mercoledì 29 aprile 2015

Qualche considerazione sull'ITALICUM

Immagine ripresa da Lettera 43, quotidiano online indipendente


L’autoimbavagliamento di Corrado Passera davanti al Parlamento, preso in prestito dalla strategia radicale degli anni Settanta, la dice lunga sulle ragioni di politici e opinionisti che si oppongono all’Italicum. Premesso che il banchiere avrebbe fatto meglio a indossare il bavaglio quando era ministro del governo Monti, resta da considerare qual è il senso generale dell’opposizione alla nuova legge elettorale.

 Le principali critiche riguardano:

1)    La “nomina” da parte delle segreterie politiche dei partiti del 60% dei deputati a fronte del 40% eletto col sistema delle preferenze. È l’argomento principe della minoranza del PD e non solo, e se ne comprendono i motivi. Il timore è che nella futura Camera prevalga tra i democratici, a differenza di oggi, una maggioranza nettamente favorevole a Renzi. Peccato che, nel portare avanti questa tardiva e apparente difesa della democrazia, la minoranza del PD si lasci alle spalle la convinzione atavica di gran parte dei suoi componenti, e cioè che il sistema delle preferenze si giochi tutto sulla contrapposizione individuale basata sul denaro, sulla corruzione e sull’ingerenza di gruppi di potere e/o di organizzazioni malavitose. È chiaro che la scelta di una buona parte di eleggibili da parte dei partiti, non è di per sé un antidoto contro la possibile degenerazione del sistema rappresentativo, ma di certo sembra  almeno in grado di attenuarne il fenomeno, soprattutto se le liste dei candidati approntate dalle segreterie dei partiti fossero determinate da elezioni primarie indette tra i soli iscritti di ogni singolo partito. Il sistema prescelto, più che un compromesso, sembra uno strumento per bilanciare esigenze diverse. Da una parte la responsabilità dei partiti nel selezionare i propri candidati [che l’elettore giudicherà, premiando o meno il partito che li propone], dall’altra quella degli elettori chiamati a esprimere le preferenze a prescindere dalle gerarchie di candidati prestabilite dalle segreterie politiche. La proposta della minoranza del PD di rovesciare il rapporto [70% di candidati eletti con le preferenze, 30% prescelti dai partiti], ancorché fosse disinteressata, cela neanche troppo l’obiettivo di introdurre un emendamento che rinvierebbe la legge al Senato, dove sarebbe definitivamente affossata, stante il rapporto di forza tra maggioranza e opposizioni in quel ramo del Parlamento e in virtù del venir meno del cosiddetto Patto del Nazareno.
2)    Il premio di maggioranza accordato alla lista, e non alle coalizioni dei partiti, allorché la singola lista raggiunga il 40% dei voti espressi e, in caso contrario, il ballottaggio tra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti. È la principale obiezione di Forza Italia e anche in questo caso i motivi di bottega sono più che evidenti. Per quel che resta del partito di Berlusconi, un conto è andare da soli, un altro è andarci con una coalizione di centrodestra che comprenda ben quattro partiti e qualche movimento [Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Nuovo Centro Destra, Casa Pound ecc…]. Lo scopo evidente di questa norma della legge elettorale è non solo evitare i cosiddetti “governi di larga intesa”, ma anche attenuare il relativo ricatto dei partiti minori, senza tuttavia impedire la prassi democratica, già al primo turno, di accorpamenti tra partiti per formare una sola lista. Recita, infatti, un articolo in merito: “In caso di ballottaggio, fra il primo turno di votazione e il ballottaggio non sono consentiti ulteriori apparentamenti fra liste o coalizioni di liste presentate al primo turno […]”L’obiezione forzista si rivela dunque pretestuosa. Stando ai sondaggi elettorali, né Forza Italia né probabilmente la Lega di Salvini andrebbero al ballottaggio. Quasi sicuramente ci andrebbe il Movimento Cinque Stelle che, sempre stando ai sondaggi, è il secondo partito in Italia  [con circa il 7% di voti in più della Lega] e che è addirittura il primo, se si guarda all’elettorato compreso tra i 18 e i 54 anni. Per sperare di andare al ballottaggio, dunque, il centrodestra sarebbe costretto a formare una sola lista sin dal primo turno, ciò che i tanti protagonismi rendono difficile.
3)    La questione della pluralità della rappresentanza politica e della tutela delle minoranze. Argomento che sta molto a cuore a Corrado Passera che, con il suo recente partito, ha tutta l’aria di raggiungere, come si suol dire, percentuali da prefisso telefonico. E che per questo s’imbavaglia. Il limite del 3% per entrare alla Camera [dopo i limiti ben maggiori previsti da precedenti stesure della legge e che effettivamente non garantivano le minoranze] mi sembra equo per garantire la presenza in Parlamento delle minoranze, ma al tempo stesso serve a escludere i partiti dell’un per cento della Prima Repubblica che, grazie al sistema proporzionale, portavano a casa una decina di deputati, condizionando poi pesantemente la formazione dei governi.

 Altre questioni, come il numero delle donne da eleggere alla Camera o i tempi di applicazione della nuova legge elettorale non sono invece oggetto di contestazione. Apposite norme tutelano infatti la presenza femminile e l’entrata in vigore della legge è fissato al Luglio 2016, presumibilmente dopo l’approvazione della riforma costituzionale del Senato. Resta invece in piedi la solita obiezione dei “benaltristi”: “C’è ben altro, che la nuova legge elettorale o le riforme costituzionali, a interessare oggi gli italiani” oppure: “I cittadini non potranno sfamarsi con la nuova legge elettorale” e così via dicendo. Affermazioni ineccepibili, ma al tempo stesso pretestuose. Perché, al momento, il Paese non dispone di una legge elettorale degna di questo nome e il persistere del bicameralismo perfetto ritarda e/o impedisce l’approvazione di qualsiasi riforma. È vero che occorrerebbero una serie di interventi per ridistribuire il reddito, colpire finalmente i tanti privilegi corporativi, rilanciare l’occupazione ecc…, ma un governo di “piccole intese”, qual è quello di Renzi, di Alfano e di qualche scampolo di Scelta Civica, può oggi permetterseli? Il mio modesto parere resta sempre la stesso: il giudizio sulle capacità e sull’autentica volontà riformatrice dell’attuale presidente del consiglio dei ministri deve essere rinviato al momento in cui disporrà, e se disporrà, di un’autentica maggioranza, non può basarsi sulle poche e incomplete riforme sin qui introdotte, né tantomeno sulla nuova legge elettorale. La verità è che la polemica contro l’Italicum cela in realtà il conservatorismo della classe dirigente, poco incline a favorire governi che non si basino sui compromessi e “larghe intese”, veri e propri esecutivi paralizzati, dai quali avere la garanzia che tutto resti come prima. Insomma, si ha paura di un sistema in cui chi vince prende tutto e chi perde fa opposizione vera per cercare di vincere la volta successiva. Il timore è persino giustificato in un Paese “bloccato” per cinquant’anni dalla Democrazia Cristiana e dove i governi di centrosinistra e di centrodestra, che si sono alternati al potere nell’ultimo ventennio, hanno dato così tanta cattiva prova di sé. Ma era un sistema falsamente bipolare, in cui ogni polo comprendeva partiti piccoli e grandi e trasformismo e ricatti, così sempre fiorenti nella tradizione parlamentare italiana, erano di casa.

 Pur senza prevedere il “vincolo di mandato”, auspicato soltanto dal Movimento Cinque Stelle, e che avrei visto volentieri nella nuova legge elettorale, l’Italicum cerca di realizzare un sistema elettorale che, senza poterlo evitare, dovrebbe attenuare di molto l’incidenza delle coalizioni e la tradizionale funzione di ricatto dei partiti minori. Certo, l’introduzione del premio di maggioranza fa discutere. A molti sembra più la malattia che il farmaco. Per molti altri è lo strumento che permetterà a Renzi di formare il cosiddetto Partito della Nazione. Purtroppo non ha genitori illustri. A cominciare dalla legge del fascista Acerbo del 1923 che prevedeva i 2/3 dei seggi per il partito più votato e che avesse raggiunto il 25% dei voti espressi. Legge sulla quale, peraltro, espresse parere favorevole [10 contro 8] una commissione parlamentare  presieduta da Giovanni Giolitti  e in cui erano presenti solo tre fascisti. Per continuare con la cosiddetta legge truffa del 1953, proposta da Scelba, ministro degli interni del governo De Gasperi, che concedeva alla lista o a più liste collegate tra loro che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti validi, un premio di maggioranza pari al 65% dei seggi. Per finire col cosiddetto Porcellum del 2005, con il quale è stato eletto l’attuale Parlamento, e che solo a distanza di nove anni [2014], una evidentemente indaffarata Corte Costituzionale ha dichiarato in gran parte illegittimo. Prevedeva un robusto premio di maggioranza per la Camera, e uno più debole per il Senato, creando le premesse per maggioranze diverse nei due rami del Parlamento e dunque per l’ingovernabilità o “le larghe intese”.

 Tutti i sistemi elettorali “a premio” furono dettati dalla volontà di conservare il potere da parte di chi lo deteneva e senza che le opposizioni, divise tra loro, sapessero opporsi. È questo il caso dell’Italicum? C’è innanzi tutto da osservare che a prescindere dal governo fascista che fu il primo a introdurlo, con la benedizione di liberali e democratici, il premio di maggioranza si è rivelato per un Paese come il nostro, fatta eccezione per l’era democristiana quando la pregiudiziale anticomunista a torto o a ragione ne faceva le veci, strumento indispensabile di governabilità. Ciò premesso, il fatto nuovo è che, accanto al premio di maggioranza, viene introdotto per la prima volta l’istituto del ballottaggio. Ciò che non rende affatto sicuro il successo del partito al governo [Il Pd di Renzi, nella fattispecie], perché i cittadini potrebbero benissimo decidere a maggioranza di votare il presunto candidato della lista alternativa, tenuto conto che molte barriere ideologiche sono ormai cadute. Naturalmente, l’Italicum non è certo la perfezione, ma oltre alle critiche di cui sopra, quale proposta organica e alternativa, con qualche possibilità di successo, è stata presentata nei due rami del Parlamento?


sergio magaldi 

domenica 26 aprile 2015

AVRO' CURA DI TE

Massimo Gramellini-Chiara Gamberale, Avrò cura di te, Longanesi, Milano, 2014, pp.189


 Sorprende, ma fino a un certo punto, che questa specie di romanzo epistolare di 189 pagine, compresi l’epilogo gioioso e gli indecifrabili ringraziamenti, abbia resistito per diversi mesi in testa alla classifica dei libri più venduti in Italia. A cosa si deve? Al tema dell’amore deluso e poi trionfante? All’ambiguità di una narrazione che strizza l’occhio a credenti e non credenti? All’ingenuità e al passaparola di lettori conformisti? Alla pubblicità e al potere della televisione? Alla fama dei due autori che insieme ne hanno architettato la risibile trama: Chiara Gamberale, scrivendo per conto di Giò, la sposa delusa e poco sincera di 35 anni, e Massimo Gramellini, prestando la penna a Filèmone?

 Non sono lettere d’amore quelle che, dalla prima all’ultima pagina del libro, si scambiano Gioconda e Filèmone, perché lei è di carne e sangue, mentre lui è uno spirito puro che però conosce bene la vita per essersi incarnato più volte. La fonte di ispirazione del romanzo è onestamente dichiarata nella seconda lettera che l’angelo fa trovare alla donna: “Mi chiamo Filèmone, come l’angelo di Jung e come il marito della favola di Ovidio che realizzò il tuo sogno di un amore senza limiti. Giunti al termine della vita, Filèmone e Bauci, la sua sposa, chiesero a Giove di morire come avevano vissuto: insieme. Il dio li esaudì, trasformando la loro capanna di fango in un santuario e gli anziani coniugi in due alberi posti a guardia del tempio. Accomunati dalla stessa ombra e dalla stessa luce.” [p.17] 

 Il mito di Filèmone e Bauci è narrato nei versi 620-724 del libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio [43 a.C. – 18 d.C.]. Il merito della coppia di anziani coniugi non è solo quello di continuare ad amarsi anche in tarda età e in condizioni miserabili, ma di aver mostrato umana pietà e timore verso gli dei. Sui colli di Frigia – racconta Ovidio – un tiglio e una quercia, posti l’uno accanto all’altra, metamorfosi di Filèmone e Bauci, sono a testimoniare il favore divino:

 Iuppiter huc specie mortali cumque parente
venit Atlantiades positis caducifer alis;
mille domos adiere locum requiemque petentes,
mille domos clausere serae; tamen una recepit,
parva quidem, stipulis et canna tecta palustri.
Sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon
illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa
consenuere casa paupertatemque fatendo
effecere levem nec iniqua mente ferendo.” [op.cit., vv.626-634]

 “Qui venne Giove in aspetto mortale e con lui
Mercurio, signore del cadúceo, senza le ali;
a mille case si apprestarono chiedendo rifugio,
mille spranghe chiusero le porte; solo una li accolse,
piccola invero, e coperta di paglia e di canne palustri.
Ma la pia Bauci e Filèmone di pari età,
qui dimorano da quando erano nel fiore degli anni,
qui invecchiarono, sopportando la miseria
con cuore leggero e mente serena.”[trad. mia ]  

 Filèmone è anche il nome dell’angelo di cui Jung parla nel suo Libro Rosso o Liber Novus, corredato di schizzi e disegni e pubblicato postumo [Das Rote Buch, Patmos, Düsseldorf, 2009; Il Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2010]. Filèmone, benché concepito nelle modalità di una figura reale, come si vede nell’immagine che segue, è la rappresentazione simbolica della saggezza interiore che appartiene all’anima di ognuno o, per restare nella terminologia della psicanalisi, la voce stessa dell’inconscio.







   Il suo primo compito è di ammonire Jung sulla relatività dei pensieri: “Ti comporti  con i pensieri – gli dice – come fossi tu a produrli, invece i pensieri sono dotati di vita propria, come animali nella foresta, o uomini in una stanza o uccelli nell’aria”. L’angelo ha per lui la funzione di guida spirituale, come un vero e proprio maestro che poco a poco abbia il potere di illuminarlo.

 In questa stessa veste, ma con maggiore ambiguità e banalità, Filèmone svolge nel romanzo la sua funzione più importante, come avverte anche la citazione premessa alla narrazione: “In ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo, Carl Gustav Jung”. Forse la nostra psiche è anche più affollata, ma qui Filèmone ha il compito di fare incontrare a Gioconda il suo vero :

 “Non posso impedirti di inciampare. Però posso medicare il tuo piede ferito. E prenderti in braccio, fino a quando non sarai in grado di camminare sulle tue gambe.
Buona festa dell’amore, solitaria anima mia.
Avrò cura di te.” [p.15].

 E, in effetti, tutto comincia nel giorno di San Valentino, quando Gioconda sola e disperata per il suo amore abbandonato e tradito, rinviene nella casa avita una lettera di sua nonna - di cui porta il nome - all’angelo custode. Con un certo scetticismo, anche lei prova a fare la stessa cosa e avrà da Filèmone una risposta che non si attende. È l’inizio di una fitta corrispondenza, fatta di luoghi comuni e “lezioni angeliche” che il lettore è costretto a sopportare, se vuole arrivare a scoprire che “la speranza dell’amore assoluto” non è un’illusione, come a un certo punto arriva a pensare Gioconda, ma una realtà concreta in grado di darci la felicità terrena se, mutando il nostro atteggiamento, sapremo renderci degni di Filèmone e Bauci. E non basta, perché dal racconto della sua ultima reincarnazione, l’angelo di Giò, ci fa partecipi che “l’amore per sempre” è alla portata di tutti.

 Nel romanzo non manca qualche perla di comune buon senso, come nelle parole che Filèmone rivolge a Gioconda nella lettera del 6 marzo: “Ti rivelerò un segreto: la vita, per chiunque abbia l’ardire di credere in lei, è un ingegnoso gioco di specchi. La realtà esterna riflette il nostro stato d’animo e quella interna lo stato d’animo di chi ci circonda.” [p.45]. O come nelle ricette angeliche del 20 aprile: “Come debellare il virus dell’autocommiserazione” e “Come vaccinarsi contro l’epidemia dei sensi di colpa” [pp.64-67].

 Decisamente troppo poco per dare spessore a una trama epistolare, monotematica e di sapore trascendente. È vero che la prosa di Gramellini resta garbata come quella di Fai bei sogni, ma il daimon che dava senso ed efficacia a quella narrazione [leggi la recensione del romanzo del 2012, cliccando di seguito sul titolo: IL ROMANZO E’ MORTO? MASSIMO GRAMELLINI AUTOBIOGRAFIA DI UN GIORNALISTA], si è qui bruscamente mutato in una figura angelica moraleggiante e poco interiorizzata.

sergio magaldi    





sabato 25 aprile 2015

RIBELLARSI E' GIUSTO




 Per ricordare la LIBERAZIONE dal nazifascismo e la RESISTENZA, ma anche ad evitarne la retorica, propongo la rilettura del libro di Massimo Ottolenghi: RIBELLARSI E' GIUSTO, Chiarelettere, 2013: “L’insegnamento ai giovani di un 95enne d’eccezione, torinese di famiglia ebrea, classe 1915, e militante del Partito d’Azione; l’invito ad agire in prima persona per evitare una deriva antidemocratica, una 'nuova shoah dei diritti'. 'Un miracoloso soprassalto' necessario per difendere la scuola pubblica, la cultura e la Costituzione".

s.m.

giovedì 23 aprile 2015

Roosevelt scritto con la doppia "v", manipolazioni e complotti in NUMERO ZERO di Umberto Eco

Umberto Eco, Numero Zero, Bompiani, Milano, 2015, pp.218



 Scrivere Roosevelt omettendo la prima “e”, con la “w” al posto della v”, o Simone de Beauvoir con l’aggiunta di una “e” finale è ormai divenuta consuetudine anche per i giornali più importanti, presi come sono dall’esigenza di “manipolare” le notizie e/o supportare, per motivi di cassetta, ipotesi di complottismo o, al contrario, per smascherarle, piuttosto che preoccuparsi del proto. Questa la tesi di fondo dell’ultimo romanzo di Umberto Eco.

 Protagonista è un giornalista che lavora tra quotidiani di provincia, correzione di bozze, letture di manoscritti che non saranno mai pubblicati e che le case editrici non hanno voglia di leggere, tentativi falliti di scrittura in proprio. Sempre alla ricerca di una collocazione ufficiale, egli è infine avvicinato dal dottor Simei, un oscuro personaggio che, per conto terzi, gli offre ottanta milioni di lire esentasse [siamo nella Milano del 1992] per scrivere al suo posto un libro di cui poi si approprierà. Sarà il memoriale del direttore di un giornale, circa il lavoro di redazione di un quotidiano che non verrà mai alla luce e di cui saranno stampati, in pochissime copie, 12 numeri zero. Serviranno a chi paga – tale commendator Vimercate – per entrare nel salotto buono del potere. Si tratta di “un nuovo quotidiano disposto a dire la verità su tutto”. S’intitola Domani e avrà lo scopo di gettare nel panico il mondo della politica e della finanza. Non uscirà mai – ma questo per il momento deve restare segreto –  perché sarà solo lo strumento per una sorta di ricatto.

 Da chi è formata la redazione del nuovo quotidiano? Oltre al dottor Colonna, il giornalista di cui sopra, che sarà l’assistente del direttore e che è il solo a conoscere la verità sull’impossibile futuro del giornale, c’è una donna, nubile di 28 anni, che per un lustro ha lavorato per una rivista di gossip. E ci sono cinque redattori maschi: l’uno è specializzato in “rivelazioni scandalose” ed è pagato “a pezzo” per la rivista Cosa c’è sotto, l’altro si è sempre interessato di cronaca nera e di incidenti stradali, il terzo ha collaborato a pubblicazioni di cui nessuno ricorda i titoli, il quarto si è per lo più occupato di enigmistica. Il quinto, infine, ha lavorato come proto, ora però il suo mestiere è in crisi, perché “ormai  i giornali avevano troppe pagine, nessuno poteva rileggere tutto prima di andare in stampa, ora anche i grandi quotidiani scrivevano Simone de Beauvoire o Beaudelaire, o Rooswelt, e il proto stava diventando desueto come il torchio di Gutenberg”[p.32].

 La prima riunione di redazione servirà a chiarirsi le idee su come fare un quotidiano alternativo, partendo dal presupposto che “I giornali mentono, gli storici mentono, la televisione oggi mente”[p.41]. Un esempio eloquente è l’immagine del cormorano incatramato e agonizzante, presentata dai media di tutto il mondo durante la guerra del Golfo. In quella stagione era impossibile che i cormorani si trovassero nel Golfo Persico. E desta qualche perplessità anche lo sbarco degli americani sulla Luna, dove le ombre degli astronauti, dopo l’allunaggio, sembrano più compatibili con la loro presenza in uno studio, piuttosto che sul satellite della Terra. Quale sarà lo stile nel dare le notizie? I “fatti” potranno essere interpretati? Sì, a condizione di fare come i grandi giornali anglosassoni: “Se raccontano, che so, di un incendio o di un incidente automobilistico non possono evidentemente dire come la pensano loro. E allora inseriscono nell’articolo, tra virgolette, le dichiarazioni di un testimone […]. Però si potrebbe supporre che il giornalista abbia dato voce solo a chi la pensa come lui […]. L’astuzia sta nel virgolettare prima un’opinione banale, poi un’altra opinione, più ragionata, che assomiglia molto all’opinione del giornalista”[pp.55-56].

 I redattori di Domani si eserciteranno per apprendere come fare una smentita, senza in realtà smentire, del tipo: “Prendiamo atto della smentita ma precisiamo che quanto abbiamo riportato risulta agli atti della magistratura e cioè dall’avviso di garanzia. Il fatto che lo Smentuccia sia stato poi prosciolto in istruttoria, il lettore non lo sa. Né sa che quegli atti dovevano essere riservati e non è chiaro come ci siano arrivati, né quanto siano autentici. Io ho fatto il  compito, dottor Simei, ma, se mi permette, questa mi pare, come dire, una carognata.”[p.63]. Così osserva l’unica donna della redazione che non a caso si chiama Maia e che sembra la sola a soffrire di questo modo di fare giornalismo, basato sull’apparenza spacciata come verità. E il direttore pretende da lei, specializzata in “affettuose amicizie”, che compili oroscopi per i lettori con “previsioni che vadano bene per tutti […] una lettrice di sessant’anni non si identificherebbe con la prospettiva di incontrare il giovane della sua vita, ma il vaticinio, che so, che a quel capricorno lì accadrà  nei prossimi mesi un evento che lo renderà felice va bene per tutti” [p.64]. Sempre sul punto di lasciare il giornale per il disgusto che le ispira, Maia saprà esprimere l’autenticità di un sentimento per un uomo che ha il doppio dei suoi anni ma che è gentile con lei e che mostra di amarla. L’unica forma di verità in un mondo dove tutto è finzione.

 La discussione sui contenuti da mettere nel giornale, offre lo spunto a Umberto Eco per ricostruire, attraverso il redattore specializzato in rivelazioni clamorose, mezzo secolo di storia italiana in chiave di complotto. E Romano Braggadocio – questo il nome del redattore – confida al dott. Colonna di aver trovato la chiave giusta per aprire l’urna nella quale sono custoditi i tanti intrighi, misteri e delitti della Prima Repubblica. Tutto ha inizio con l’uccisione del sosia di Mussolini, mentre il vero Mussolini ripara prima in Vaticano, poi in Argentina. Oltre alla ricostruzione attendibile di come si svolsero realmente i fatti precedenti la cattura del falso duce, la prova decisiva la fornisce il referto dell’autopsia del cadavere di Piazzale Loreto: “E se continui a leggere vedrai che nello stomaco non è stata rinvenuta traccia di ulcera, e però tutti sappiamo che Mussolini ne soffriva, né si parla di tracce di sifilide, eppure era voce corrente che il defunto fosse sifilitico a uno stadio avanzato” [p.144]. Né manca la dietrologia di altri eventi cruciali, come il complotto di “una camarilla ecclesiastico-massonica” che avrebbe determinato la morte di papa Albino Luciani e che per questioni finanziarie, neanche tanto oscure, avrebbe poi attentato alla vita di Giovanni Paolo II.

 Un romanzo, niente affatto “minore”, questo di Umberto Eco, come certa critica ha sostenuto. Uno spaccato, come si suole dire, della politica italiana degli ultimi cinquant'anni, tra fantasia e realtà. E se è vero che i personaggi restano troppo in ombra o appaiono più stereotipi che creature reali, è altrettanto vero che il fine di questa narrazione non è quello di scavare nella psiche dei redattori di un giornale, quanto piuttosto di mostrare, ammiccando e con buona dose di ironia, la complessa fenomenologia che caratterizza la comunicazione del nostro tempo.


sergio magaldi

giovedì 9 aprile 2015

QUALE FUTURO PER L'EUROPA?









 In un interessante articolo pubblicato alla vigilia delle elezioni amministrative francesi, Arnaud Leparmentier, politologo e noto editorialista di Le Monde, riassume in cinque postulati la crisi dell’Europa Unita. Il primo, ormai decaduto, si basava sulla sostanziale parità di Francia e Germania, gli stati fondatori, capaci di aggregare alla neonata formazione gli altri stati europei, in virtù della loro supremazia economica e politica. Venuto meno l’equilibrio di potere tra le due nazioni, con la caduta del muro di Berlino, la riunificazione tedesca e il contestuale declino francese dell’era Chirac-Jospin, la Germania si avviò ad esercitare una leadership incontrastata e a intrattenere rapporti diretti con gli altri stati membri, bypassando la Francia.

 Il secondo postulato nacque dall’idea che, con la caduta del muro di Berlino, si sarebbe più facilmente consolidato il processo di unificazione e affrettata la nascita dell’Europa politica, con i suoi valori universali e soprattutto con un unico mercato e una sola moneta. Avvenne esattamente il contrario, con il pullulare in Europa di una miriade di stati, ognuno con le proprie rivendicazioni.

 Il terzo postulato è rappresentato dal fatto che il crescente benessere europeo dell’ultimo decennio del secolo, in luogo di determinare tutta una serie di misure per favorire l’unità politica all’interno del Continente, portò soltanto all’introduzione dell’euro [ma non al mercato unico e all’unità politica!], con la conseguenza che ci fu un solo vincitore: la Germania, e tanti perdenti, tra i quali soprattutto i paesi del sud dell’Europa.

 Il quarto postulato, basato sull’idea che la libera circolazione degli europei avrebbe promosso l’integrazione dei popoli e l’unificazione politica, non ha dato grandi risultati. E il quinto postulato è sotto gli occhi di tutti: invece di favorire la nascita di uno stato federale, si continua a imporre regole che vengono sistematicamente disattese: la Grecia, l’Inghilterra, la stessa Francia, alla quale viene permesso di violare gli accordi in tutta tranquillità.








 Come si vede, le analisi di Leparmentier non sono nuove né originali, presentano tuttavia un certo interesse perché scandiscono, per così dire, le tappe della crisi europea e quelle del primato tedesco. Va inoltre detto, per la verità, che la sintesi  da me presentata è necessariamente incompleta. Si rimanda pertanto alla lettura integrale dell’articolo. Ma, anche al lettore più attento non sfuggiranno alcune osservazioni.

 Innanzi tutto, si ha l’impressione che l’autore soffra di rimpianti: il venir meno della parità sostanziale tra il suo paese e la Germania [Primo postulato], dal quale poi discendono tutti gli altri postulati. Senza rendersi conto che un vero Stato Europeo Federato poteva nascere soltanto da un patto sostanzialmente paritetico tra le sei nazioni fondatrici, che già al momento della fondazione, avessero rinunciato alla sovranità nazionale, a vantaggio di un parlamento in grado di esprimere il potere esecutivo, un mercato unico e una sola moneta. Ciò che non avrebbe impedito la progressiva aggregazione federativa di altri paesi, così come avvenne per gli Stati Uniti d’America, inizialmente formata solo dall’unione di tredici stati, rispetto agli attuali cinquanta.

 Nel presentare gli altri postulati, Leparmentier non spiega perché la Germania trasse vantaggio da quello che chiama “un pullulement de micro-Etats” [un pullulare di micro-Stati] che fece l’Europa più simile “all’ Impero austro-ungarico che all’Europa dei Sei”. O meglio, egli lo spiega come diretta conseguenza della proliferazione di tanti piccoli stati che determinò la nascita dei “populismi” in aperta ribellione a Bruxelles. A mio giudizio, la causa degenerativa del sistema comunitario e il contestuale rafforzamento del primato tedesco non fu dipeso dal cosiddetto populismo, ma dalla caduta del muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca pagata dall’Europa a caro prezzo, con la remissione del debito tedesco. La Germania unificata si trovò così spalancate le porte di un immenso mercato divenuto “libero” dopo il crollo del comunismo nei paesi baltici e in quelli dell’est europeo. Da allora, non solo l’est, ma tutto il nord del Continente subisce l’egemonia della Germania, ma in cambio ne beneficia con la crescita produttiva e l’aumentato benessere dei cittadini. Mentre i paesi del sud dell’Europa [tra i quali Leparmentier pone non senza dispiacere la Francia] sono condannati ad arrangiarsi per fronteggiare la globalizzazione selvaggia e il rapace neocapitalismo finanziario. E come possono? Con le riforme strutturali, la svendita di risorse, il rigore, l’aumento delle tasse, la decrescita economica e la relativa disoccupazione.

 Rispetto a questa situazione, con più di un’ambiguità, l’editorialista di Le Monde pone l’accento sulla “tentation de François Hollande de créer un front des pays latin” [sulla tentazione di F.Hollande di creare un fronte dei paesi latini], ma per l’appunto si è trattato solo di “una tentazione”, perché – aggiungo io – la politica francese, con più efficacia al tempo di Sarkozy, con vari tentennamenti oggi con Hollande, ha sempre guardato alla Germania, più che al sud dell’Europa, pur di mantenere  sul resto del Continente una illusoria posizione di privilegio che, al tempo stesso, le consenta di infrangere le regole comunitarie sulla spesa e sui bilanci, senza che Merkel e soci di Bruxelles, per ovvi motivi, abbiano a lamentarsene. E nel futuro sarà anche peggio, con il probabile ritorno al potere dello stesso Sarkozy, come le recenti elezioni amministrative fanno presagire.

 Leparmentier ha però ragione nell’affermare che i cinque postulati da lui invocati conducano a una sola conclusione: “L’Europe est dominée par l’Allemagne, dans un union monétaire qui la favorise” [L’Europa è dominata dalla Germania, in un’unità monetaria che la favorisce]. Appare invece utopico e vagamente inquietante allorché afferma che Berlino dovrebbe gestire pienamente la propria egemonia che implicherebbe – egli dice – “prise de pouvoir plus forte mais aussi responsabilité et solidarité bien supérieures” [una presa del potere più forte ma al tempo stesso una responsabilità e una solidarietà ben superiori]. Ancora più utopistico è poi, per uscire dalla crisi,  l’auspicio di un salto di qualità nella creazione di un autentico Stato Federale Europeo. Prospettiva alla quale non sembra credere neppure lui, dal momento che si rimette alla speranza che il prossimo sei di Maggio, a Firenze, si realizzi un nuovo rinascimento, con la Déclaration Schuman 2.0 ! 

 “Ottimismo della volontà, pessimismo dell’intelligenza”? Forse. Ma si può davvero credere che questo grande “Leviatano” che oggi è l’Europa, possa trasformarsi in un cigno elegante per effetto di un convegno e di una dichiarazione? Sono più che mai convinto che l’occasione per creare gli Stati Uniti d’Europa è andata persa oltre mezzo secolo fa. L’attuale politica dell’Unione Europea, dettata dalla finanza internazionale e interpretata dall’egemonia tedesca, non lascia prevedere cambi di marcia a breve scadenza. La stessa realizzazione dei diritti umani universali è distorta a vantaggio di minoranze, favorite più da motivazioni economico-politiche, che da reale consapevolezza. Ci vorranno decenni e diversi mutamenti dello scenario europeo prima che siano possibili reali cambiamenti. Ma, per allora, ci sarà ancora l’Europa o sarà geneticamente divenuta altro?


sergio magaldi