Con questa autobiografia che tratta soprattutto dell’infanzia, dell’adolescenza
e della giovinezza, Susanna Tamaro torna a parlare dell’argomento che è sempre
stato centrale nei suoi racconti: il proprio “io”. Già, perché anche nel suo
libro più bello e che comunque nel 1994 le ha dato il successo letterario, Va’ dove ti porta il cuore, la Tamaro, in
meno di 190 paginette, racconta se stessa sottoforma di un romanzo epistolare
scritto da Elsa, la nonna materna di famiglia ebraica convertita. Ma cosa
raccontava allora di sé? Non fatti realmente accaduti ma vicende, anche
tragiche, che avrebbero potuto far parte della sua vita ma che ha solo
immaginato in virtù di una sorta di autoanalisi che ha portato alla luce pezzi significativi del suo inconscio.
A quasi vent’anni
di distanza, Susanna Tamaro sembra quasi divertirsi nel ricordo dei fatti
narrati allora, ma al tempo stesso dichiara un po’ enfaticamente che “Va’ dove ti porta il cuore – titolo ben scelto per quegli anni in cui i
giovani, dopo la lunga e deludente stagione della politica, tornavano a fare i
conti con se stessi e con i propri sentimenti – è la storia della ricerca del proprio sé più
profondo” [Op.cit.,p.139,ed. Mondolibri].
“Il grande abbassamento
culturale degli ultimi anni – unito alla carica di giornalisti che hanno invaso
il campo con le loro storie vere in forma di romanzo – ha stravolto il ruolo
della letteratura, facendo credere a molti che un libro altro non sia che una
trascrizione di un fatto realmente avvenuto.
Quante risate
abbiamo fatto con mia madre!
Capitava
spesso infatti, nelle situazioni più impreviste, quando lei svelava di essere
mia madre […]che qualcuno esclamasse:”Ma come? Non è morta?” E lei naturalmente
faceva scongiuri di ogni tipo. Mia madre, infatti, era figlia di mio nonno e
non il frutto di un adulterio, mentre io
non sono stata affatto allevata da mia nonna. Quando già vivevo a Roma,
passavamo le vacanze estive insieme e non perché era mia nonna, ma perché
eravamo anime affini e stare vicine ci rendeva felici.”
[Ibid.]
“Risale a quell’epoca
l’affacciarsi, nei miei pensieri, di una nuova categoria mentale, quella del
vuoto. Prima una cosa c’era, poi non c’era più.” [p. 43]
Così,
non potendo rispondere alle tante domande metafisiche, ai pensieri rivolti
verso l’alto, era quasi inevitabile che finisse per volgere il proprio sguardo in
basso. Non certo all’uomo, che sarebbe stato deludente e anche poco originale,
ma al regno della natura: sassi, semi, fiori, cristalli e animali. Con la
scoperta che la vera bellezza non era quella estetica ma quella segreta delle
leggi geometriche, fisiche e chimiche in grado di mettere ordine nel caos
apparente dell’universo.
Nondimeno,
in questa ostentata descrizione di sé e della propria originalità, indispensabile
per ogni autobiografia che pretenda di farsi leggere, Susanna Tamaro è capace
di regalarci pagine di raffinata arguzia, ancorché amara, sui propri familiari,
come nel caso della zia Marisa, morta in giovane età – per un male incurabile e
misterioso, si diceva in famiglia:
“Tornando a casa per le vacanze di Natale, Marisa si
era fermata un paio di giorni a trovare la sua vecchia amica. Lì […] le era
esplosa una brutta influenza, così aveva chiamato il padre chiedendogli di
poter rimanere a Venezia fino a quando non si fosse sentita meglio. Ma il
padre, uomo inflessibile […] non ne aveva voluto sapere. “Il Natale si passa in
famiglia! A questa regola non esistono eccezioni!”
Così, seppure
molto malata, Marisa dovette mettersi in viaggio da Venezia a Trieste con la
bora, con il ghiaccio, con i treni del 1936. Arrivata a casa, prese parte al
pranzo natalizio – che cosa festeggiassero non è chiaro, visto che erano tutti
dei feroci anticlericali – e si mise a letto. Qualche giorno dopo, in quello
stesso letto, passò dal sonno alla morte.
Era sola in
casa, il padre era uscito per andare al caffè e la madre a incontrare delle
amiche. Rientrati all’ora di pranzo, trovarono il suo corpo ormai freddo. Il
morbo misterioso, il fato maligno, alla fine, non fu probabilmente altro che
una polmonite.” [p.54].
Oppure
parlando della professione di suo padre, nei ricordi di quando era ancora una
bambina, o intuendone le aspettative quando più grande lo raggiunge a Roma:
“[…]mio padre si mise in affari con un lestofante
pseudo armatore e insieme a lui escogitò alcune operazioni truffaldine di
sicuro e facile guadagno. Peccato, però, che non fosse affatto furbo, né avesse
quell’abilità levantina del lato materno della mia famiglia. Tra il Gatto, la
Volpe e Pinocchio, lui sarebbe stato sicuramente Pinocchio. Seppellì gli
zecchini dove gli aveva suggerito il socio e rimase in attesa che crescesse
l’albero di monete d’oro, per poter passare il resto della vita nel Paese dei
balocchi. Ma, al posto dell’albero, crebbero soltanto guai.
Un giorno si
trasferì a Milano. Che lavoro facesse, però, restò un mistero. Ricordo il mio
smarrimento davanti al primo terribile tema: Il lavoro di mio papà. Quel pomeriggio, raggiunsi mia madre in
cucina con il quaderno in mano e chiesi: “Il papà, che lavoro fa?” Lei guardò a
lungo nel vuoto e poi, con un sospiro, mormorò: “Il procuratore”. […] Se un
procuratore è stato mai mio padre, è stato un procuratore di guai.” [p.90]
[…] ormai ero grande e non ci sarebbe stato bisogno
di occuparsi di me. Anzi, in fondo al suo cuore […] sperava che sarei stata io
ad occuparmi di lui […]Lui sperava che, come Biancaneve, mi sarei messa a
spazzare cantando, immersa in un mare di bolle e che avrei preparato
manicaretti il cui profumo si sarebbe propagato fino all’ingresso del palazzo,
io invece speravo di trovare finalmente un padre.
Ci deludemmo
a vicenda.” [p.223]
“[…] Com’era
possibile, infatti, mi domandavo, annullare un matrimonio dal quale erano nati
ben tre figli?
Andai così a
trovare quello che sapevo essere uno dei testimoni della causa di annullamento
[…] mi disse, ‘mi ero preparato a dire ciò che pensavo che volesse sentire da
me, che peraltro era la verità. Gli avrei detto che era un uomo inaffidabile da
tutti i punti di vista, dedito al bere, estremamente promiscuo, insomma un vero
disgraziato, ma, appena aprii bocca, monsignor Milioni mi fece cenno di
tacere.’
‘Non voglio
sapere niente. Mi dica una sola cosa: è massone?’
‘Sì, lo è,
risposi.”
La Sacra Rota
emise così il suo verdetto.” [p. 169].
In conclusione, un romanzo autobiografico
utile a chiunque voglia riflettere su se stesso e/o dare un senso alle tappe e
ai ricordi della propria formazione, un monito utile a non considerare la vita
come possesso, ma come cammino: le due condizioni dell’esistenza tra le quali
siamo costretti a scegliere.
sergio magaldi
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