lunedì 12 agosto 2013

OGNI ANGELO E' TREMENDO



 Con questa autobiografia che tratta soprattutto dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, Susanna Tamaro torna a parlare dell’argomento che è sempre stato centrale nei suoi racconti: il proprio “io”. Già, perché anche nel suo libro più bello e che comunque nel 1994 le ha dato il successo letterario, Va’ dove ti porta il cuore, la Tamaro, in meno di 190 paginette, racconta se stessa sottoforma di un romanzo epistolare scritto da Elsa, la nonna materna di famiglia ebraica convertita. Ma cosa raccontava allora di sé? Non fatti realmente accaduti ma vicende, anche tragiche, che avrebbero potuto far parte della sua vita ma che ha solo immaginato in virtù di una sorta di autoanalisi che ha portato alla luce  pezzi significativi del suo inconscio.

 A quasi vent’anni di distanza, Susanna Tamaro sembra quasi divertirsi nel ricordo dei fatti narrati allora, ma al tempo stesso dichiara un po’ enfaticamente che “Va’ dove ti porta il cuore – titolo ben scelto per quegli anni in cui i giovani, dopo la lunga e deludente stagione della politica, tornavano a fare i conti con se stessi e con i propri sentimenti – è la storia della ricerca del proprio sé più profondo” [Op.cit.,p.139,ed. Mondolibri].





  Ma raccontare la ricerca del proprio “sé”, riuscendo a farsi ascoltare dagli altri, anche mediante la trasposizione cinematografica della storia narrata [Si veda il film di Cristina Comencini del ‘95], è solo un modo per far parlare un “io” dotato di grande personalità.





  Per di più se questa ricerca si riveste di falsi eventi autobiografici capaci di toccare le corde più sensibili dell’animo di chi legge. Una “mistificazione” letteraria che richiede molto sangue freddo da parte di chi scrive ma anche indubbio talento. È il caso di Susanna Tamaro, della sua scommessa vinta nei confronti di una critica letteraria sempre più convinta che per scrivere del proprio “io” bisogna essere almeno come Marcel Proust e/o che, come annota la scrittrice in Ogni angelo è tremendo, un romanzo debba essere la trascrizione, più o meno fantastica, di fatti realmente accaduti:

 “Il grande abbassamento culturale degli ultimi anni – unito alla carica di giornalisti che hanno invaso il campo con le loro storie vere in forma di romanzo – ha stravolto il ruolo della letteratura, facendo credere a molti che un libro altro non sia che una trascrizione di un fatto realmente avvenuto.
 Quante risate abbiamo fatto con mia madre!
 Capitava spesso infatti, nelle situazioni più impreviste, quando lei svelava di essere mia madre […]che qualcuno esclamasse:”Ma come? Non è morta?” E lei naturalmente faceva scongiuri di ogni tipo. Mia madre, infatti, era figlia di mio nonno e non il frutto di un adulterio, mentre io non sono stata affatto allevata da mia nonna. Quando già vivevo a Roma, passavamo le vacanze estive insieme e non perché era mia nonna, ma perché eravamo anime affini e stare vicine ci rendeva felici. [Ibid.]





 In Ogni angelo è tremendo, titolo preso in prestito dalle Elegie Duinesi del poeta R.M. Rilke, la scrittrice ripropone la propria singolarità, ma questa volta la fa deliberatamente e senza trucchi, parlando in prima persona. Anche così, tuttavia, “mistificazione” e talento hanno modo di emergere, nel prospettare di sé una personalità controcorrente e speciale, tra gli incubi visionari e l’insonnia dell’infanzia, il narcisismo di una precoce sofferenza, “il lungo training ascetico” che dichiara di aver percorso naturalmente dall’infanzia alla giovinezza fino alla consapevolezza di “Non attaccarsi a nulla/Non desiderare nulla/Non attendersi nulla/Sapere di essere nulla” [Op.cit., p.197] e tutto senza bisogno di libri di ascetica e di maestri spirituali! E ancora, l’atarassia come forma di difesa della seconda infanzia e la percezione dell’impermanenza già nella prima adolescenza:

 “Risale a quell’epoca l’affacciarsi, nei miei pensieri, di una nuova categoria mentale, quella del vuoto. Prima una cosa c’era, poi non c’era più.” [p. 43]

 Così, non potendo rispondere alle tante domande metafisiche, ai pensieri rivolti verso l’alto, era quasi inevitabile che finisse per volgere il proprio sguardo in basso. Non certo all’uomo, che sarebbe stato deludente e anche poco originale, ma al regno della natura: sassi, semi, fiori, cristalli e animali. Con la scoperta che la vera bellezza non era quella estetica ma quella segreta delle leggi geometriche, fisiche e chimiche in grado di mettere ordine nel caos apparente dell’universo.

 Nondimeno, in questa ostentata descrizione di sé e della propria originalità, indispensabile per ogni autobiografia che pretenda di farsi leggere, Susanna Tamaro è capace di regalarci pagine di raffinata arguzia, ancorché amara, sui propri familiari, come nel caso della zia Marisa, morta in giovane età – per un male incurabile e misterioso, si diceva in famiglia:

 “Tornando a casa per le vacanze di Natale, Marisa si era fermata un paio di giorni a trovare la sua vecchia amica. Lì […] le era esplosa una brutta influenza, così aveva chiamato il padre chiedendogli di poter rimanere a Venezia fino a quando non si fosse sentita meglio. Ma il padre, uomo inflessibile […] non ne aveva voluto sapere. “Il Natale si passa in famiglia! A questa regola non esistono eccezioni!”
 Così, seppure molto malata, Marisa dovette mettersi in viaggio da Venezia a Trieste con la bora, con il ghiaccio, con i treni del 1936. Arrivata a casa, prese parte al pranzo natalizio – che cosa festeggiassero non è chiaro, visto che erano tutti dei feroci anticlericali – e si mise a letto. Qualche giorno dopo, in quello stesso letto, passò dal sonno alla morte.
 Era sola in casa, il padre era uscito per andare al caffè e la madre a incontrare delle amiche. Rientrati all’ora di pranzo, trovarono il suo corpo ormai freddo. Il morbo misterioso, il fato maligno, alla fine, non fu probabilmente altro che una polmonite.” [p.54].

 Oppure parlando della professione di suo padre, nei ricordi di quando era ancora una bambina, o intuendone le aspettative quando più grande lo raggiunge a Roma:

 “[…]mio padre si mise in affari con un lestofante pseudo armatore e insieme a lui escogitò alcune operazioni truffaldine di sicuro e facile guadagno. Peccato, però, che non fosse affatto furbo, né avesse quell’abilità levantina del lato materno della mia famiglia. Tra il Gatto, la Volpe e Pinocchio, lui sarebbe stato sicuramente Pinocchio. Seppellì gli zecchini dove gli aveva suggerito il socio e rimase in attesa che crescesse l’albero di monete d’oro, per poter passare il resto della vita nel Paese dei balocchi. Ma, al posto dell’albero, crebbero soltanto guai.
 Un giorno si trasferì a Milano. Che lavoro facesse, però, restò un mistero. Ricordo il mio smarrimento davanti al primo terribile tema: Il lavoro di mio papà. Quel pomeriggio, raggiunsi mia madre in cucina con il quaderno in mano e chiesi: “Il papà, che lavoro fa?” Lei guardò a lungo nel vuoto e poi, con un sospiro, mormorò: “Il procuratore”. […] Se un procuratore è stato mai mio padre, è stato un procuratore di guai.” [p.90]

 […] ormai ero grande e non ci sarebbe stato bisogno di occuparsi di me. Anzi, in fondo al suo cuore […] sperava che sarei stata io ad occuparmi di lui […]Lui sperava che, come Biancaneve, mi sarei messa a spazzare cantando, immersa in un mare di bolle e che avrei preparato manicaretti il cui profumo si sarebbe propagato fino all’ingresso del palazzo, io invece speravo di trovare finalmente un padre.
 Ci deludemmo a vicenda.” [p.223]





  Insomma, una narrazione che si legge di un fiato e senza annoiare, con notizie anche interessanti per chi non le conosca ancora, come il fatto che Italo Svevo [il cui vero nome era Ettore Schmitz] – con cui condivide il segno astrologico del Sagittario e il patrimonio genetico di due antenati, Abramo Moravia e Sara Levi – era suo zio e che alcuni personaggi della Coscienza di Zeno si ritrovano in Va’ dove ti porta il cuore. Non mancano gli “effetti speciali”, nel desiderio di stupire il lettore, come nel sogno dei biscotti in forma di lettere ebraiche [strumento didattico per imparare a leggere e scrivere, noto a chiunque abbia una minima informazione sulla cultura ebraica]  o come nell’episodio divertente in cui la Tamaro accenna alla Massoneria e al matrimonio dei suoi genitori, annullato dalla Sacra Rota.

 “[…] Com’era possibile, infatti, mi domandavo, annullare un matrimonio dal quale erano nati ben tre figli?
 Andai così a trovare quello che sapevo essere uno dei testimoni della causa di annullamento […] mi disse, ‘mi ero preparato a dire ciò che pensavo che volesse sentire da me, che peraltro era la verità. Gli avrei detto che era un uomo inaffidabile da tutti i punti di vista, dedito al bere, estremamente promiscuo, insomma un vero disgraziato, ma, appena aprii bocca, monsignor Milioni mi fece cenno di tacere.’
 ‘Non voglio sapere niente. Mi dica una sola cosa: è massone?’
 ‘Sì, lo è, risposi.”
 La Sacra Rota emise così il suo verdetto.” [p. 169].


 In conclusione, un romanzo autobiografico utile a chiunque voglia riflettere su se stesso e/o dare un senso alle tappe e ai ricordi della propria formazione, un monito utile a non considerare la vita come possesso, ma come cammino: le due condizioni dell’esistenza tra le quali siamo costretti a scegliere.

sergio magaldi





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