In uno stato di diritto la divisione dei Poteri –
legislativo esecutivo giudiziario – è, come si suol dire, sacra. In una
democrazia, tuttavia, che voglia evitare la paralisi, tali Poteri non
dovrebbero mai confliggere tra loro. Anche perché il risultato sarebbe proprio
il contrario del principio che si pretende affermare in punta di diritto: non
la divisione ma la confusione dei Poteri.
Può anche accadere
che in uno stato democratico, o che tale si dichiari comunque nei suoi principi
costituzionali, il prevalere di un Potere
dipenda dalla debolezza degli altri, dalla necessità cioè di supplire alle
loro inadempienze e manchevolezze. Ben più inquietante, la degenerazione di uno
dei Tre Poteri. Nel caso del potere esecutivo, il rimedio è a portata di mano,
bastando un voto di maggioranza dei rappresentanti del legislativo per porre
fine alla vita di un governo che abbia travalicato dai propri limiti, più arduo
il problema quando il sistema degenerativo tocchi uno degli altri due Poteri.
Per esempio, in un
paese in cui sia evidente la corruzione dei giudici e/o il loro atteggiamento
fazioso e persecutorio, quali rimedi si configurano da parte di esecutivo e
legislativo per porre fine al fenomeno? Pochi, perché in uno stato democratico sono
gli organi di governo della magistratura a dover intervenire nei confronti di
giudici corrotti o faziosi. Misure parzialmente efficaci possono essere quelle
preventivamente introdotte nell’ordinamento costituzionale, come la
responsabilità oggettiva dei giudici, la separazione delle carriere tra la
funzione inquirente e quella giudicante e soprattutto, anche se di difficile
attuazione, norme per scongiurare la progressiva formazione di una corporazione,
chiusa in se stessa e autoreferenziale. Il che presuppone, nella prassi
concreta, quantomeno l’esistenza di una classe politica illuminata capace di
supplire alle mancanze del potere giudiziario senza tuttavia sostituirsi ad
esso, perché in tal caso cesserebbe automaticamente di esistere lo stato di
diritto.
Va da sé che la
stessa cosa accadrebbe qualora la degenerazione riguardasse contemporaneamente
il potere legislativo e quello giudiziario perché, allora, diritto e democrazia
diverrebbero vuote formule e i cittadini sudditi sottoposti al capriccio e
all’arbitrio di una oligarchia politico-giudiziaria. In tale prospettiva, non
rimarrebbe al cittadino-suddito che appellarsi al cosiddetto Quarto Potere [mass media], sempre che questo abbia mantenuto
la propria autonomia e non sia stato fagocitato dal denaro e/o dalle manette
per i suoi rappresentanti più liberi e recalcitranti.
Bene, come in un
quadro già visto, anche il Terzo Potere occupa naturalmente il suo spazio, riprendendo
con più vigore di prima, in virtù del ruolo avuto nel recente passato e per le
esigenze del presente – in un Paese dove la casta della politica è sempre più al
servizio di se stessa, limitandosi, per ciò che riguarda l’Italia e i cittadini-sudditi
ad eseguire gli ordini di Bruxelles e Francoforte – , la sua giusta azione a
tutela della legalità. Può così avvenire che un magistrato, giustamente
preoccupato dall’inquinamento ambientale, sequestri un milione e settecentomila
tonnellate di acciaio prodotto dall’Ilva di Taranto del Gruppo Riva, il primo
nella siderurgia italiana, il secondo in Europa; che ordini il sequestro di 8,1
miliardi di euro nei confronti del Gruppo, tanto valutando il Gip la spesa per
“la mancata messa in opera delle strutture necessarie all’ambientalizzazione
dello stabilimento di Taranto” e che solo pochi giorni fa la Finanza di Taranto
proceda ad un ulteriore sequestro di circa un miliardo di euro, fra beni e
servizi, nei confronti della citata proprietà.
Per carità, i
provvedimenti saranno sicuramente tutti giusti e conformi alla legge, ma se fosse
vero che, in particolare il provvedimento di 4 giorni fa, impedirebbe al Gruppo
Riva, di disporre della liquidità necessaria per continuare a far funzionare i
7 stabilimenti del nord, dovremmo domandarci, alla luce di ciò che si diceva
prima a proposito della divisione dei Poteri in uno stato democratico, se non
sia intervenuta una misura del potere giudiziario tale da interferire nella
sfera di competenza degli altri poteri, considerando che la produttività
dell’acciaio, la salvaguardia di 1400 posti di lavoro e la relativa crisi di
aziende fornitrici che ruotano attorno alla produzione dell’acciaio attengono
alle competenze dell’esecutivo e del legislativo, insomma fanno parte
dell’attenzione dovuta all’economia e alla politica da parte di Parlamento e
Governo.
In altri termini o
il Gip è ricorso al provvedimento di alcuni giorni fa avendo consapevolezza che
l’ulteriore sequestro di beni e servizi non avrebbe compromesso la regolare
attività degli stabilimenti del nord gestiti dal Gruppo Riva, cosa che a lume
di naso parrebbe anche possibile considerando la consistenza economica
dell’impresa, oppure ha torto il segretario nazionale della Fiom Cgil, Maurizio
Landini, nel ritenere la chiusura di detti stabilimenti “un atto di
drammatizzazione inaccettabile” e, in ogni caso, egli ha torto di sicuro nel
richiedere al governo il commissariamento di tutte le società controllate da Riva
Acciai, dimenticando o ignorando che il commissariamento dell’Ilva di Taranto
si rese possibile in virtù del provvedimento della magistratura, ma che a
carico degli stabilimenti del nord non risultano inadempienze e relativi
provvedimenti giudiziari.
Più equo e mirato
sembra il giudizio di Marco Bentivogli, segretario nazionale di Fim Cisl,
perché, mentre diffida il Gruppo Riva dal dare seguito al blocco delle
attività, chiede alla procura di “scorporare dal provvedimento di confisca
tutto ciò che impedisca la normale prosecuzione dell’attività produttiva e
lavorativa”. Richiesta che viene da un sindacato, e che l’esecutivo non sembra intenzionato
a fare propria, né nella persona del ministro Flavio Zanonato, determinato più
che altro e unicamente a chiedere al Gruppo Riva la riapertura degli
stabilimenti chiusi, né in quella dell’ineffabile presidente Enrico Letta che,
nello stile che gli è consueto, si è limitato a esprimere il suo rammarico e la
sua solidarietà per i lavoratori rimasti senza occupazione.
C’è da aspettarsi
qualcosa di diverso dal governo delle cosiddette larghe intese? Un esecutivo timido
come una ragazzina con l’Europa - avrebbe detto Kafka -, tenuto in bilico sul
ciglio del burrone dalla vicenda Berlusconi, solo autoreferenziale nel ritenere
di avere bene operato sin qui, più per i provvedimenti annunciati che per
quelli finora realizzati, che si sostanziano nella provvisoria soppressione
dell’IMU, la tassa più amata dalla sinistra, e nei tanto strombazzati provvedimenti
sulla scuola finanziati, secondo consuetudine, con una nuova tassa sulla casa:
l’aumento della tassa di registro per chi compra, vende o affitta un immobile.
sergio magaldi
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