto la ragazza.
“E’ buono? Se è di sette anni, portamelo, per favore!”
“Allora un Macallan – annotò la ragazza sul taccuino delle ordinazioni –  e per i signori... Niente?”
“No... Loro vogliono mangiare subito... Il menù... Cara... Grazie.”
Monica fece per andarsene, ma Luciano la trattenne ancora:
“Mi raccomando il bicchiere, non di quelli col culo alto... Per favore!”
Massimiliano sghignazzò, rise anche Michele.
“Sì... Dico – chiarì Luciano – non un bicchiere di quelli... Come li chiamate voi? Sì... Col fondo alto!”
La ragazza restò impassibile. Si allontanò. Sui vent’anni, sotto il grembiule bianco s’indovinava un corpo armonioso. L’eco della sua voce argentina rallegrò tutti ancora per qualche istante.
Michele guardò Luciano e lo trovò in forma. Forse un po’ ingrassato da quando era tornato dal Brasile, ma il viso era disteso e i movimenti lenti e sicuri rivelavano un equilibrio ritrovato. Era venuto a cercarlo in quei luoghi, tra boschi di castagni e faggi d’alto fusto, dopo aver girovagato in lungo e in largo per il vecchio e il nuovo continente. Dipingeva. Con pennellate larghe e cariche di materia così come aveva appreso dal suo maestro argentino. In realtà danzava sulla tela come per anni aveva fatto sul palcoscenico ma con minore abilità.
 [pp.127-129]  

Dopo il pranzo, Luciano chiese ancora un whisky. Massimiliano guardò suo padre come per ricordargli qualcosa.
“Luciano – disse Michele – Massimiliano vuole sentire da te i racconti del Brasile.”
“Racconti?... Quali racconti?”
“Tutto ciò che hai detto a me!”
“Ah!...Va bene... Cosa vuoi sapere in particolare?” chiese rivolto a Massimiliano.
“Non so... papà mi ha parlato di magie e di spiriti…”
“Si riferisce ai riti dei candomblès e delle macumbas.” suggerì Michele.
“Mi sta bene qualsiasi cosa – riprese Massimiliano, infastidito dalle precisazioni del padre – è tanto che non ci vediamo e ho proprio voglia di sentirti parlare, di ascoltare le tue avventure.”
“Grazie… Grazie” disse Luciano sensibile, come sempre, alla gentilezza. […]

Trasse un sigaro dalla scatola e lo battè a lungo sul tavolo prima di infilarlo in bocca. Lo accese, ne aspirò il fumo e fu pronto a narrare per l’ennesima volta il ‘suo’ Brasile.
“La prima volta che ebbi contatto con questi riti – chiamiamoli magici – fu  poco dopo il mio arrivo a Rio do Janeiro... Ero sbarcato a Rio, dopo un viaggio avventuroso che comportò la sosta forzata all’isola del Sale, per un guasto al motore dell’aereo. Bisognò aspettare il pezzo di ricambio. Ci vollero tre giorni.
A Rio, debuttai al Nigth and Day, sotto l’Hotel Sheraton. Trovai una pensione a Copacabana. Non era niente di speciale, ma aveva una splendida vista sul mare.
Fu qui che sentii parlare di spiriti. C’era un tale che nella sua camera faceva sedute spiritiche. Di notte era tutto un viavai… Anche nella mia stanza, di notte, vedevi un bel traffico... Non di spiriti, però, ma di scarafaggi!”
Michele e Massimiliano risero. Luciano ne approfittò per sorseggiare il suo whisky.
“Voi ridete... Se li aveste visti! Certi personaggi! Gialli e marroni, grossi e cascuti con delle lunghe corna...”
“Cascuti?!” lo interrogò Massimiliano.
“Sulla testa – chiarì Luciano – avevano una specie di casco, una corazza, che so... Il più bello fu quando ne parlai alla proprietaria della pensione...
Estas baratinhas, boazinhas, bonitinhas?! Ah... Sono innocui... Non vi daranno fastidio... Non fateci caso!’
Ma torniamo ai riti magici. Alcuni sono folcloristici, fatti apposta per i turisti. Altri invece sono riservati agli adepti del candomblé. Il mio primo contatto fu durante una festa in onore degli orixas... Questi spiriti venuti dall’Africa e sincretizzati coi santi cattolici.
Se vedeste! Per più di dieci chilometri la spiaggia di Copacabana, lungo l’Avenida Atlantica, si riempie di tende e la gente del popolo e anche della borghesia media e alta fa la fila per parlare con la mãe de santo o il pai de santo, perché ogni orixa ha la sua tenda con un sacerdote o una sacerdotessa. Sono lì per liberare da ansie malattie fluidi negativi... A ciascun orixa è associato un colore, un giorno della settimana, un elemento della natura, un santo.
Il fedele conosce bene il suo orixa protettore ed entra nella tenda giusta. La mãe o il pai preparano per i credenti collane di perline colorate. Bianche per Oxala... Azzurre per Imanja... Rosse per Iansa... Verdi e gialle per Oxumaré... Che più?... Bianche e nere per Omulu e così via...
In più – come vi dicevo – ognuno di questi spiriti è sincretizzato con un santo cattolico. Il ‘mio’ Oxosse altri non è che San Giorgio!
Tutto bene... I fedeli si mettono in fila e uno dopo l’altro entrano sotto la tenda. Qui trovano la mãe de santo che li depura. In lei è sceso uno spirito e parla con voce diversa, un portoghese arcaico e incomprensibile. La donna ‘sgrulla’ via dal corpo del credente i fluidi negativi, gli dà consigli e gli offre erbe misturate per la cura delle malattie...” […]
  
“E’ il luogo per il culto del Candomblé… ‘Grazie... Grazie – le dissi – di questi posti ne ho visti tanti!’
Nel risponderle, ricordai un’amica che mi aveva portato da una macumbeira. Dopo aver pagato e fatto la fila, ero entrato in una stamberga dove una vecchia negra, indicando una sedia sgangherata, mi aveva accolto a parolacce:
O filho da puta que você tem, aqui quê esta fazendo? Que você quer?’
L’amica mi spiegò che la macumbeira non ce l’aveva con me, ma con ‘le larve’ che infestavano il mio corpo. Nondimeno, pagare per farmi dare del ‘figlio di puttana’, mi sembrò troppo!
Muito obrigado!’ feci. Mi alzai e me ne andai...”
Massimiliano tornò a sghignazzare.
“Ti dava del ‘figlio di puttana’ e tu la ringraziavi?” osservò tra le risate.
“Non ti preoccupare... ‘Vaffanculo’ le dissi, prima di ringraziarla.”
Rise anche Michele, benché avesse già ascoltato quella storia.
“La mia padrona di casa – proseguì Luciano – mi guardò negli occhi e mi disse:
Você não tem com que se preocupar… O lugar onde lhe trago é especial!
‘No – insistevo io – non voglio finire nelle macumbe!’
La signora mi assicurò che non era quella la sua intenzione...”
Luciano chiarì che la macumba era, in origine, uno strumento musicale africano, fatto di un tronco cavo di bambù a tagli trasversali. Usato nei rituali, solo più tardi designò le cerimonie in onore degli orixas, rappresentando la parte magica e divinatoria dei riti del Candomblé. Col tempo, macumba significò sempre più magia nera, rivolta soprattutto ad attirare il male sugli altri.
“Nelle encruzilhadas  di Rio vedi spesso torte con candeline e polli fritti... Sono le offerte a Exu, signore della macumba... Non devi avvicinarti né toccarle perché scateneresti l’ira di Exu. E’ questi il messaggero degli orixas e nessuna magia può cominciare senza il suo favore. Exu ama la confusione, la trasgressione, la lite. Beve cachaça e si esalta soprattutto nel Carnevale. E’ sincretizzato col diavolo... Che vada anche lui nella sua pace!”
Segnandosi, Luciano vuotò in gola quel che restava del suo whisky.
“Tutto bene – riprese – tanta fu l’insistenza della mia padrona di casa che mi convinsi ad andare. Mi condusse alla periferia di Rio, in un centro espirita di un vastissimo terreiro.…O sete da libra, mi pare si chiamasse.
Entriamo in una specie di tempio… Una lunga sala con grandi tavoli, disposti l’uno accanto all’altro in forma di cerchio… Prendiamo posto… Tutti cantano e bevono.
Dalla scalinata in fondo alla sala vidi scendere una mãe de santo. All’ultimo scalino, in corrispondenza di uno dei tavoli, la mãe balzò sul legno e prese a camminarci sopra. Fece il giro fumando e spruzzando cachaça in faccia ai presenti. Mormorava parole per me incomprensibili. Per tre volte ripeté il giro intero dei tavoli, allontanandosi infine per la scala da cui era discesa.
Quando fu il mio turno, salii le scale del tempio e per una porticina entrai in un’altra sala. La mãe e le filhe de santo   mi accolsero cantando...
Aonde está italianinho? chiese la mãe. Avanzai sino ad un tavolo rettangolare attorno al quale sedevano le donne. La mãe... La stessa che, poco prima, mi aveva spruzzato di cachaça,  si alzò in piedi, afferrò un coltello e lo lanciò sul tavolo. La lama si conficcò nel legno perpendicolarmente e il coltello cominciò a oscillare. L’oscillazione aumentò sotto le dita della donna, ma la lama non si mosse... La máe de santo mi disse sorridendo:
Muito bem,  meu filho!’ 
Mi fece sedere accanto a lei e mi sbuffò addosso il fumo di una pipa. Le filhe de santo rivestirono il tavolo di una tovaglia candida. Vi posarono sopra tre candelabri con candele gialle e un piatto d’argento con tante piccole conchiglie ancora bagnate. La mãe le raccolse nel cavo delle mani bisbigliando parole per me incomprensibili e le lanciò in aria. Osservò il disegno tracciato sulla tovaglia e pronunciò la sentenza:
Está claro... Tudo bem... O caminho é aberto... Meu filho... Não tem que recear... Vai com Deus!.
Non ci crederete! Dopo neanche una settimana, Nino, che era stato il mio assistente nel Corpo di ballo della televisione paulista, mi fece sapere che un impresario di San Paolo voleva vedermi. Era questi il rappresentante della Rodiatoce per tutto il Brasile.
  
  “In questo periodo, l’ultimo della mia permanenza in Brasile, feci amicizia con una mãe de santo. Bernadette si chiamava ed era ignorante – poveretta – come una scarpa da soldato dopo quaranta chilometri di marcia...”
“Come sarebbe?!” chiese divertito Massimiliano.  
“Sì... Era tanto ignorante, però di una bellezza interiore... Una benefattrice e tutti la cercavano […]
  [pp.130 e ss.]

Da quando era tornato dal Brasile, Luciano insegnava danza nell’Accademia di Paolo Gozlino e montava coreografie per i rari spettacoli di balletto. Di Gozlino, Luciano era stato amico e maestro, più bravo di lui nella danza certamente meno fortunato per la qualità e la durata del successo.
Michele li ricordava insieme, per l’ultima volta, in una tavolata di campagna davanti al fuoco del caminetto tra bruschette e fettuccine fatte in casa, cinghiale con polenta bianca tagliata a filo, baccalà alla brace, salsicce in brodo di lenticchie e vino rosso nei bicchieri. Sul finire qualcuno aveva posato sul tavolo un vassoio di ricotta fresca. Bastò perché Luciano evocasse tra le risate dei presenti le cene di ricotta e caffellatte che avevano angosciato la sua infanzia, perché Paolo Gozlino ricordasse ai più giovani commensali il cibo del tempo di guerra.
“In tempo di guerra si mangiavano solo patate!”affermò Luciano.
“C’era pure la vegetina!” gli fece eco Paolo Gozlino.
“L’esimio professor Luciano Luciani – continuò Gozlino tra le risate – potrà magnificare a tutti il sapore di quell’impasto di cemento, gesso e polvere da sparo che era la vegetina...”
“Dimentichi che, nell’impasto, c’erano pure le bestemmie di strega” osservò Luciano ridendo.
“Ci chiamano rocce – riprese Gozlino – perché siamo stati costruiti col cemento armato della vegetina...”
“Quando l’avevi mangiata – gli fece eco Luciano – volavi tra gli effluvi e le nuvole, sempre più leggero, come un angioletto...”
Battute da vecchi guitti o da artisti che avevano il palcoscenico nel cuore e che lo avrebbero avuto sino alla morte? 
Nell’agosto del ‘92 Paolo Gozlino scomparve. Michele accompagnò Luciano alla camera mortuaria dell’ospedale di Ronciglione. Fuori della porta, mestamente seduta su uno sgabello c’era la moglie, la ballerina viennese Elena Sedlak. Il funerale di qualche giorno dopo fu l’occasione di un ‘come eravamo’ tra vecchi artisti.
La Stampa nel dare notizia della morte di Gozlino non esitava a definirlo, nei titoli di pagina, ‘il più celebre danzatore della nostra rivista’. Sui quotidiani si parlava di lui come del Gene Kelly del varietà italiano. Se ne ricordava l’inizio della carriera con Dapporto e i successi ottenuti con Macario, Tognazzi, Bramieri e Dorian Gray.
Era crollato mentre allestiva uno spettacolo a Genova, lui, ‘la roccia’, come scherzando aveva detto a Luciano qualche mese prima.
Luciano pareva improvvisamente invecchiato e nei giorni seguenti sembrò toccato dall’ala della melanconia, forse nostalgia dell’amico scomparso, forse rimpianto di un mondo dal quale s’era staccato da tempo ma al quale era rimasto legato come per invisibile cordone ombelicale.
Michele faticava non poco a riconoscerlo sotto quei panni inconsueti, lui che nei momenti di depressione cercava nell’amico l’arguzia e il buon umore, la bontà e la vasta gamma degli interessi, sicuro ogni volta di ritrovarli intatti.
C’era in Luciano – mi fece notare Michele – un’autenticità non comune. Ti ascoltava con disponibilità in ogni momento ed era pronto a farti considerare il lato buono delle cose e delle persone, anche se per trovarlo avresti inutilmente rigirato le une e le altre.
Se un difetto si fosse voluto trovare in lui, era il bisogno di trovarsi sempre al centro dell’attenzione. Limite abbastanza comprensibile in un uomo che per tanti anni aveva calcato il palcoscenico e che, a pensarci bene, non era neanche un limite per la vitalità che riusciva comunque a trasmetterti.
Col passare dei mesi la melanconia si mutò in tetraggine vera e propria. Luciano s’era fatto permaloso e parlava di tornare in Brasile o di rifugiarsi in un monastero, quasi si trattasse di scelte equivalenti. Bisognava aspettare che gli tornasse il buon umore. E la vita con i suoi piccoli e grandi entusiasmi sarebbe tornata a pulsare in lui, spirito raro da incontrarsi in mezzo al mondo.
[pp.207-209]


Di seguito una breve galleria di foto che dà solo in minima parte la cifra dell’impegno artistico di Luciano Luciani.

La coreografia e la danza





















































IL TEATRO [Giulietta e Romeo, Il mercante di Venezia ecc...] E IL CINEMA


















LA PITTURA












Tutti coloro che siano in possesso di materiale sull’impegno artistico di Luciano Luciani e siano disposti a renderlo pubblico sono pregati di scrivere al mio indirizzo e-mail:

Segue il video YouTube della Sfilata di moda ecclesiastica dal film Roma di Federico Fellini. Luciano Luciani presenta il modello: “Variazioni sacristianesche per cerimonie di prima classe”









sergio magaldi














giovedì 3 maggio 2012

VOTARE SCHEDA BIANCA IN DEMOCRAZIA E' REATO? L'interrogativo in "Saggio sulla lucidità" di J.Saramago



 Sembrerebbe proprio un reato votare scheda bianca, agli occhi di chi gestisce il potere nel paese democratico immaginario, descritto dal premio Nobel, José Saramago, in Ensajo sobre a lucidez [Saggio sulla lucidità], il romanzo del 2004 ripubblicato nell’Universale Economica Feltrinelli alcuni mesi fa [Milano, 2011, pp.302, euro 9,50].

 Il segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:

Sarebbe stato preferibile rinviare le elezioni” è l’osservazione del rappresentante del p.d.m. [Partito di mezzo o di centro], mentre il rappresentante del p.d.d. [Partito di destra] si limita ad annuire e quello del p.d.s. [Partito di sinistra], se non fosse stato trattenuto dall’improvviso arrivo di un membro del seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago – che non avrebbe mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo storico, con una frase come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono persone che non si intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a casa per quattro misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[pp.11-12]

 La pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai seggi ma, al termine dello scrutinio il risultato è imbarazzante, con meno del 25% di voti validi così ripartiti: 13% alla destra, 9% al centro, 2,5% alla sinistra. Pochi i voti nulli e le astensioni, tutto il resto, più del 70% al fantomatico partito della scheda bianca.

 La ripetizione della tornata elettorale non ha miglior esito, al contrario: destra 8%, centro 8%, sinistra 1%, zero nulli e astenuti, 83% schede bianche.

“Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”[p.39].

  A nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino ad allora il ministro della difesa, di convincere “i degenerati, i delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i propri errori e implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una nuova tornata elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in massa a purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere mai più”[p.57].

 La questione posta da Saramago, per quanto paradossale possa sembrare, pone inquietanti interrogativi sull’esercizio del potere in una democrazia rappresentativa. Un partito delle schede bianche del 70-80% forse non è ipotizzabile perché, se lo fosse, significherebbe che la maggioranza dei cittadini ha preso coscienza che la democrazia si è trasformata in partitocrazia, il regime democratico in una dittatura oligarchica e tirannica, e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera di una rivoluzione. Situazione paradossale quella prospettata da Saramago ma pur sempre possibile. La questione che interessa è però un’altra: in simili circostanze qual è la risposta che uno stato democratico deve dare per evitare che il partito delle schede bianche impedisca il retto funzionamento delle istituzioni democratiche, gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta non è certo quella che Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente sarcasmo, anche se non è difficile immaginare che in una situazione concreta sarebbe l’unica ad essere adottata nelle nostre democrazie occidentali, più rispettose delle forme che della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il contratto sociale”? Chi lo spirito liberale che è alla base della rinuncia alla sovranità individuale? L’unica risposta possibile di fronte ad una forma così vasta di dissenso, sarebbe quella che il potere si facesse da parte per riscrivere da capo le regole del patto tra i cittadini. 

La vera soluzione del problema lo scrittore portoghese la testimonia attraverso le figure che resistono, che si oppongono, non importa con quali risultati, allo scempio della democrazia, alla sua trasformazione in dittatura oppressiva e terroristica di chi controlla il potere e non intende lasciarlo. La strategia sarà a questo punto quella di sempre: scioperi ad oltranza gestiti da agenti al servizio del governo per rendere più difficile la vita dei cittadini, stragi di stato con centinaia di morti e feriti per imputarne la responsabilità agli “amici della scheda bianca”, limitazioni delle libertà, ”caccia alle streghe” nei confronti di chiunque sia sospettato di diffondere il verbo dei sovversivi, incitamento alla delazione e stato di polizia. Quindi il tocco finale, con l’individuazione di una persona fisica responsabile di tutti i mali del paese. E la trovata di Saramago si fa qui amara e intrigante.



 













                   

                                        


 In un romanzo precedente, Cecità [Universale Economica Feltrinelli, 2010, pp.276], da cui nel 2008 fu tratto un film per la regia di Fernando Meirelles, lo stesso paese qualunque di cui si parla oggi a proposito delle schede bianche, fu colpito da una terribile epidemia che consegnò all’improvvisa e temporanea cecità bianca [non la notte fonda ma una coltre di nebbia caratterizzò questa forma di cecità] tutti i suoi abitanti, tranne una donna, moglie di un oculista. Non potrebbe esserci un nesso tra quanto avvenne quattro anni prima e quanto avviene oggi? È la tesi che un cittadino, testimone dei fatti, espone in una lettera inviata al presidente della repubblica:

 “[…] Avendo letto con la dovuta attenzione il manifesto che ella ha indirizzato al popolo […]credo, come lei, signor presidente, che un qualche nesso dovrà esserci fra la recente cecità di votare scheda bianca e quell’altra cecità bianca che, per alcune settimane che non sarà possibile dimenticare, ci ha estromessi da tutto il mondo. Voglio dire, signor presidente della repubblica, che la cecità attuale potrebbe forse spiegarsi con la prima, e tutte e due, forse, con l’esistenza, non so se pure con l’intervento, di una stessa persona[…]” [p.173].

 Appena superfluo aggiungere che da questo momento il potere cercherà con ogni mezzo di costruire le prove della “colpevolezza” della donna, l’unica rimasta a “vedere” in un paese di ciechi, l’unica che era stata capace di aiutare gli altri.

 I due romanzi di Saramago mi sembrano quanto mai attuali, mentre in Italia siamo alla vigilia di una competizione elettorale che vede la maggior parte dei partiti alla caccia di voti, gli stessi partiti che da decenni fanno scempio di denaro pubblico e che nella loro cecità hanno permesso che il paese precipitasse in una crisi economica, politica e di costume dalla quale non sarà tanto facile uscire.

sergio magaldi