sabato 31 agosto 2013

LE SEI REINCARNAZIONI DI XIMEN NAO



 Le Sei Reincarnazioni Di Ximen Nao è un grande romanzo. Le edizioni Einaudi lo hanno riproposto nella traduzione di Patrizia Liberati, dopo l’assegnazione dell’ultimo Nobel per la letteratura [2012] al suo autore, lo scrittore e sceneggiatore Guan Moye, più noto come Mo Yan, che in cinese significa “Non voglio parlare”. La scelta di questo pseudonimo l’ha chiarita lo stesso Guan Moye in una recente intervista, fornendo una triplice motivazione. L’una di carattere personale e piuttosto ingenua, ancorché legata alla sua ambizione letteraria: “Ho scelto uno pseudonimo perché molti scrittori famosi sono diventati tali proprio con uno pseudonimo”. L’altra di carattere familiare, legata ai ricordi di quando era ragazzo, alla sua abitudine di parlare molto e ai continui moniti dei genitori: “Ma non puoi evitare di parlare, non puoi far finta di essere muto?”. La terza, infine, forse la più interessante delle tre, di rilevanza politica. Dichiara infatti: “Durante la Rivoluzione culturale se si parlava troppo e si dicevano cose sbagliate le conseguenze non erano piacevoli per sé e per la propria famiglia”.







  E invece, malgrado lo pseudonimo o proprio in forza di questo, Mo Yan non ha fatto che parlare attraverso romanzi e sceneggiature. E questo non gli ha impedito di diventare una sorta di fiore all’occhiello del governo cinese. Mo Yan, però, è tutt’altro che uno “scrittore di regime”. Benché abbia ancora di recente speso parole per difendere la censura nel suo Paese che, come in ogni stato totalitario, grava anche su cinema e letteratura, egli non ha mai smesso di scrivere liberamente né di utilizzare l’ironia e la satira nei confronti del regime che da più di sessant’anni controlla il potere in Cina. Al lettore incredulo basterà leggere qualche pagina di questo stupendo romanzo  per rendersene conto.






 Le Sei Reincarnazioni Di Ximen Nao [il cui titolo originario in cinese è Sheng si pilao, "La fatica di vivere"] è qualcosa di più di un romanzo epico. Narra le vicende di una famiglia contadina, dal 1950 al 2000, in una prospettiva storica capace di render conto dei grandi mutamenti sociali che, quasi senza soluzione di continuità, hanno caratterizzato la Cina nell’arco di oltre mezzo secolo. Eppure, la narrazione si svolge in un villaggio a nordest di Gaomi. E proprio nella provincia dello Shandong, a Gaomi, di fronte al mar Giallo, il 17 Febbraio del 1955 nasce Mo Yan da una famiglia di contadini poveri. Non desta perciò meraviglia la perizia con cui lo scrittore descrive la vita dei campi, il rapporto uomini-animali, i soprusi di un potere locale, specchio di un potere centrale costretto a misurare l’ ideologia con la fame ancestrale e l’analfabetismo di un popolo oppresso per secoli da un feudalesimo bellicoso, corrotto e crudele.






  Il romanzo è pervaso di una sorta di realismo magico che fa da contrappunto ad un linguaggio spesso sin troppo crudo e naturistico, dove tuttavia s’intuisce una densità metafisica che sorregge il tutto e sembra giustificare gli avvenimenti e la sorte degli individui, appartengano questi al regno umano, animale, vegetale o minerale. Non a caso Mo Yan introduce la narrazione con le parole del Buddha: “Dice il Buddha: ‘La fatica di vivere nasce dall’avidità e dal desiderio. La rinuncia e la non-azione pacificano l’anima e il corpo’ ”.





 Così è per Ximen Nao, il latifondista da cui prende il nome il villaggio a nordest di Gaomi, giustiziato per le sue colpe vere o presunte dai comunisti locali. Finché il suo animo non sarà pacificato, liberandosi di ogni risentimento, sarà costretto a reincarnarsi in forme animali e a vivere negli stessi luoghi in cui aveva già vissuto come incontrastato signore e ricco proprietario terriero: asino, toro, maiale, cane, scimmia e solo con la sesta reincarnazione tornerà finalmente uomo. Di nuovo al cospetto di Re Yama, dei suoi demoni e giudici, prima della terza reincarnazione, l’anima di Ximen Nao fa inutilmente le sue rimostranze al Signore della vita e della morte:

 “Abbandonate le spoglie del toro, la mia anima tenace rimase a volteggiare nel cielo sopra il campo di Lan Lian. Anche la mia esistenza di toro era stata tragica. Re Yama aveva pubblicamente decretato che, dopo essere stato asino, mi sarei reincarnato in un uomo e invece ero uscito dalla pancia della mucca dalla coda di serpente. Ero ansioso di confrontarmi con lui per accusarlo di essersi preso gioco di me, tuttavia non riuscivo a distaccarmi dalla terra di Lan Lian e a lungo sostai lì sopra. Vidi il cadavere del toro ridotto una poltiglia di carne e sangue; Lan Lian che piangeva di dolore con la testa vicina a quella del toro; mio figlio Jinlong dal fisico imponente con un’espressione ebete sul viso; il “piccolo Lan Lian”, figlio della mia concubina Yingchun […]. Dopo che l’anima si fu distaccata dal corpo, i ricordi della bestia si dileguarono e la memoria di Ximen Nao tornò a farsi viva. Ero stato un brav’uomo che non meritava di morire, invece mi avevano fatto fuori a colpi di fucile; persino Re Yama non poteva fare a meno di riconoscere che ero stato ucciso ingiustamente […]:
- È vero, l’hai detto, c’è stato un errore, e allora che vogliamo fare? Io non ho l’autorità per farti rinascere come Ximen Nao; ti sei reincarnato due volte e dovresti aver capito che l’era di Ximen Nao è finita da tempo […]
- Vostra altezza, - dissi affranto, in ginocchio sul freddo marmo del pavimento del palazzo del re degli inferi. – Sire, anch’io vorrei dimenticare il passato, ma non ci riesco. Quei ricordi amari mi stanno appiccicati addosso, come un ascesso che infetta un osso, come un batterio tenace. Quando ero asino mi ricordavano il risentimento di Ximen Nao e, come toro, mi impedivano di dimenticare l’ingiustizia che avevo subíto. Vostra altezza, i ricordi del passato mi torturano.
- Possibile che il decotto, per dimenticare l’anima, di comare Meng, mille volte più potente di un narcotico, non ti faccia nessun effetto? – chiese perplesso Re Yama” [pp.269-270].

 Già, perché a Ximen Nao capita ciò che, mutatis mutandis, accade ad Er nel famoso mito del X Libro della Repubblica di Platone. Lì, ad Er è impedito di bere l’acqua del fiume Lete che produce nelle anime l’oblio delle vite precedenti, qui è lo stesso Ximen ad evitare con uno stratagemma di bere la pozione di comare Meng che cancella ogni ricordo del passato. Le similitudini con la concezione platonica della metempsicosi non finiscono qui. Stesso il giudizio che attende le anime dopo la morte, con premi e castighi per i giusti e gli iniqui, ciò che si è soliti chiamare karma. C’è tuttavia una differenza sottile, ed è interessante notarla perché riflette la differenza tra la mente occidentale e quella orientale. Ximen non “si sceglie” come asino, né come toro o maiale. La sorte gli viene assegnata dai giudici del mondo infero. In Platone, la responsabilità è di chi sceglie, non della divinità. In definitiva, tuttavia, il risultato non cambia, perché per il grande filosofo greco ognuno fa una scelta conseguente alla sua vita passata, così, per esempio, chi ha avuto motivo di soffrire a causa della propria debolezza, cercherà di reincarnarsi nella pelle di un leone…   




 Come asino e come toro, Ximen Nao è il fedele compagno di Lan Lian che, nella vita precedente, era stato un suo lavorante, ed è accudito da Yingchun, moglie di Lan Lian e sua ex-concubina. Non parlerò delle vicende, talora spassose, di cui egli si rende protagonista nella veste di animale che ricorda il passato di uomo, limitandomi solo ad accennare all’alleanza con il padrone nel respingere tutti i tentativi delle autorità locali del Partito per costringere Lan Lian ad entrare nella Comune. Appellandosi all’autorità del Presidente Mao e al prezzo dell’isolamento e delle canzoncine di derisione dei monelli, l’ex-lavorante di Ximen Nao resiste ad ogni pressione, pur di conservare il suo ruolo di lavoratore autonomo:

 “Il lavoratore in proprio è un ponte a un tronco solo,
  traballa ad ogni passo, tre volte fa su e giù,
  alla fine cade, affoga e non c’è più.
  La Comune Popolare è la strada per il cielo,
  il socialismo un ponte tutto d’oro,
  per sradicare la povertà e seminare prosperità.
  Lan Lian, vecchio cocciuto,
  se rimani in proprio sei in un vicolo cieco.
  Una singola merda di topo può guastare una giara d’aceto […]” [p.140]    

Nell’opporre resistenza a minacce, sberleffi e lusinghe, Lan Lian si fa forte , di fronte ai dirigenti comunisti del villaggio di Ximen, delle parole di Mao e così risponde alle pressioni dei familiari che inutilmente cercano di convincerlo:

-      Ve l’ho già detto: dovrà essere Mao Zedong in persona a ordinarmi di entrare nella Comune. Lui ha detto:“Alle Comuni si accede volontariamente e se ne esce liberamente”: come possono obbligarmi? Sono forse più importanti di Mao Zedong? Io non mi rassegno:voglio proprio vedere se le parole di Mao Zedong contano qualcosa.” [Ibid.]


 E le parole di Mao contano, ma da sole non bastano, a Lan Lian occorrerà anche la protezione di un funzionario provinciale del Partito, che nel frattempo si è “invaghito” del suo asino, e che gli farà rilasciare uno speciale attestato per permettergli di continuare a lavorare in proprio. Ma con l’arrivo della Grande Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao nel 1966, neanche il “pezzo di carta” gli sarà sufficiente per proteggersi dalle guardie rosse. Riceverà la punizione, sottoforma di faccia dipinta di vernice rossa, ma continuerà, più testardo che mai, a rifiutarsi di entrare nella Comune, finché cessato il vento rivoluzionario, riprenderà il lavoro in proprio, raggiungendo risultati persino superiori a quelli della Comune.




Mo Yan descrive con ironia e garbato sarcasmo il periodo della Rivoluzione Culturale, come nell’episodio della vecchia venditrice di polli:

 “Durante la Rivoluzione Culturale nei mercati non c’era grande scambio di merci, e la gente si riuniva lì per godersi lo spettacolo. Era l’inizio dell’inverno, la maggior parte delle persone indossava giacche imbottite, e alcuni giovani portavano abiti sfoderati per seguire la moda. Sul braccio di tutti c’era una fascia rossa […]. Una vecchia venditrice di polli, tenendone uno per le zampe, stava davanti alla porta della cooperativa dei consumi, una fascia rossa al braccio. Qualcuno le chiese: - Zia, siete entrata anche voi nelle guardie rosse? – Lei rispose, facendo boccuccia: - La lotta rossa: come si fa a non partecipare? – Di quale fazione siete? Di quelli del ‘Monte Jinggang’ o della ‘Furia della Scimmia d’oro’? – Vaffanculo, non parlarmi di queste stupidaggini, comprami un pollo, altrimenti fuori dai piedi!” [pp.184-5].

  O nel parlare delle solette ricamate da Baofeng [figlia di Ximen Nao, così come Jinlong, il fratello che diventerà potente segretario del Partito a Ximen, nonché ricco imprenditore] per Chang, il capo del distretto, detto anche Primo somaro, di cui è innamorata:

 “Per le giovani delle nostre parti regalare solette ha il valore di una promessa di nozze. Erano ricamate con una coppia di anatre mandarine che giocavano nell’acqua. Dai fili rossi e verdi, dai mille punti e i diecimila fili del disegno delicato traboccava un affetto profondo. Il Primo somaro prese le solette dicendo: - Ti prego di dire alla compagna Lan Baofeng che anatre mandarine e farfalle rispondevano ai gusti capitalisti dei padroni; l’estetica del proletariato si esprime attraverso il pino, il sole rosso, l’oceano, le montagne, la torcia, la falce e la scure. Se deve ricamare, che ricami queste cose […]” [p.192].

 O ancora nell’illustrare la campagna “allevate suini in abbondanza”, di cui è testimone Ximen Nao, durante la sua terza reincarnazione come maiale:

 “Le foglie degli alberi di albicocche erano di un rosso cinabro, nel cielo non c’era una nuvola per diecimila miglia e presso l’allevamento suino degli albicocchi della Brigata di produzione di Ximen nel distretto di Gaomi si tenne la prima riunione della campagna “allevate suini in abbondanza” […] Per fortuna era una stagione morta per il lavoro agricolo, e nei campi non c’erano messi […] ma fosse anche stato il periodo dei ‘tre grandi compiti’ – arare, seminare, raccogliere – non sarebbe importato nulla, in quegli anni la politica era prioritaria e la produzione veniva dopo; allevare suini era la politica: la politica era tutto e il resto doveva dare la precedenza alla politica […] Hong Taiyue […]Disse: - Compagni membri della Comune […] spinti dal vento rivoluzionario, eleveremo il lavoro di allevamento suino a nuove vette. Ora alleviamo soltanto un migliaio di animali, dovremo allevarne cinque, diecimila, e quando sarete arrivati a ventimila andremo a Pekino a portare la buona notizia al vecchio Presidente Mao! […] Jinlong sul palco blaterava a ruota libera: - Dirigenti e compagni, in tutta onestà possiamo affermare che il mangime saccarificato da noi sperimentato ha riempito un vuoto in ambito internazionale. Per prepararlo utilizziamo foglie di alberi, erbacce e stoppie del raccolto, ossia ricicliamo queste sostanze trasformandole in ottima carne di maiale, per nutrire le masse e scavare la fossa all’imperialismo, al revisionismo, alla controrivoluzione… […] – Ogni maiale è un colpo di cannone lanciato contro la fortezza reazionaria dell’imperialismo, del revisionismo e della controrivoluzione… - urlava il funzionario agitando il pugno nell’aria, con un impeto da trascinatore di folle” [pp.306-308, 328 e 334].

 Nella sua quarta reincarnazione come cane, Ximen Nao diventa testimone di una contrastata storia d’amore tra il suo padrone Lan Jiefang [figlio di Lan Lian] già infelicemente sposato, e Pang Chunmiao, più giovane di lui di vent’anni. In realtà, Quartino è più il cane del figlio del suo padrone ufficiale e di sua moglie, l’ineffabile Huang Huezo che non ha mai amato il marito, ma che non intende concedergli il divorzio, manifestando tutta la sua rabbia con un messaggio pubblico, scritto col proprio sangue. L’antipatia che Quartino-Ximen Nao nutre per Jiefang non è solo dovuta al suo ruolo di guardiano e protettore della casa e della famiglia che la abita, si lega anche a motivazioni di carattere personale…

“Non stavi dormendo affatto, ti eri rintanato nello studio, e sulla scrivania avevi messo a bella posta una copia delle Opere scelte di Lenin. Un individuo dal cervello pieno di corrotte idee capitaliste come te che legge i lavori di Lenin? Puah! Uno dei soliti trucchi per evitare di dormire insieme alla mia padrona […] Memorizzavo il tuo odore, una base di angoscia acre mista a un sentore di fumo; quello di tua moglie, una tristezza acida coperta dall’olio rancido e dalla tintura di iodio; l’odore di tuo figlio, che era un miscuglio aspro e amaro dei vostri due odori, lo conoscevo da tempo. A Ximen, sarei riuscito a tirar fuori le sue scarpe dal mucchio, ad occhi chiusi. E tu osasti cacciarmi di casa, relegandomi nella stanza del carbone. Ma quale cane vorrebbe vivere nella casa degli uomini? Per sentire il tanfo dei vostri piedi, il fetore delle vostre scoregge, l’afrore delle vostre ascelle, il vostro alito puzzolente? Ma all’epoca ero ancora un cucciolo: avresti potuto tenermi in casa per una notte, sarebbe stato un gesto di bontà, però tu…! Tra di noi la faida iniziò allora.” [pp.533-34].  


 L’opposizione dei familiari di entrambi gli amanti, lo scandalo per il Partito, per il quale Lan Jiefang ricopre l’incarico di vicesegretario della cooperativa dei consumi, mostrano i pregiudizi e i tabù ancestrali di questo comunismo contadino, ma al tempo stesso rivelano la forza dirompente dell’amore… quando è vero! Mo Yan ci intrattiene in più di una pagina sulla passione che travolge Jiefang e Chunmiao, anche lasciando trapelare l’inesorabile legge karmica che, in un modo o nell’altro, prima o poi, si abbatterà su tutti i protagonisti della vicenda.

 “Nell’attimo del bacio, i nostri occhi erano aperti, così vicini… Le lacrime, le leccai, salate e rinfrescanti. Mia buona Chunmiao, perché? È un sogno, perché? Lan, fratello mio, sono tua, prendimi… Mi sforzavo di lottare, come l’uomo che mentre affonda cerca di reggersi a una pagliuzza di riso, ma non ci riuscii. Un bacio ci unì di nuovo e ci lasciò in fin di vita, il resto poi fu inevitabile.
 Ci sdraiammo abbracciati sullo stretto lettino da campo che non era troppo piccolo per noi. – Chunmiao, sorellina, ho vent’anni più di te, sono un mostro, ho paura di farti del male, meriterei di morire… - Farfugliavo in modo inarticolato. Lei mi accarezzava il viso, la barba a spuntoni. La sua bocca vicino al mio orecchio mi faceva il solletico; mi disse:
-       Ti amo…
-       Perché?
-       Non lo so…
-       Mi prenderò le mie responsabilità…
-       Tu non sei responsabile, è stata una mia scelta. Sarò tua cento volte, soltanto allora me ne andrò.
Ero un vecchio toro affamato davanti a un tenero filo d’erba.
Ben presto le cento volte furono consumate, ma ormai non potevamo più separarci.
Non volevamo che la centesima finisse mai. Lei mi accarezzava; piangendo disse: - Guardami bene, non dimenticarmi… “ [p.562].

 Non aggiungo altro. La bellezza di questo libro può essere gustata solo immergendosi nella lettura delle 730 pagine che lo compongono e il talento di Mo Yan va ben oltre i fatti che racconta e/o alcune delle motivazioni con cui gli è stato conferito il Premio Nobel: “Con realismo allucinatorio, egli è capace di fondere insieme fiabe popolari, storia e contemporaneità”.

sergio magaldi   

      

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